“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 26 August 2015 00:00

Angelica alla corte dei linguaggi

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Cosa lega il montaggio cinematografico alla morte? Di certo viene naturale assimilare l’assenza di montaggio – un ipotetico lungo pianosequenza – con l’intera vita di ognuno: un film che inizia con la nascita, si dipana lungo le traiettorie esistenziali e termina con l’uscita di scena (la fine della vita come “fine” dell’opera). E poiché non si è ancora girato il film “totale” (i reality ne sono solo un’approssimazione, dato che agli stacchi di regia sulle numerose camere/occhi indiscreti si aggiungono gli stacchi, le interruzioni, degli spettatori, per forza di cose interessati solo a tratti all’osservazione dei concorrenti impegnati a recitare se stessi), il montaggio reca con sé necessariamente l’idea dell’interruzione, della sospensione, della manipolazione che si può operare su un testo solo dopo che è già dato, concetto conchiuso su cui operare scelte a-posteriori.

Per Pasolini il montaggio rompe la continuità del reale e per questo ha a che fare con la morte. La vita conclusa può essere espressa, raccontata, detta, narrata, fruibile come un film pronto da proiettarsi in sala. Teorie cinematografiche espresse nel saggio del 1967 Osservazioni sul piano-sequenza (contenuto in Empirismo eretico) e che sono alla base dell’ideazione dello spettacolo Angelica, scritto e interpretato da Andrea Cosentino, rappresentato nell’ambito del Festival Internazionale del Cinema Laceno d’Oro, giunto alla sua quarantesima edizione. L’anomala presenza di una pièce teatrale in una manifestazione dalla chiara vocazione cinematografica si spiega con la volontà degli organizzatori di ricordare Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dalla sua scomparsa. Intorno alla figura del grande letterato e regista il Festival ha costruito una serie di rimandi che hanno visto il momento centrale nell’assegnazione del premio Camillo Marino alla carriera ad Abel Ferrara, il quale nella serata inaugurale ha presenziato alla proiezione di Pasolini, mentre il giorno dopo ha discusso del poeta di Casarsa in una master class conclusasi con la proiezione de Il Decameron.
Omaggio a Pasolini dicevamo, ma anche ai linguaggi dell’audiovisivo, alla tecnica del montaggio come mezzo specifico per una messinscena originale che include la televisione e le sue modalità produttive.
Sul palco pochi elementi: una carrozzina in fondo a sinistra, sulla destra la cornice di uno schermo televisivo e il portello di un frigorifero, al centro una sedia, un megafono e un abito da sposa sull’assito. Cosentino entra in scena spingendo la carrozzina, prima di sedersi e dare così il via alla narrazione. Funambolo della parola, flusso di una coscienza a voce alta, megafono umano di personalità multiple che lo abitano in un frenetico susseguirsi di cambi di personaggi e punti di vista, di lingue e ruoli. Si comincia con un suo ricordo del Giubileo del 2000, quello con Giovanni Paolo II (il suo primo viaggio giubilare fu nel 1975, come quello del sottoscritto) – qui nelle forme di un burattino che s’affaccia dalla carrozzina – buono per imbastire un canovaccio di sceneggiatura, un soggetto per un film richiestogli da un tale Pier Paolo Palladino (sic). Il Nostro spiega, un po’ restando nei limiti della finzione scenica, un po’ travalicandoli rivolgendosi al pubblico, di immaginare la strana situazione per cui un bambino viene lanciato verso il papa che attraversa piazza San Pietro sulla papamobile, e che invece di essere accolto tra le sue braccia si schiaccia contro il vetro della vettura. Scena alquanto surreale, magari fatta recitare da Dario Fo non solo nel suo consueto grammelot, ma anche in romanesco, in inglese, o senza parole, sempre alla sua maniera. Un’altra storia potrebbe essere quella di descrivere l’incontro con un vecchio del quartiere o con una signora con le borse della spesa. E nel dialogo con il fantomatico committente, Cosentino rilancia le storie e l’affabulazione, reiterando gli inizi e i percorsi mentali (come già Ascanio Celestini nelle sue narrazioni improntate ad una antica oralità). Una dimensione favolistica che si nutre delle memorie (vere o