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Friday, 23 October 2015 00:00

L'Amleto di Latella, il pianto e le lacrime di Napoli

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La sceneggiata definisce l'elaborazione di un conflitto
tra l'individuo e il suo gruppo di riferimento.
(Marino Niola)

C'è del marcio in Danimarca.
(William Shakespeare)

Ricordarmi di te? Sì, povero spettro, finché la memoria
conserverà un posto in questo globo sconvolto.
(William Shakespeare)

Appiccia 'sta jurnata 'i tutt' 'a memoria ra' vita mia.
(Linda Dalisi, Antonio Latella)


Sono tre giorni – e tre notti – che rifletto su C'è del pianto in queste lacrime e sono tre giorni – e tre notti – che leggo e rileggo l'Amleto di William Shakespeare.

Sono tre giorni – e tre notti – che non passa una sensazione, intensa al momento dell'uscita dal San Ferdinando di Napoli: C'è del pianto in queste lacrime non è uno spettacolo sulla sceneggiata, non mette in discussione solo la tradizione teatrale, non riflette né argomenta sull'estetica di un genere artistico, oggi morto anche se qualcuno persevera nel trascinarne il cadavere sul palco. Credo invece da tre giorni – e tre notti – che la sceneggiata non sia che la forma esteriore di un dramma interiore, più intimo e nero, per giungere al quale occorre scavare allontanando e sottraendo inizialmente gli orpelli agli orpelli, così come si sottrae la terra alla terra quando si consegna un corpo a una fossa.
L'Amleto dunque e non – banalmente – perché il titolo dello spettacolo rinvia al monologo che il principe rivolge a sua madre (“Tutta lacrime lei”, “Oh, Dio, una bestia a cui manca la facoltà della ragione avrebbe pianto più a lungo”, “Nel giro di un mese, prima ancora che il sale delle più false lacrime avesse smesso di segnare di rosso i suoi occhi stropicciati, si è sposata”) né perché – ancora più banalmente – all'improvviso se ne ascoltano frammenti tradotti in vernacolo, allusioni facili da riconoscere, rimandi che è semplice cogliere mentre si osserva ciò che accade in scena (“Il re fa veglia stanotte e leva il bicchiere, brinda e si scatena”; “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”; “Potrei essere confinato in un guscio di noce e stimarmi re di uno spazio infinito” ma anche “Benvenuti, cari Rosencrantz e Guildenstern!”, “Non tagliare l'aria con le braccia”, “Oh, se questa troppo lurida carne potesse fondersi, sciogliersi e risolversi in rugiada”).
Ho tra le mani una copia dell'Amleto invece perché – da tre giorni e da tre notti – mi chiedo cosa Latella abbia voluto dire davvero, cosa abbia cercato di comunicare, quali parole (nascoste nelle e dalle parole dello spettacolo) abbia tentato di destinare al pubblico e non riesco a non darmi risposta se non leggendo e rileggendo l'opera di Shakespeare. Sì, perché l'Amleto non è solo una vicenda di tradimenti e di potere, di gestione del regno e di riassetto familiare, di calcolo fratricida e passione maledetta, di bramosia sessuale, di esercizio della forza, della violenza e del pensiero che contrasta e cede alla violenza della forza; l'Amleto è anche la storia di un uomo – giovane – che nasce in un contesto e che a questo contesto diventa estraneo, che questo contesto lo rifiuta, lo rigetta e vi si oppone subendolo fino a soccombervi, inevitabilmente. L'Amleto è la storia di chi viene offeso dalle circostanze che ha d'intorno; è la tragedia di chi sente di non appartenere (non più, non fino in fondo) al mondo al quale il fato, il caso o Dio, sembra averlo destinato; è il copione di chi prende coscienza del male che appartiene a certe frasi, espressioni, abitudini che diventano norma, regola, stato di fatto e consuetudine, quotidianità ammalata e contagiosa, virus che s'ispira al momento della nascita e che progressivamente intossica, infetta, marcisce finché non manda al camposanto.

