“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 05 October 2015 00:00

Taranto, stArt up e dintorni – 1

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Teatro, territorio, sacralità: linee guida per orientarsi, per attraversare Taranto e i suoi giorni. L’ILVA è qualcosa in più di uno sfondo archeo-industriale e le case dirupate della città vecchia contribuiscono ad instillare quel senso di caduca crepuscolarità. Eppure quel che si vive e si respira a Taranto in giorni di festival intersecati e sovrapposti (lo stArt up del Crest, Puglia Showcase e misteri e Fuochi del Teatro Pubblico Pugliese) è un clima fattivo, di ide realizzate che meritano di avere un seguito, ad onta delle prospettive di chiusura di stArt up paventate e che, se effettivamente avranno seguito, rappresenteranno l’ennesima tappa di una via crucis del teatro contemporaneo lungo il cammino della sofferenza perpetua.

A prescindere dal livello qualitativo medio delle rappresentazioni di questo contenitore (un festival è uno spaccato del panorama teatrale e ci sta che, accanto a cose buone, se ne vedano altre meno buone), quello che viene da rimarcare dello stArt up del Crest è prima di tutto la bontà organizzativa della proposta, che riesce a concentrare in quattro giorni di festival un’offerta teatrale diversificata, capace di stimolare il confronto tra le varie componenti del sistema (operatori, teatranti, critici, pubblico) in un clima florido, che alle visioni ha accompagnato anche incontri e dibattiti, segnatamente sulla spinosa questione delle residenze e di come stia cambiando il modo di gestirle e di viverle, come stia cambiando il rapporto tra nomadismo e residenzialitàsulla base della Legge 45 e della sua applicazione su scala regionale.
Ciò detto, ci inoltriamo nell’occupazione che precipuamente pertiene al nostro compito, ovvero il racconto del fatto artistico, degli spettacoli che, tra le varie rassegne convergenti, si sono intersecati in quest’ultimo scorcio settembrino.
Un’overdose teatrale spalmata su quattro giorni della quale cercheremo di dare contezza.
Si comincia dal Teatro TaTÀ, nel quartiere Tamburi, con Il matrimonio, adattamento di un omonima opera in due atti di Gogol’, spaccato trasversale ai tempi di una degenerazione sociale, che traspone i maneggi arruffoni e grotteschi finalizzati alla combinazione di un matrimonio da un contesto ottocentesco – quello della Russia zarista – ad uno contemporaneo, che assume i toni e gli stilemi del format televisivo ad hoc, conservando sì i nomi russi dei personaggi, ma calandoli in un contenitore che rassomiglia tanto ad una scatola televisiva nostrale, un divano al centro e personaggi di variegata (ma in fondo omogenea) fattura che vi ruotano attorno; specchio di un voyeurismo esacerbato, che viene altresì evidenziato dagli a-parte proiettati sul fondo e recitati in favore di una camera confinata in un angolo di palco, Il matrimonio è una farsa godibile e ben recitata ancorché pletorica, sovrabbondante nel suo giocare intorno agli intrecci grotteschi che coinvolgono i vari personaggi. Caciara organizzata, su un palco affollato su cui gli attori si muovono con arruffo studiato, con ricercata confusione di ruoli e situazioni, ricreando la nebulosa vacuità di quei contenitori televisivi in cui si abborracciano corteggiamenti in favore di telecamera e si soffia sulla prurigine del pettegolezzo fatuo. In scena la riproduzione di questi meccanismi gioca molto nel contaminare testo originale e stilemi del contemporaneo, ammiccando a rendere scoperto il gioco giocato del teatro (“E allora diamo inizio al gioco”), tant’è che il gioco medesimo invaderà la platea coinvolgendola, come fosse un surrogato dei tanti televoti che invitano il pubblico da casa a partecipare alle decisioni di questo e quel reality show. Farsa scoperta, che ammicca alla duplicità finzione/realtà, giocando su linguaggi e livelli plurimi, Il matrimonio messo in scena da Koreja sconta forse troppo il meccanismo dell’affastello, riuscendo però a ricreare e a suggerire l’ipertrofica vacuità del contemporaneo televisivo e, di riflesso, della società che vi si specchia.
A seguire, ci si sposta al Teatro Orfeo, nel centro di Taranto, dove va in scena Capatosta, di Gaetano Colella, già visto (e qui recensito) proprio due settimane addietro a Bagnoli nell’ambito di Efestoval. Rivedere significa approfondire, avere la possibilità di soffermarsi su dettagli in aggiunta; rivedere uno spettacolo – tra l’altro a breve distanza – dà la possibilità di coglierne qualche sfumatura in più, offre l’opportunità di approfondirne taluni passaggi ed anche, nella fattispecie di fare raffronti sulle diverse location, affratellate da un filo rosso d’appartenenza: se a Bagnoli il Circolo ILVA aveva rappresentato un ideale trait d’union di tra esperienze affini (pur nelle loro specifiche diversità), rivedere Capatosta a Taranto, nella città in cui è nato, che racconta e a cui si rivolge ha di contro un sapore differente, come una protesta urlata da presso, di più, da dentro. La dimensione poi di un palco tradizionale sembra accrescere di quel tanto in più l’efficacia della rappresentazione; dicevamo poi dei dettagli in aggiunta, che magari non avevamo sottolineato nella precedente recensione: così ci soffermiamo un attimo in più su due momenti simili della messinscena, uno all’inizio ed uno più avanti, in cui la vestizione di Andrea Simonetti avviene con l’aiuto quasi paterno di Gaetano Colella, come a rimarcare l’appartenenza a due differenti generazioni, una di padri, l’altra di figli, che condividono un destino ed un lascito che, seppur vissuti da prospettive differenti e distanti, li rendono l’un l’altro appartenenti, come nel coreografico riprodurre delle loro mansioni sulle note di One for You, One for Me.