presunte) dell’infanzia in provincia, tra nonne dallo spiccato senso pratico e dalla religiosità tradizionale. Una figura, quella della vecchietta di paese (ma nello spettacolo ora abita in città) che fa capolino più volte tra le linee narrative intersecantesi con le digressioni e i ricordi, quasi avesse una personalità indipendente, un’incontenibile urgenza espressiva. Tra le reminescenze, la processione del venerdì santo al suo paese con la statua della Madonna traballante portata a spalla dai devoti, che il Nostro mima con un’espressione fissa (e in verità perplessa) a dire che l’eternità è quella dei riti, degli elementi culturali che si tramandano da secoli, degli dèi, non degli uomini che invece trovano un senso solo alla fine dei loro giorni con il final cut di Atropo. Una considerazione dal respiro profondo che Cosentino maschera tra le derive di un discorso che ricorre alla leggerezza della comicità senza eccessivi didascalismi o simbolismi, con piglio caotico e naturale. Perché è difficile rappresentare la morte? Per quale motivo le scene in cui avviene sono – a torto – espresse con dei pianisequenza, quando invece il suo statuto concettuale può rendersi solo con la cesura del montaggio? Forse la risposta è, molto più semplicemente, perché un momento così intenso non può essere messo in scena affidandosi ad attori mediocri che affollano le già mediocri produzioni degli sceneggiati nazionali. Come nel caso di Angelica, attrice di una telenovela in cui interpreta Anna, donna dalle dubbie virtù che viene uccisa dall’amante: e la scena dell’assassinio è ambientata in un appartamento di un modesto quartiere, proprio nella casa della vecchina di paese. E qui il Nostro si moltiplica e si divide tra regista effeminato/isterico, attrezzista maldestro, produttore praticone, nella girandola della faciloneria televisiva (così lontana dalla spendacciona grandeur hollywoodiana) con al centro il personaggio eponimo dall’eloquio incerto e l’accento non esattamente da Piccolo Teatro, che proprio non ce la fa a recitare la scena del trapasso (tanto da costringere il produttore a rimediare montando brevi sequenze dei dettagli di girato). Geniale è il modo in cui Cosentino passa a rappresentare scene trasmesse della telenovela: dietro lo schermo tv mima i diversi piani di ripresa (primi piani, dettagli, campi medi) adoperando il suo volto – con o senza parrucca –, Barbie e Ken, macchinine, palline (per simulare l’elettroencefalogramma) mentre i dialoghi reiterano la banalità di queste produzioni. Spettacolo che richiama i grandi eventi mediatici della contemporaneità, come lo tsunami che colpì il Sud Est asiatico nel dicembre 2004 (forse la prima catastrofe democraticamente ripresa da centinaia di cellulari) per esemplificare ciò che s’intende per piano-sequenza, ma anche per sminuire il valore testimoniale dell’immagine cruda, diretta, che non lascia spazio all’elaborazione degli eventi ripresi, che non ne inquadra il senso in un contesto più generale. Un’ansia partecipativa che negli anni si è espressa nei milioni di selfie e di immagini prontamente postate, condivise, re-twittate nell’universo 2.0 della quotidianità. Meglio giocare con le parole, con le voci, i linguaggi che si rincorrono tra i set della tv e le strade di Roma, in cui un Wojtyla parafrasa l’Ecclesiaste farfugliando come il vecchio Eduardo, e a cui non resta, dopo aver perso i fogli dell’omelia, che benedire dietro lo schermo.
Teatro fruibile a più livelli, che sbalordisce per il montaggio visivo, sonoro, segnico, che trova nell’accumulo di situazioni e linee narrative la forza per frastornare l’uditorio, in un vorticoso gioco di rilanci che scongiuri ogni tentativo di farsi veicolo di “tesi” e “messaggi” facilmente attendibili. Un teatro di parola che nello stesso tempo ne supera i limiti non solo con il ricorso ad altri linguaggi espressivi, ma che ne rifiuta le inevitabili implicazioni di senso.

 

 

 

 

Laceno d’Oro – Festival Internazionale del Cinema
Angelica
di e con Andrea Cosentino
regia Andrea Virgilio Franceschi
collaborazione alla regia Valentina Giacchetti
lingua italiano
durata 1h 5’
Avellino, Carcere Borbonico, 20 agosto 2015
in scena 20 agosto 2015 (data unica)

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