Atto primo, scena quarta. Amleto, Orazio e Marcello sul palco; da fuori s'odono suoni, due salve di cannone, un vocio fastidioso. Il re e la sua corte tracannano sorsate di vino, la tromba sbraita, i commensali danzano, sono unte le dita dalle pietanze del banchetto. “
È un'usanza?” chiede Orazio al principe, il quale così risponde: “Sì, certo che lo è ma, a parer mio, che pure sono nato qui e da sempre conosco la maniera, è un'usanza più onorata se infranta che osservata”. Amleto ci sta dicendo – parlando ad Orazio – che ci sono usanze rumorose, ridanciane, esagerate che gli fanno orrore e che dovrebbero far provare vergogna a chi vi partecipa (ma chi vi partecipa evidentemente non prova alcuna vergogna nel farlo) mentre generano questo sentimento in chi le osserva, da vicino o da lontano, subendole o anche solo rimanendone un estraneo.
I napoletani non mettono il casco. I napoletani rubano e imbrogliano. Ai napoletani non piace lavorare. I napoletani vanno a tre sul motorino. I napoletani non rispettano il semaforo. I napoletani non mangiano: s'abbuffano. I napoletani non conoscono l'italiano. I napoletani invadono le strade di spazzatura. I napoletani urlano quando parlano, non domandano ma insistono, non si muovono ma gesticolano, s'interessano solo di calcio e ascoltano i neomelodici.
Queste stordite orge” continua Amleto – “a oriente e a occidente ci espongono alla maldicenza e al ludibrio delle altre nazioni. Ci chiamano ubriaconi, e dandoci di porci insudiciano il nostro onore e ciò, invero, toglie alle nostre imprese – anche alle più alte – il nerbo e il midollo della reputazione”. Qui il principe ci dice che lui non è come sono alcuni suoi concittadini, che questi alcuni infamano l'intera Danimarca e che – chi abita altrove – fa dei comportamenti e delle scelte di pochi lo strumento con cui racconta un contesto, tutto il suo popolo, la sua storia intera. Non tutti i danesi tracannano vino, vuol dirci Amleto; non tutti i danesi fanno sbraitare le trombe di notte, danzano quand'è ancora calda la memoria di un morto, hanno le mani insudiciate dal cibo eppure – all'estero, nelle altre nazioni – si fa pregiudizio superficiale e stereotipato dei danesi e di chiunque sia danese.
Tu sei napoletano e quindi non metti il casco. Rubi e imbrogli. Non ti piace lavorare. Vai a tre sul motorino. Non rispetti il semaforo. Non mangi: t'abbuffi. Non conosci l'italiano. Invadi le strade di spazzatura. Urli quando parli, non domandi ma insisti, non ti muovi ma gesticoli, t'interessi solo di calcio e ascolti i neomelodici.
Poi Amleto ci dice di più, approfondisce ulteriormente il suo ragionamento: “Accade a certi uomini, che per avere su di sé fin dalla nascita un qualche neo di natura, cosa di cui non sono colpevoli poiché la natura non può scegliersi la propria origine, per il marchio di un solo difetto risultino corrotti, a giudizio generale” anche se “le loro virtù siano pure come la grazia e infinite per quanto è possibile all'uomo”. Questo perché “qualche abitudine” fermenta come un lievito “dentro le forme delle buone maniere”. Io non sono loro ma qualcosa che gli appartiene comunque mi riguarda: ecco l'amara ammissione del principe. Sono diverso ma sono qui, appartengo a questa nazione, abito questo castello, faccio parte di questa corte, anche io uso la spada, non ho ucciso ma saprei uccidere ed anzi le condizioni, gli errori e le passioni di chi appartiene alla mia stessa famiglia mi costringeranno a uccidere. “Una goccia di male”, conclude, “spesso contamina tutto ciò che è nobile e ne fa scandalo”. Io divento loro dunque. Siedo alla loro tavola anche se non mi ci sono mai seduto; tracanno il loro vino anche se mi fa ribrezzo; suono la stessa tromba anche se non ho mai toccato uno strumento; le mie dita sono unte dello stesso cibo anche se, questo cibo, mi  provoca lo schifo.
Io sono napoletano: non indosso il casco, rubo e imbroglio, non mi piace lavorare, vado a tre sul motorino, non rispetto il semaforo e mi abbuffo, invado le strade di spazzatura, non conosco l'italiano, non parlo ma urlo, non chiedo ma insisto, non mi muovo ma gesticolo, m'interesso solo di calcio e ascolto i neomelodici.
Sono figlio e vittima del pezzo di mondo al quale appartengo, per quanto cerchi d'essere l'eccezione rientro anche nella norma, sono altro dagli altri eppure agli altri mi lega qualcosa d'inevitabile com'è inevitabile – di padre in figlio, di madre in figlia – un tratto somatico, il colore degli occhi, il tono della voce e una posa, un gesto, un segno sulla pelle, il modo di camminare, di guardare, di piangere o sorridere.
Sono, per dirlo con le parole che Laerte dedica ad Amleto, suddito della mia nascita.

