“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 12 October 2015 00:00

Istantanee dinamiche

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Un monologo: un corpo, una voce, e, se va bene, qualche accessorio di scena; un monologo è la forma minima e basale del teatro, è teatro ridotto all’essenziale; un monologo è un attore solo in scena difronte al pubblico, un monologo è la forma teatro dalla quale ti aspetti parole e qualche gesto essenziale ad accompagnarle; insomma, da un monologo ti puoi aspettare questo e poco altro.
Anche se...

Anche se poi capita che ti ritrovi in scena un Tindaro Granata che di un monologo – cavato a piene mani dal proprio vissuto personale e familiare – ti fa partitura polifonica e interpretazione gestuale e corporea densa di senso, in cui ogni movimento, ogni piegatura fatta assumere ad un indumento ed ogni modulazione della voce rispondono ad altrettante pregnanze interpretative.
Antropolaroid è un album genealogico di istantanee dinamiche che prendono forma su scena, in un continuum narrativo senza pausa alcuna. Tindaro Granata attraversa le generazioni della propria famiglia, a partire dai propri bisnonni, raccontandone vicende di vita ordinaria, di una vita fatta anche di povertà e tragedie, di un bisnonno morto suicida e di amori contrastati, di povere vite abbarbicate a destini ineludibili e di subalternità atavica ai signorotti del luogo.
Ma quel che a noi preme raccontare, non è la storia che Tindaro ha raccontato (per quello, vi consiglieremmo di andarlo a cercare a teatro e farvela raccontare come la ha raccontata a noi, inteatrata in una forma accorata ed avvincente nello spazio intimo il giusto del Piccolo Teatro del Giullare); quel che a noi preme raccontare è come ci è stato raccontato questo excursus familiare diacronico, che è stato fondamentalmente un modo per dirci “chi sono” e “da dove provengo”, “cosa ero” e “cosa sarei potuto essere”. Semplificazioni. O meglio, semplicità... La sorte, se vogliamo ordinaria, di chi coltiva un sogno e per poterlo perseguire deve scegliere di imbarcarsi nella ricerca di un altrove in cui alimentare le proprie velleità, il proprio desiderio di libertà e di espressione artistica.
Quel che ci preme raccontare è come Tindaro Granata ha preso i suoi sogni e li ha messi in relazione con i suoi ricordi e col proprio milieu familiare, legame profondo da conservare affettivamente, ma da cui affrancarsi per costruirsi la propria vita, per inseguire le proprie aspirazioni; quel che ci preme raccontare è come da tutto ciò sortisca una messinscena che non è semplicemente un monologo, ma un elaborata narrazione, sorretta da una scrittura incalzante e non priva di tratti di leggerezza – cui aiuta anche l’idioma siciliano in cui s’esprime – che fanno stemperare in sorriso anche alcune delle vicende tendenti al truce che pure punteggiano la storia famigliare.
Quel che ci preme raccontare è che in scena Tindaro Granata sa fare della sua voce tante voci, ciascuna diversamente modulata, ciascuna connotante un personaggio del suo universo parentale; e, come se ciò potesse non bastare alla caratterizzazione di personaggi e delle loro storie, accompagna Tindaro la pluralità vocale con una caratterizzazione gestuale: la maglietta allungata giù sul petto, il gilet risvoltato sulle spalle, oppure tirato sul capo a mo’ di schiavina sono altrettanti gesti che in scena si susseguono a caratterizzare un personaggio ed un momento, un discorso e una storia, un racconto e una morale. Puperia che d’un corpo fa tanti corpi, d’una voce tante voci, Antropolaroid attraversa il tempo ed un luogo, affronta il proprio vissuto personale e genealogico riconvertendolo in apologo, in vicenda tipologica da cui trarre un ammaestramento.
E c’è poi il disegno luci: semplice, essenziale, eppure tanto significativo ed efficace nell’accompagnare il dipanarsi della storia; così, se in principio due luci chiare che si accendono sono funzionali ad un salto temporale in avanti, successivamente il giallo ambra di altre luci fungerà da evocazione di un amarcord, di allegrie giovanili di generazioni ascendenti, che egli non ha conosciuto se non in racconto e che rende vive facendole apparire in teatro; e ancora: luci blu che si accendono ad accompagnare i momenti più bui, quelli in cui nella propria piccola saga famigliare fa la sua comparsa il fatto truce, il dettaglio cruento, la notte oscura in cui s’acquatta qualcosa di brutto, “la notte nera” in cui suo nonno commise qualcosa che gli sarebbe pesato per tutta la vita, ricadendo come una nemesi sui destini dell’intera famiglia, ed è qualcosa di cui in scena si tace, per non rompere un antico giuramento, è qualcosa che in scena si mima senza essere declamato, vi si allude senza che sia spiegato. È il lato oscuro, quello che (non) rischiarano luci tendenti al cupo, ed è meccanismo funzionale a creare ulteriore sospensione in una narrazione che è costruita con una circolarità circostanziata, per cui ritorna laddove aveva cominciato, con una bisnonna che racconta dapprima del proprio marito morto impiccato evocando il sibilo di un’impiccagione, di poi, nel finale, la stessa bisnonna offre la “benedizione di una stidda” (stella), al piccolo Tindaro, ricordandogli come non possano esserci bellezza e fortuna senza sofferenza, trasformando metaforicamente quel sibilo iniziale, quel refolo di morte, in un afflato di speranza e così concludendo il cerchio narrativo che racchiude la storia.
C’è il senso della memoria che si tramanda, in Antropolaroid, ed è un senso dinamico e non passatista, è ricostruzione del passato, portato fino al presente, in funzione del futuro.
E c’è un lavoro d’attore che si lascia apprezzare per come è composito, in Antropolaroid, perché capace di fare di un monologo non già una semplice declamazione ad una voce, ma una costruzione teatrale compiuta e strutturata, cui gli applausi finali rendono meritato tributo.   

 

 

 

 

Per voce sola – Parole della nostra scena
Antropolaroid
di e con Tindaro Granata
scene e costumi Margherita Baldoni, Guido Burganza
rielaborazioni musicali Daniele D’Angelo
suoni e luci Matteo Crespi, Sara Chiarcos
lingua italiano, siciliano
durata 1h
Salerno, Piccolo Teatro del Giullare, 2 ottobre 2015
in scena 2 ottobre 2015 (data unica)

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