“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 09 November 2015 00:00

Lacerazioni, tra vita e rinuncia alla vita

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Può la reclusione in un luogo parallelo, fisico e mentale, essere una guarigione alla malattia dell'inadattabilità sociale? Può una tragica esistenza eliminare completamente la possibilità di reagire? La storia di Oud è la storia della rinuncia alla realtà, della chiusura in uno spazio (de)limitante in cui ci si contenta di sopravvivere d'illusioni, invenzioni, fantasticherie e “chiamate” spirituali, col solo scopo di rimandare o rinunciare al confronto con sé e con l'altrove.

Oud (Luigi Credendino) − protagonista maschile dello spettacolo Lacerazioni, diretto da Fabio Pisano − vive in una roulotte per sua scelta, dopo aver deciso di chiudere i contatti con il mondo esterno che, con gli occhi di un bambino, giudica prepotente e minatore della libertà altrui; con lui vive anche Amanda (Monica Palomby), una prostituta che gli fa da compagna di avventure e che, a caro prezzo, ha deciso di farsi recludere in questo regno apparentemente fatato e salvifico, così sottraendosi da una quotidianità di droga e di commercio sessuale. La condizione appare dunque complessa, già difficile in partenza, ed una svolta che produca un lieto fine sembra fin dall’inizio della trama un'opzione impossibile.
Dopo una lunga ouverture, accompagnata da musica di vari generi (dal metal rock dei The Doors al cantautorato siculo di Rosa Balestrieri) i due personaggi − di spalle al pubblico, seduti, con i loro vestiti da “lacerati” attaccati allo schienale delle sedie − iniziano a turno e molto lentamente una sfilata di presentazione e svestizione; si concentrano e si preparano palesemente, dunque, a calarsi nei panni dei relitti della società, nel ruolo di figure perdute nella sbandatezza dell’eroina, della cocaina, della solitudine e delle manie di persecuzione. Nel vivo della scena, dominata da un divano rosso sgargiante posto in posizione centrale, l’aria che si respira è ampiamente ovattata: passione ed in-comunicazione si mescolano nelle reazioni dei due personaggi che − soli − abitano questo luogo fittizio, mentale, frutto dell'(ir)ragione allucinata di Oud.
Oud ha voluto creare una realtà alternativa, una dimensione di auto-nascondimento in cui poter fare tutto, per non fare nulla davvero. I due si amano, si odiano, litigano, fanno pace, si sposano, simulando un matrimonio regale pur non stando altrove dal divano rosso già detto. Sembra di essere nel mondo (amaro) delle favole, dove morale e messaggio simil-religioso si intersecano. Amanda segue Oud nella sua follia fino a che non si rende conto dell’isolamento ch'essa produce, fino a che non comprende che la sua vita non è vita davvero. D'altronde − almeno così mi pare − i suoi occhi e le sue espressioni fin dall’inizio mostrano un grado di consapevolezza maggiore, fin dall’inizio cioè il personaggio di Amanda non è convinta nella scelta totalizzante ed autoreclusiva di Oud. Lui, invece, persevera nella sua finzione ed irrinunciabili, proprio perché vitali, gli sono gli arrovellati motivi ammalati con cui ha prodotto, confermato e realizzato questa pseudo-realtà personale: una sorta di Peter Pan, mi viene da scrivere, contraddistinto tuttavia dal tormento, dall paura, dal dolore.
La storia dei due è dunque "tragica", non nell'accezione classica del termine (la condizione di lotta tra l'individuo e un destino esterno all'individuo stesso); uso questo termine per alludere invece al dramma esistenziale e − per quanto la forma espressa in palcoscenico a tratti sia lieve, in apparenza sopportabile sul piano emotivo − l'opera di Pisano va vista e vissuta come un grido lacerante di disperazione giacché i due personaggi  sono casi limite di insoddisfazione, d'alterazione, d'inadattabilità drammatica alla vita consueta, alla realtà esterna, all'esistenza.
Per questo mi prende un senso di amarezza: vivo, vero. E questo senso di amarezza sento che appartiene all'intero pubblico di Lacerazioni che segue attentamente ogni compiuto movimento scenico dei due attori: uno sguardo, un gesto denotato con particolare veemenza, il tono con il quale è pronunciata una frase, una pausa di silenzio, un sorriso, una lacrima.
I dettagli dei movimenti − a tratti una vera e propria coreografia − sono molto importanti e curati e lo si intuisce già dal tempo iniziale dedicato all'allestimento/presentazione in cui i due attori-diventanti-personaggi presentano al pubblico ansie e paure che li contraddistinguono indossandole, liberandosi così della loro condizione precedente: nella quale non ci si ritrova, a cui non si appartiene. Questi movimenti, questo fisico stare sul palco, fa di Lacerazioni la combattuta visione di una lotta tra ciò che si è, ciò che si crede di essere, ciò che si ritiene di debba o si possa diventare, ciò che non si sarà mai. Lotta tra prendere parte e rinunciare, tra essere degni e abdicare, tra tentare davvero o soltanto illudersi di aver tentato. Amanda, abbandonando il mondo costruito da Oud − questa sorta di caverna intima e primigenia della fantasia, con la quale si fa vestito, recinto, gabbia − riesce a tornare indietro, a rievadere e tuttavia non l'aspetta che il ritorno alle condizioni esistenziali precedenti. Oud invece sceglie la libertà ma, mi chiedo, in cosa consiste questa sua libertà? “La libertà è sempre un dentro, mai un fuori” − così, ad un punto, dice ad Amanda per tentativo di tenerla con sé − ma questo “dentro” assieme metaforico e concreto, produce una sconnessione, un voluto distacco, una rinuncia al confronto con il "fuori" ovvero col pezzo di mondo e di presente del quale si fa parte nascendo ed è, perciò, una scelta impaurita, una sottrazione di opportunità, la testimonianza dell'incapacità di affrontare le proprie debolezze, la propria situazione pur avendone in qualche modo preso coscienza.
Pisano fa dunque metafora di una condizione collettiva (la separazione che sussiste tra un'intera generazione ed il contesto socio/civile/economico e culturale al quale questa generazione appartiene) e lo fa facendo apparire sul palco del Nuovo Sancarluccio una vita in particolare: questo Oud mi sembra sia tutti coloro che − per costrizione o per reazione a uno stato di costrizione indotta e precedente − celano la propria paura isolandosi o rimanendo inerti, osservando la vita decidendo di rimanere alle soglie della vita. Solitudine individuale, dunque, che non basta a se stessa e che non tiene neanche chi ti ama, chi ti desidera, chi per un momento crede di poter condividere questa stessa tua scelta, questa tua stessa scelta liminare. Assenza, infine, di libertà ovvero della possibilità di tentare: tra gli altri, assieme agli altri. Assumendosi il rischio anche del fallimento.
Gli applausi infine, giungono meritati.

 

 

U.T. 35 Festival
Lacerazioni
regia
Fabio Pisano
aiuto regia Roberto Ingenito
assistente alla regia Francesca Borriero
con Luigi Credendino, Monica Palomby
costumi Annalisa Ciaramella
scene e suoni Liberaimago
fonte foto di scena pagina FB dello spettacolo
durata 1h
Napoli, Nuovo Teatro Sancarluccio, 4 novembre 2015
in scena 3 e 4 novembre 2015

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