"La consuetudine, quel mostro che divora ogni sentimento, diavolo delle nostre abitudini" (atto terzo, scena quarta).
Latella mi sta dicendo del rapporto che esiste tra me e ciò che è fuori di me, mi sta dicendo del valore della tradizione e della tradizione quando diventa un disvalore, mi sta dicendo del comportamento che si fa vizio irragionevole, della facoltà di scelta che s'affievolisce e poi si annulla, mi sta dicendo della battaglia quotidiana che un uomo compie per essere diverso e per essere se stesso e mi sta dicendo che − nonostante gli sforzi − questa battaglia può essere perduta.
Latella mi sta dicendo che gli odori e i profumi da cui sono circondato possono diventare una puzza, un tanfo, un lezzo irrespirabile; che certe parole che mi suonano amiche e familiari possono scadere in un rumore vuoto, in un disturbo acustico, in una cantilena onomatopeica, gergale e senza senso; mi sta dicendo che quel panorama è una vecchia cartolina, che quell'atto carnale è una costrizione che violenta, che quel pensiero antico è una condanna che si rinnova.
Latella mi sta dicendo di Napoli e del mio rapporto con Napoli e, per dirmelo, usa il genere teatrale che più d'ogni altro somiglia a ciò che la corte di Elsinore è per Amleto: la sceneggiata. “Io non conosco sembra” dice il principe a sua madre, ovvero il mio dolore è un dolore vero, il mio lutto è un lutto sincero, mentre tutt'intorno il dolore e il lutto non sono che ornamento, vestiario falso, esagerazione sentimentale: ipocrita, patetica, stereotipata. Non indosso, afferma Amleto, un mantello d'inchiostro (ovvero non mi vesto di parole vuote), non respiro forzando il fiato, non lascio scorrere copiosi fiumi dagli occhi, non atteggio il viso con espressioni avvilite giacché “queste sono azioni che un uomo potrebbe recitare” ma io – cara madre – “ho dentro ciò che supera ogni scena” ed è per questo – cara madre – che ogni scena del dolore è per me un'offesa, è per me − cara madre − una vergogna. “Sii come noi” gli ordina il re mentre “Farò del mio meglio per obbedirvi” dice il principe alla regina ma – usciti di scena il re e la regina – Amleto non può che alzare il volto al cielo e pronunciare questa frase: “Oh Dio, come consunte, stantie, viete e futili sembrano a me tutte le usanze di questo mondo!”.
Ecco, mi sembra che Latella per dirmi di Napoli, e del mio (del suo, del nostro, del vostro) rapporto con Napoli (e del rapporto con la storia e con la tradizione, con il passato, con la famiglia, col luogo dal quale si viene o da cui si è formati) abbia scelto la sceneggiata perché la sceneggiata è la forma consunta, stantia, vieta e futile con cui il teatro napoletano ha rappresentato la vita, facendo della vita uno stereotipo teatrale.


