“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 17 September 2015 00:00

Telemachia sound

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È un incandescente fil rouge di altissima qualità quello che dalla colina del Parco Cerillo – dove il 5 settembre ha avuto inizio l'Efestoval borrelliano – strapiomba, in un'inarrestabile colata lavica, fino al mare dolcenero di Bacoli. Su quella soglia si ferma, trovando alloggio nell'hangar del Cantiere Navale Postiglione, un altro luogo storico carico di significati che per una sera diventa spazio teatrale e trionfo della parola messa-in-scena. Gli spettatori, come gli omerici achei portatori di morte, vengono immessi nel ventre pulsante del cantiere e immersi negli amniotici odori di legni antichi che con orgoglio restituiscono ancora l'eco di tutti i mari affrontati e vinti.

È da qui che ha inizio l'Odissea di Mario Perrotta, una 'novel' nel senso attribuito al termine da Henry Fielding di "poema eroicomico in prosa", inteso a fornire l'interpretazione di una vicenda umana attraverso la struttura e l'impalcatura dell'epica. L'intento – consentitemi il paragone da prendere con le dovute misure poiché interessa esclusivamente le spinte creative che precedono la costruzione dell'opera – sembra molto simile a quello che spinse Joyce verso l'Ulisse: "La mia intenzione è di rendere il mito sub specie temporis nostri". Perrotta si avventura nel mito appropriandosene abilmente, perché il suo è un Telemaco che ha bisogno di tutta la sua forza per sostenere, nella sua mente caduca, la figura di un padre fuggiasco; ma allo stesso tempo non può esimersi dal tradire il mito stesso da cui attinge le risorse, e accostando la magniloquenza epica all'antieroe crea continui e riuscitissimi effetti tragicomici.
La ricerca della figura del padre, mai conosciuto e quindi plasmato a proprio piacimento fino a fargli assumere la statura di un eroe, l'attesa, l'idea di un esilio imposto dal fato che deve essere sostenuta e alimentata quotidianamente mediante la narrazione; sono le forze entropiche che spingono Telemaco a voler ascoltare e raccontare storie, belle grosse. E sono loro, le storie, la malta delle sue flebili e sempre meno solide certezze, sulla quale poggia tutto l'allestimento scenografico di un eroe di cartone (che non si è mai visto né conosciuto) che pretende bulimicamente di crescere nell'immaginario del figlio. Infarcire il realismo narrativo di parallelismi col poema omerico è, quindi, l'unico mezzo per trasformare un piccolo uomo e la sua meschinità in un grande eroe, un classico.
Il tempo in cui si svolge la narrazione ripercorre quello più ampio della vita dell'eroe omerico durante quel periplo di odissea dal quale (in questa versione) non ha mai fatto ritorno.
Dialogo, narrazione, soliloquio alternano imprevedibilmente il vernacolare salentino alla magniloquenza dell'epica, ma l'armonia musicale che ne deriva vince da subito ogni eventuale resistenza linguistica dello spettatore, che si consegna spontaneamente a quell'anomia marina. La giacca da cabarettista ed il viso pesantemente ricoperto di cerone aiutano Perrotta a muoversi con proteiforme agilità e occhi senza bluff all'interno dell'unità trinitaristica dei tre personaggi: il figlio, il padre e lo spirito del mare che si manifesta attraverso "Antonio delle cozze", un Proteo elusivo e profetico che ha stretto oscuri patti col mare ed è uomo di silenzio per tutti tranne che per Telemaco. Penelope, la madre, è colei che "vive per chi non torna più" e, pertanto, ha smesso di vivere diventando essenza stessa del silenzio e della speranza vana; insistentemente evocata dal figlio e dalla pubblica piazza non si mostra mai, è una Penelope tutta casa che si nutre di assenza.
La musica, di Mario Arcari e Maurizio Pellizzari, è il deuteragonista di questa rappresentazione, dal sottofondo emerge imperiosa rievocando potenti scenari letterari; così mentre il vecchio del mare – Antonio – affronta con placida sicurezza il mare imbufalito, dai potenti schiaffi acustici delle onde emerge lo spettro del capitano McWhirr con tutta la sua apparentemente stolida determinazione a non retrocedere di un solo passo davanti al Tifone. Identico effetto avviene durante la narrazione dell'isola "Ciclope Organi", quando il mostro grasso, bianco e vendicativo, affronta l'uomo in un qualcosa il cui ritmo dà le vertigini di una corrida, in quel momento si sente il battito pulsante della tragedia imminente, il sound del suo compiersi, e in quel dibattersi apocalittico, per un breve istante, nell'ultimo sguardo del ciclope, si scorge la sagoma di Moby Dick.
L'avventura ha termine con la crescita del figlio, a cui non può che corrispondere il declinare di un padre: "La paternità è forse una finzione legale. Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa?" – fa dire Joyce al suo Telemaco – "Io quando guardo il mare mi chiedo a chi sono figlio. A Nessuno!" – risponde il Telemaco di Perrotta. L'epica ha esaurito tutti i suoi trucchi magici, il tempo degli eroi è terminato, Telemaco si passa le mani sul volto togliendosi il cerone. Forse è arrivato il momento di smettere di vivere "per chi non torna più".

 

 

 

 

Efestoval
Odissea
di e con Mario Perrotta
musiche originali eseguite dal vivo Mario Arcari, Maurizio Pellizzari
collaborazione alla regia Paola Roscoli
produzione Compagnia del Teatro dell'Argine
lingua italiano, dialetto salentino
durata 1h 10’
Bacoli (NA), Cantiere Navale Postiglione, 13 settembre 2015
in scena 13 settembre 2015 (data unica)

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