Di ritorno al TaTÀ, è la volta di Piero della Francesca. Il punto e la luce, di Luca Ricci, messinscena che possiede i crismi della buona idea che non riesce a trovare compiutezza su scena. Siamo nella bottega di Piero della Francesca a San Sepolcro, nel 1444; un velatino scherma la scena, come a voler suggerire un diaframma temporale tra il passato della scena ed il presente di chi vi assiste. Sul palco si riproduce la bottega artigiana dell’artista, in cui un suo apprendista illustra alla cognata di Piero, con l’aiuto di immagini che proiettano sovrapponendoli alla scena gli elementi e le fasi della lavorazione, della creazione dei colori, delle strisce di stoffa dette “cenci di nonna”. Racconto per interposta persona che vuole essere la celebrazione di un innovatore, che scardina e rivoluziona l’arte precedente, prigioniera di stilemi quali il frontalismo e lo sfondo dorato – il cui “campione” nella pièce viene identificato con il Sassetta, dai fautori della tradizione preferito allo stesso Piero – a cui Piero contrappone una ricerca del vero in pittura che passasse attraverso l’uso della prospettiva e della luce. Ricerca del vero e della luce che, invece, la messinscena non ricrea, scontando difetti formali e scelte che non convincono appieno. Fatta salva l’idea registica di fondo, che tenta di coniugare rappresentazione teatrale e proiezioni video, questa scelta stessa non riesce a staccarsi da un mero didascalismo; ma il vero limite di questo spettacolo risiede a nostro avviso nella scelta di un registro attoriale anacronistico, frontale (come la pittura del Sassetta), oltremodo declamatorio e che dilata i tempi della recitazione attestandosi su un ritmo dalle cadenze eccessivamente lente e pausate. Sicché finisce per rimanere alquanto sullo sfondo, come accenno senza profondità, il concetto rivoluzionario dell’arte di Piero, cui si accompagna anche – ma sempre troppo sfumato – il ragionamento su libertà artistica e committenza.
Infine, in chiusura della prima giornata di festival, l’atteso Paradiso – Voi non sapete la sofferenza dei santi, di Armando Punzo, inserito nel percorso tematico di Misteri e Fuochi. Una mastodontica installazione occupa il campo sportivo (o meglio, quel che ne resta), prospiciente il teatro TaTÀ. Il pubblico viene accompagnato da una banda musicale in cospetto di un imponente golgota con quindici croci. Il suono suggestivo di un’armonica a bicchieri prende il posto della musica bandistica e immette nell’atmosfera mistica e suggestiva di uno spazio che promette di animarsi di ulteriori suggestioni. Su di esso si muove una frotta di attori (che forse sarebbe più opportuno definire semplicemente figuranti), affresco mobile di una scena collettiva in cui il bianco è il colore dominante. Lo spettatore assiste a scene che occupano l’intera costruzione scenografica senza che ci sia un focus visuale, centrale o liminare, su cui concentrare l’attenzione; si resta così in uno stato di sostanziale sospensione, come in attesa di una drammaturgia che acquisisca forma, che dia sostanza allo spazio scenico abitandolo di contenuti. L’attesa non sarà soddisfatta del tutto, mentre le suggestioni promesse rimarranno ad uno stato germinale, come traccia di qualcosa che sarebbe potuto accadere e non accade.
La coralità a cui assistiamo è sostanzialmente statica, affidando a pochi simboli il senso intimo e profondo della rappresentazione: la rarefazione simbolica è il contrappunto significativo della maestosità dell’impianto scenografico. Forme di pane offerte al pubblico come fossero la proiezione eucaristica di una promessa mancata, piccole croci conficcate nel terreno ed innaffiate come a voler far germogliare nuova vita, il biancore della vita stessa e del paradiso cui si contrappone l’evocazione della morte nel suo nero panneggio, le fiammelle di speranza che sormontano le grandi croci bianche nel cielo della notte tarantina, mentre sullo sfondo le torri dell’ILVA non smettono di fumigare: siamo dinanzi ad un apparato maestoso, cui però mancano le parole (ed i gesti) per esprimere appieno la portata ed il senso profondo del suo esistere, destinato ad apparire per una notte e mai più, a lasciare una traccia labile nella memoria di chi vi assiste e la sensazione di una irripetibilità che non lasci invece alcun vuoto da colmare.
Spettacolo che promette e non mantiene, magniloquente e afasico al tempo stesso, che appare per non più apparire come un magnifico esercizio di solipsismo compiaciuto, che a nostro avviso manca l’obbiettivo primario per il quale era stato concepito e cioè entrare effettivamente in relazione col territorio e intridersene: non basta che ci siano la gente di Taranto e l’ILVA sullo sfondo affinché questo spettacolo acquisisca un’appartenenza nel qui ed ora (e nel non più) della sua apparizione. Come non basta una simbologia estetizzante a fare di uno spettacolo un evento memorabile. E non bastano gli ultimi fuochi a rischiarare i misteri compositivi che questo Paradiso si lascia dietro.