Ricordati di me”. "Ricordarmi di te? Sì, dalla tavola della mia memoria cancellerò tutte le annotazioni futili e stupide, tutte le massime dei libri, tutte le forme, tutte le passate impressioni che vi copiarono la giovinezza e le osservazioni, e il tuo comandamento tutto solo vivrà nel libro e nel volume del mio cervello, non mescolato a materia più vile”.
Per questo Latella impone una separazione corporea tra il suo Amleto-protagonista ed il resto della compagnia lavorando per bilocazione: in palco abbiamo colui che ricorda e che attraverso il proprio logorio mentale (ri)mette in scena mentre in un cunicolo scavato nella parete di fondo – spazio cranico coniugato visivamente – si muovono gli spettri di ritorno, i fantasmi del passato. “Tutt' cosa m'aggia arricurdà. Mi voglio arricurdà pure chell' ca' nun se puteva dicere: 'a verità”.
Ciò cui assistiamo non è dunque ciò che accade ma quello che è accaduto e che riaccade solamente perché c'è chi ne fa evocazione, insistenza memoriale che persevera e che non può essere evitata (L''O sole mio che viene recitato inizialmente e il “Vincenzino, Vincenzino” detto ai microfoni per far apparire zio Vincenzo sono esempi di rituali d'invocazione). Per dirla con Shakespeare insomma: “Sulla soglia dei tuoi occhi” – caro protagonista di C'è del pianto in queste lacrime – “i tuoi spiriti s'affacciano stravolti e, come soldati sorpresi nel sonno da un allarme, i tuoi capelli scomposti, propaggini dotate di vita, saltano su e stanno diritti”. Un giovane, dai capelli diritti, volge l'occhio nel vuoto del palco e all'aria incorporea tiene discorso; questo discorso richiama a vita le vite che furono; le vite che furono diventano gli attori della tragedia che ha tra le tempie: “Questo l'ha coniato il tuo cervello”. Così battono gli interpreti, prima ancora di parlare e di apparire: lì, oltre la soglia mentale, varcata la quale passano dal buio dell'assenza alla presenza in palcoscenico.
Azzardo adesso e scrivo che il cunicolo orizzontale sembra quasi la coniugazione scenografica della frase “spalanca la gabbia sul tetto della casa” mentre la foggia iniziale da Edward Mani di Forbice dipende dalla descrizione di Amleto che ne fa la regina (atto secondo, scena prima: i capelli arruffati, senza cappello, il giubbetto slacciato, pallido come la sua camicia, le ginocchia scosse e un'espressione addolorata), dipende dal desiderio di segnare una diversità,
dall'esigenza di un travestimento (rimando alla recita della follia amletica), dalla voglia di fermare un momento pre-tragico (il regalo d'infanzia, dunque la condizione prima della presa di coscienza del fratricidio) e dipende dal fatto che il film di Tim Burton è – esso stesso, cito da Wikipedia – “una fiaba drammatica situata in una visione esagerata e altamente stereotipata del sobborgo americano e della tipica famiglia americana che vi abita”.
Azzardo ancora, in cerca di conferme, e annoto la perfetta coincidenza (con traduzione napoletana) tra l'inizio dell'
Amleto e l'inizio dialogico di C'è del pianto in queste lacrime (“Chi è là?”, “No, rispondi tu. Fermo e rivelati”); annoto che anche Latella – come Shakespeare – si ritaglia un teatro nel teatro, o una scena nella scena, moltiplicando e smascherando la finzione (una decina di minuti del secondo atto di C'è del pianto in queste lacrime); annoto che fa sedere, ad inizio d'atti, il suo protagonista nella stessa posa ma prima a destra e poi a sinistra, come ponendolo allo "specchio retto alla natura", capace di mostrare "alla virtù il suo vero volto, al vizio la sua vera immagine"; annoto che, ad esempio, fa shakespearianamente coincidere la parola “luce” all'intensità crescente della luce, che invade la platea perché tutti vedano e siano compartecipi del tradimento sessuale, matrimoniale e familiare.
Perché, invece, i personaggi portano in grembo o sulla schiena un grosso insetto che li qualifica? Si tratta del primo punto che,
nei miei pensieri, congiunge strettamente l'Amleto come opera con la sceneggiata come genere: forse perché l'Amleto è l'opera di Shakespeare nella quale viene citato il maggior numero di animali (camaleonti, capponi, donnole, cammelli, cavalli, gatti e rospi, topi, maiali, balene, pipistrelli e cornacchie, scimmie, uccelli, serpi, civette, vermi, zanzare e moscerini); forse perché vi si sente un ronzio ("Zzzzzzz"; atto secondo, scena seconda); forse perché vi si dice che Gertrude è “una bestia”, che l'uomo, “bellezza del mondo”, “è il paragone degli animali” o che, senza l'intelletto, non siamo che "immagini dipinte o bestie"; più probabilmente tuttavia perché gli insetti hanno comportamenti ripetitivi, replicabili e replicati ossessivamente e la ripetizione è la caratteristica fondante della sceneggiata, di ogni sua trama, di tutti i suoi personaggi.

