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Saturday, 18 July 2015 00:00

Di Tolcachir e d'altre facezie

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Trascorso ormai dalla visione dell’ultimo spettacolo festivaliero un lasso di tempo imbarazzante, l’accidioso recensore si ritrova nella sgradevole – e dolosa – situazione di dover completare l’opera lasciata in sospeso; egli finisce così impegolato nell’affannosa foga di andare a spulciare confusi appunti scarabocchiati su un taccuino sul quale – nella sua inveterata dabbenaggine – supponeva d’aver impresso memoria indelebile (e ripescabile all’atto dell’occorrenza scrittoria) di quanto veduto, ignorando (o inconsciamente rimuovendo) quanto astrusi gli sarebbero poi risultati – come al solito – quei polimorfi grafemi dall’impervia decrittazione con cui suole imbrattare fitti foglietti nella oscurità pressoché totale di platee varie.

E, sebbene la memoria di uno spettacolo valido – uno dei rari casi dell’ultimo Napoli Teatro Festival – tenda a rimanere trattenuta più del ricordo di uno spettacolo brutto, l’accidioso recensore teme, in cuor suo, di non riuscire appieno a raccontare e ad analizzare come dovuto lo spettacolo lasciato in attesa di resoconto testimoniale; sicché, stabilito un muto patto d’impegno con sé e col proprio lettore (probabilmente ignaro, ormai inciabattato e incostumato in una qualche spiaggia dardeggiata dal sole, a tentar d’eludere la calura con marine abluzioni e, magari, perché no, pure ormai volontariamente dimentico di quanto visto nel corso di questo Festival concluso), l’accidioso recensore – complice sempre l’inveterata dabbenaggine di cui sopra – s’assume l’ulteriore impegno (non richiesto, potrebbe obbiettare tra un tuffo e l’altro il succitato lettore inciabattato e incostumato), di aggiungere alle proprie note specifiche sullo spettacolo in questione (che l’accidioso recensore ha finora omesso di nominare: Dinamo, del regista argentino Claudio Tolcachir), qualche considerazione ulteriore e complessiva sulla rassegna festivaliera ormai conclusa e che lo ha visto, incurante dell’accidia scrittoria che poi l’avrebbe imprigionato, caracollare tra Castel Sant’Elmo e il Mercadante ad inseguire questo e quello spettacolo, ad annoiarsi (spesso) per una messinscena vetusta o per una drammaturgia raffazzonata e a divertirsi (più raramente) per una rappresentazione riuscita o per un’intuizione teatrale ammirevole.
Prima però, com’è legittimo che sia, dribblando ancora una volta l’indolenza compagna e tentando ancora una volta lo sforzo della decodifica di quanto confusamente appuntato, l’accidioso recensore intende assolvere al proprio compito sospeso e dar conto del lavoro di Claudio Tolcachir, regista che s’era già avuto modo di ammirare in scena al Napoli Teatro Festival del 2012, allorquando, nel medesimo teatro (il Mercadante), s’era assistito a La omisión de la familia Coleman, spettacolo facente parte del “focus” (perché a questo Festival spesso piace l’idea del “focus”, forse perché consente di evitare di arrovellarsi su nuove idee) sulla drammaturgia argentina, di cui poi non sarebbe rimasta traccia, se non nella memoria di qualche più attento spettatore, all’indomani della chiusura di quell’edizione del Festival.
All’accidioso recensore non era dispiaciuto La omisión de la familia Coleman, tant’è che gli è parso giusto bissare a distanza di tre anni la visione di uno spettacolo di Tolcachir, anche per poter improvvisare un suo personalissimo “focus” sulla drammaturgia del regista argentino. Egli però – sempre l’accidioso recensore – ha riscontrato subito un’evidente differenza, per rimarcare la quale non ha nemmeno bisogno di andare a scartabellare i propri confusi appunti scarabocchiati mentr’era ingobbito in platea, differenza che sta nell’uso del linguaggio: se La omisión de la familia Coleman era giocato molto sulla struttura dialogica e sui rapporti verbalmente esplicitati tra i personaggi in scena, Dinamo di contro presenta una struttura completamente diversa, nella quale la comprensione verbale è decisamente accessoria rispetto a quella eminentemente gestuale, rispetto ai movimenti di scena, rispetto alle dinamiche con cui le tre attrici si distribuiscono nello spazio angusto di un camper, relazionandosi tra loro all’insegna di una comunicazione superficiale che è parte affiorante di una incomunicabilità sostanziale; incomunicabilità sostanziale che appare programmaticamente dichiarata quando, in esergo, il musicista Joaquin Segade, rincantucciato in un angolo di palco con in braccio la sua chitarra, avverte dell’assenza di sopratitoli, dal momento che in scena si parlerà una lingua inventata, proveniente da un Paese inventato: ci si accorgerà ben presto che l’avviso è valido per una sola delle tre protagoniste, mentre le altre si esprimono in spagnolo, mentre in alto passano i sopratitoli.