 

 

 

Puglia Showcase
Il matrimonio
da
Nikolaij Vasil'evic Gogol’
idea e progetto Salvatore Tramacere, Lucio Diana
adattamento e regia Salvatore Tramacere
con Ivan Banderblog, Francesco Cortese, Giovanni De Monte, Carlo Durante, Erika Grillo, Anna Chiara Ingrosso, Emanuela Pisicchio, Fabio Zullino
aiuto regia Giovanni De Monte
scenografia e luci Lucio Diana
realizzazione scene laboratorio Cantieri Teatrali Koreja
aiuto allestimento Angela Chezzi
tecnici Mario Daniele, Alessandro Cardinale
foto di scena Angela Chezzi
lingua italiano
durata 1h 25’
Taranto, Teatro TatÀ, 24 settembre 2015

Puglia Showcase
Capatosta

scritto da Gaetano Colella
regia Enrico Messina
con Gaetano Colella, Andrea Simonetti
composizione sonora Mirko Lodedo
scena Massimo Staich
disegno luci Fausto Bonvini
datore luci Vito Marra
in collaborazione con Armamaxa Teatro
produzione Crest – Teatri Abitati
foto di scena Marco Caselli Nirman
lingua italiano e tarantino
durata 55’
Taranto, Teatro Orfeo, 24 settembre 2015

stArt up Teatro
Piero della Francesca. Il punto e la luce
drammaturgia Luca Franchi, Luca Ricci
regia Luca Ricci
con Barbara Petti, Gregorio De Paola
regia video Alessandro Paci
produzione Capotrave, Kilowatt Festival
foto di scena Luca del Pia
lingua italiano
durata 1h 5’
Taranto, Teatro TatÀ, 24 settembre 2015

Misteri e fuochi
Paradiso – Voi non sapete la sofferenza dei santi
ideazione, drammaturgia e regia Armando Punzo
scene Armando Punzo, Alessandro Marzetti, Emanuela Dall'Aglio
costumi Emanuela Dall'Aglio
musiche originali Andrea Salvadori
con la partecipazione di Orchestra di Fiati “Citta di Crispiano”
diretta da
M° Francesco Bolognino
e con la partecipazione di studenti del Corso di Formazione per “Macchinista Multicompetente” del progetto Legalit-Ars (PON FESR “Sicurezza per lo Sviluppo” Obiettivo Convergenza 2007-2013 del TPP)
collaborazione drammaturgica
Alice Toccacieli, Giacomo Trinci
disegno luci Andrea Berselli
datore luci Fabio Berselli
organizzazione generale Cinzia de Felice
collaborazione organizzativa Domenico Netti, Rossella Menna
amministrazione Isabella Brogi, Marzia Lulleri
produzione Carte Blanche
lingua italiano
durata 1h 30’
Taranto, Ex Campo Sportivo Atleti Azzurri, 24 settembre 2015

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