Bisognava dare al pubblico” − scrive Goffredo Fofi − “un prodotto sempre uguale, sempre riconoscibile” ed è per questo che la sceneggiata non contempla novità ma solo varianti, non permette cambiamenti ma solo aggiornamenti di maniera. Essa, isso e 'o malamente; isso, essa e 'o 'nfamone; tra essa e isso ll' ommo 'e niente. E inoltre. La netta divisione in classi e l'appartenenza dei protagonisti al novero dei più poveri. La gerarchizzazione tra maschile dominante e femminile dominato, complice, succube, che tuttavia – nella figura Madonnata della madre: santa fino a che non si comporta da puttana – gestisce gli strumenti di riproduzione e sussistenza: affetto (che accumula o sottrae ai figli) e cibo (che distribuisce in quantità uguali o differenti). Ancora. Il desiderio amoroso e l'appetito sessuale che non hanno regole e che aprono ferite, impongono lacerazioni, generano sofferenze, scontri, disfatte. L'imposizione casalinga, fatta di doveri cui adempiere, di precetti da rispettare. L'ossessività indiscreta del vicolo, che vede, commenta, sparla, disquisisce, s'intriga e s'insinua, partecipa finché non si offre come rimedio, spesso peggiore del male. La prepotenza di chi – in famiglia o nei pressi dei confini parentali – pretende di decidere di te, della tua vita, del tuo destino. La legge del quartiere, l'atteggiamento da assumere al cospetto degli altri, la continua rigenesi del maschile, per cui il protagonista deve continuamente confermarsi e confermare d'essere bbuono a fa' ll'ommo, e le minacce, gli spari, il sacrificio dell'eroe o di un innocente, il dolore, la preghiera, il finale catartico, accompagnato dalla canzone di riferimento, le lacrime, ancora le lacrime, le lacrime di nuovo: fino al calare del sipario o ai titoli di coda.
Latella − usufruendo della bravura drammaturgica di Linda Dalisi e di una compagnia che ha pochi eguali oggi in Italia − ripropone ognuno di questi aspetti immancabili, che fanno della sceneggiata una sceneggiata.
La ripetitività, innanzitutto, verbale e fisica: la stessa parola o la stessa frase rinominate in sequenza o replicate; la scena fatta e poi rifatta; la danza gestuale, collettiva, frontale e campionata; il dito in bocca di Valentina Acca; le mani su labbra, orecchie e occhi, di Francesca de Nicolais; il gesto d'abbassare e d'alzare il paniere di Michelangelo Dalisi.
E poi.
La ristrettezza domestica, la povertà, il triangolo amoroso, la madre, il figlio dissoluto e il figlio buono, l'amore sottratto e derubato, la passione sofferta e vergognosa, la vicina insistente, l'innocente violata, i codici d'onore e i precetti, i comandamenti (laici e religiosi), gli obblighi, l'esagerata volubilità sentimentale (il rapporto tra Valentina Acca e Lino Musella), l'ambivalenza emotiva, il ti-amo-
no-ti-odio-ma-ti-odio-perché-ti-amo, l'allusività sessualizzata dei dialoghi, la bella donna contesa, corrotta, ottenuta e così “chiavata”, la fierezza dimensionale del membro maschile e il novero dei nemici, la sacralità desacralizzata della famiglia, il silenzio rispetto al torto subito, la rivendicazione improvvisa, l'odio nascosto dalle forme e le forme che non riescono più a tenere l'odio nascosto e 'o pacchero, il tradimento, la scoperta del tradimento e l'inseguimento, gli spari, la morte dell'innocente, il dolore, la preghiera, il finale catartico, accompagnato dalla canzone di riferimento, le lacrime, ancora le lacrime, le lacrime di nuovo.
È talmente fedele, C'è del pianto in queste lacrime, all'ornamento falso della sceneggiata che ne ripropone anche aspetti apparentemente secondari: l'uomo (Francesco Villano) che si alza infastidito dalla poltrona e, dopo aver sbraitato, abbandona la platea (rimando al legame che la sceneggiata seppe creare con i suoi spettatori: “La prossemicità culturale tra attori e pubblico costituisce l'elemento centrale della comunicazione teatrale della sceneggiata" – scrive Pasquale Scialò − “producendo una virtuale relazione simmetrica ed una partecipazione attiva del pubblico che, non di rado, prende parola scagliandosi contro un personaggio negativo o addirittura facendo incursione in palcoscenico per difendere una figura debole”); il raddoppiamento comico (lo zio Vincenzino; la coppia Acca-Musella) che fa da controcanto, “da commento che esplicita, ripetendola al ridicolo, la situazione dominante” (Goffredo Fofi); la ritualizzazione accennata e momentanea del canto, che ha funzione liberatoria e terapeutica, che evidenzia il pàthos e i tormenti e che serve a generare un rapporto d'empatia neuro-culturale con la società di riferimento, di cui la sceneggiata è “monumento-documento di una stratificazione di lunga durata” (Marino Niola).
Così, quando durante l'intervallo sento una spettatrice parlare con un'altra spettatrice, nell'affannato tentativo di riannodare i legami fittizi imposti dalla trama (secondo me lei vuole lui ma lui non vuole lei, mi sembra che lei sia la sorella di quell'altra, se ho capito bene il marito della “zoccola” poteva essere marito di quella fissata con la pulizia, di chi è figlio veramente, per te, quel figlio? Di chi è madre veramente, per te, quella madre?) mi viene quasi da citarle il precetto che Laerte rivolge a Ofelia: “Queste fiammate, che danno più luce del colore, non devi prenderle per vero fuoco” ovvero: non soffermarti sulle lacrime (false), bada invece al pianto e al dolore (veri), che appartengono a un sol attore (l'Emilio Vacca Assuntella/Giannino) in scena.


