“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 24 September 2015 00:00

Per vincere ci vuole metodo

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Un palco con due soli microfoni posti a destra e a sinistra quasi sul proscenio, alcune proiezioni video allucinate, una donna con un elegante tubino nero, filo di perle e tacco alto che entra dalla quinta posta a destra con una valigia che conserva simbolicamente tutto il suo mondo, non solo gli oggetti di scena. Basta solo questo per rappresentare un delirio lucido e paradossalmente razionale di una donna che gioca, gioca forte, Playhard, sul tavolo verde e le slot machine della sua vita. Una voce fuori campo accompagna l’ingresso della donna con la sua valigia, stretta in una pelliccetta candida sul vestitino nero, una voce che è quella interiore della donna che aspira solo a “vincere al gioco della vita”, animata unicamente dal “desiderio di una grande vittoria”al gioco.

La voce fuori campo si alterna a quella della protagonista che sottolinea alcuni passaggi del racconto della sua vita da giocatrice, passando anche da una posizione del microfono ad un’altra. La donna cambia abito in scena per indossare, più di una volta, pantaloncini e scarpette da corridore perché il ritmo della sua vita è scandito da una corsa vera fatta di starter/corsa/allenamento.
Il testo della Marino non presenta un’immagine femminile stereotipata di chi ha il “vizio” del gioco, ma il suo personaggio è preciso, metodico, maniacale, si prepara con scrupolo e si nutre con cura per affrontare una performance che richiede il massimo impegno e la massima dedizione. Playhard, il suo soprannome, è una donna normalissima, ha una famiglia, dei figli, un lavoro, paga le tasse, è ligia alle regole ed inserita con un suo ruolo ben preciso nella società. È convinta di avere una marcia in più che molti non hanno: lei nutre la speranza con la sua metodicità, la speranza di una vita migliore e possiede la consapevolezza della lucida follia di poterla ottenere attraverso una grossa vincita al gioco. Non c’è il senso negativo del peccato o il subdolo rimorso di compiere un’azione illegale, non esiste niente di tutto questo nella donna. Nessun alibi morale o moralistico: lei sente di essere un’eroina. Il suo investimento che cura maniacalmente è la speranza. La descrizione della sua giornata passata dalle slot machine dei bar alla sala del Casinò con puntate su qualche tavolo verde è scandita da una ritualità ossessiva che non viene mostrata come tale, ma quasi come se fosse “naturale”. In fondo la donna non mente nemmeno a se stessa quando afferma che la nostra società fonda gran parte dei suoi proventi dal gioco d’azzardo legale e ancora di più gli introiti maggiori sono illegali, perciò se lo Stato vede il gioco come una possibilità legale perché lei dovrebbe farne a meno? Non è un caso che i Paesi europei che più vivono la crisi sono quelli che maggiormente spendono nel gioco d’azzardo, sperando che un colpo di fortuna riscatti la loro vita, la carta da gioco vincente.
Sul palco l’attrice poggia gli attrezzi del “mestiere”: i bicchieri, le carte da gioco giganti sempre con lo stesso Re di Fiori, le monetine sempre più numerose. La musica è presente spesso con un ritmo incalzante ed ossessivo dove i gesti si fanno frenetici, dove monta l’ansia di chi gioca consapevole di giocarsi la vita. “Giocare è una droga meglio della droga”. Il dipendente da gioco d’azzardo deve pensare positivo, è convinto di potercela fare. Verso la fine del monologo, la protagonista ha solo un breve attimo di smarrimento quando confessa, quasi sorvolando sulla tragicità di ciò che sta per dire, che ha perso tutto, non solo il denaro, ma oggetti ed affetti. Con nostalgia pensa a quella vincita effettivamente realizzatasi nel passato che l’ha illusa che ciò potesse ripetersi e ha costruito ed investito tutta la sua esistenza su quel ricordo lontano. Le rimane un euro da giocare e non si arrende, da lì può riprendere il suo sogno di una vita ai Tropici, mentre si stringe nella pelliccetta candida e su di lei cadono numerosi fiocchi di neve, candidi anch’essi.
Realtà e illusione. Così termina un’analisi ben fatta su un dramma troppo diffuso visto con gli occhi dell’artista, non banale, non prevedibile che crea un’immediata empatia con il personaggio che non ha nulla a che vedere con la commiserazione o il facile pietismo. L’attrice Silvia Furlan, dall’eccellente dizione e interpretazione, costruisce un personaggio qualunque di un qualsiasi ceto che alla delusione esistenziale risponde puntando su un numero, su una carta, su un frutto delle slot sfidando la Fortuna a testa alta.

 

 

 

 

Stazioni d'Emergenza
Playhard
concept, testi, VJ
Elena R. Marino
performer Silvia Furlan
produzione Teatrincorso e Live Art, Compagnia Teatrincorso (Trento)
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Galleria Toledo, 22 settembre 2015
in scena 22 e 23 settembre 2015

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