San Giuseppe e la Madonna, i tre Re Magi, il bue e l'asinello, lo zampognaro. Nel mezzo nipote e nonna, vittime sacrificali e paganamente cristianizzate nella montatura presepiale delle tradizioni cittadine. Ma anche il panaro − “ci stà nu' munn' intero int' 'o panaro” – che sembra rimandare al presepio di Eduardo, “grande come il mondo”. Basta questa scena finale, basta questo rimando più o meno esplicito, per associare C'è del pianto in queste lacrime al più recente Natale in casa Cupiello? All'uscita dal San Ferdinando ne sono convinto: sono spettacoli contigui, prossimi, vicini, hanno un legame indissolubile e il finale dell'uno chiama e provoca l'inizio dell'altro.
Tuttavia sono passati tre giorni – e tre notti – da quelle impressioni momentanee. Adesso penso che, invece, per quanto alcune suggestioni me li avvicinino, tra i due spettacoli c'è un'importante differenza e così scrivo che C'è del pianto in queste lacrime, proprio per l'ornamento da sceneggiata di cui è vestito, è altro dal Natale latelliano. Per affermarlo mi servo delle parole di Goffredo Fofi: “Nella sceneggiata ogni rivolta è assente e, quando l'ordine a f
ine spettacolo si ricompone con il cattivo punito e il buono premiato, sia pure a scapito di qualche lutto sacrificale, si tratta di un ordine tanto tranquillizzante quanto inquietante, perché la settimana dopo si assisterà ad un'altra storia di pene e di speranze, che produrrà gli stessi dilemmi e la stessa insicurezza”.
Quando va in scena in prima (2012) C'è del pianto in queste lacrime il presepio è ancora intatto insomma, con l'enteroclisma per l'acqua vera, la colla Cervone, il sughero, la paglia ed il cartone, i pastori nuovi nuovi. La stella cometa floreale, per quanto sia invisibile, domina dall'alto; Concetta porta avanti la casa, trascinando il carro; l'illusione − e la mascherata autoprotettiva, autoingannevole ed autoassolutoria dell'illusione − prosegue ancora: nessun figlio ha ancora ucciso, per pietà e per liberazione,
il proprio padre, ha mutato la propria storia, si è allontanato di un passo dal mondo e dal luogo dal quale è stato partorito, nel quale si è formato, di cui è − amleticamente − suddito per nascita.
Dovranno passare due anni perché Tommasino Cupiello soffochi Luca Cupiello,
significativamente costretto all'afasia dopo l'esagerazione verbale della sceneggiata; perché taccia questa recita, perché finisca la commedia, perché sia chiara la tragedia. Dovranno passare due anni perché ci sia il tentativo di rivolta, un  reale atto di diniego, perché un personaggio dica basta. Dovranno passare due anni perché Latella metta la (sua) parola fine.
E non dev'essere un caso – rifletto mentre scrivo e qui concludo – che questa (sua) parola fine appartenga a uno spettacolo (Natale in casa Cupiello) apparso a Roma mentre Napoli, il San Ferdinando ed il suo pubblico, non possono vederlo ancora.





N.B.:
A margine l'articolo su Natale in casa Cupiello di Antonio Latella, richiamato in questa recensione; spettacolo visto presso il Teatro Argentina di Roma.
Alessandro Toppi, Sul Natale in casa Cupiello di Latella (Il Pickwick, 20 dicembre 2014)

 




C'è del pianto in queste lacrime

dramaturgia Antonio Latella, Linda Dalisi
regia Antonio Latella
con Valentina Acca, Leandro Amato, Michele Andrei, Alessandra Borgia, Michelangelo Dalisi, Francesca De Nicolais, Lino Musella, Candida Nieri, Paola Senatore, Emilio Vacca, Francesco Villano
scene e costumi Simone Mannino, Simona D'Amico
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
movimenti Francesco Manetti
assistente alla regia Francesca Giolivo
direttore di scena Marcello Iaie
assistente alla realizzazione scene Marco Di Napoli
fonica Diego Iacuz
organizzazione e foto di scena Brunella Giolivo
produzione Fondazione Campania dei Festival, Napoli Teatro Festival Italia
in coproduzione con Teatro Stabile di Napoli
in collaborazione con stabilemobile compagnia Antonio Latella
lingua italiano, napoletano
durata 2h 20'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 13 ottobre 2015
in scena dal 13 al 18 ottobre 2015

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