I tre personaggi in scena sono tre monadi interrelate da diverse forme di incomunicabilità: c’è una nipote che va a stare presso una zia a cui nessuno ha comunicato il suo arrivo, c’è una zia che non comunica con la nipote (e che forse nemmeno la conosce) e c’è una profuga che non comunica con nessuno perché semplicemente giace nascosta fra i pensili e il tetto del camper che occupa la scena. Una casa con le ruote che sembrerebbe suggerire vite in movimento è invece paradigma di staticità, le sue ruote sono lì per non girare mai e per condurre verso il nulla tre vite diversamente in fuga: in fuga da un passato fulgido che non più ritornerà Ada (la zia, un tempo cantante), in fuga da una tragedia familiare e sportiva Marisa, tennista in gioventù, coi genitori morti suicidi in seguito ad una sua bruciante sconfitta, in fuga da chissà dove e da chissà cosa (la fame? la guerra?) Harima, nascosta negli anfratti più disparati della casa semovente.
Ada non comunica con la nipote, riesce solo a parlare ad un microfono al quale affida bislacche prove vocali, retaggio di un passato da star, in cui faceva coppia con qualcuno che non c’è più; un suo vecchio poster attaccato ad una parete ne mostra solo mezzo volto, come a dire che la sua è una vita dimezzata da quando il suo sodalizio artistico s’è interrotto; Marisa non riesce ad essere ascoltata, come non riusciva ad essere compresa dai genitori, mentre Harima non vuol essere intesa né vista da alcuno, se non da qualche congiunto lontano con cui entrerà infine in comunicazione attraverso il computer.
In questa costruzione scenica che condensa lo sviluppo in uno spazio angusto, emerge appieno il tema dell’incomunicabilità, declinato in una forma surreale cui non manca un taglio ironico che vela di godibilità il senso di solitudine che promana comunque dai protagonisti, su tutti Marta Lubos (Ada), che dà vita ad un personaggio che varca i limiti di follie ordinarie per connotarsi come una creatura dal temperamento artistico che sfugge a catalogazioni ed inclusioni sociali; la sua scelta di un confino alle soglie della disperazione, in un camper dalle ruote bucate nel mezzo di una plaga desertificata, pare essere la condizione basilare di partenza affinché la scena possa accogliere ulteriori solitudini, contigue e non necessariamente comunicanti.
Lasciando il camper di Tolcachir e venendo poi a più ampie e generali considerazioni (ché il recensore sarà pure accidioso, ma presto o tardi le promesse le mantiene), avendo visto coi suoi occhi una buona dozzina di spettacoli (tra Festival e Fringe) e di altri avendo udito e letto regesti di sguardi che reputa attendibili, l’accidioso recensore s’è potuto fare un’idea complessiva di quest’ultimo Napoli Teatro Festival e dell’annesso Fringe E45. Ebbene, la valutazione complessiva è parsa in linea con la tendenza registrata nelle edizioni precedenti, ovvero un progressivo e apparentemente inesorabile decalage del livello qualitativo medio della proposta artistica, con dei picchi verso il basso invero imbarazzanti, non degni di un Festival che voglia dirsi tale e che voglia anche fregiarsi di un respiro internazionale; perché ospitare produzioni straniere non è sufficiente ad affrancarsi da certo localismo provinciale che porta in cartellone spettacoli di discutibile valore. Ma questo discorso, che per il Napoli Teatro Festival propriamente detto poteva già esser fatto nelle scorse edizioni, quest’anno ha finito per travolgere anche il Fringe, che del Napoli Teatro Festival aveva rappresentato fino all’edizione scorsa la parte più interessante, proponendo sovente nuove drammaturgie di qualità; quest’anno invece il livello della proposta è stato complessivamente modesto, al punto che il pur sempre accidioso recensore non si può esimere dal chiedersi – e dal chiedere a chi forse non risponderà mai – in base a quali criteri selettivi siano stati scelti gli spettacoli poi confluiti nel cartellone del Fringe. Solitamente c’è da render conto quando non si porta a termine un progetto e, nella fattispecie, si chiede il pur sempre accidioso recensore, chi ha selezionato gli spettacoli di questo Fringe è davvero consapevole della effettiva qualità del lavoro di scouting condotto? (L’accidioso recensore teme francamente di no…).
Da più parti s’odono levarsi voci sdegnate, tastiere brandeggianti invocano con piglio rabbioso alla soppressione di questo Festival e dei suoi sprechi (magari s’accodano al coro di contumelie verso gli “spettacoli inguardabili” anche coloro che quegli spettacoli davvero non li han guardati, ma tant’è), e si sbraita – per lo più sempre dal chiuso delle proprie stanze e dal comodo riparo della propria postazione informatica – contro gestioni dissennate e programmazioni assurde, contro dislocazioni infelici (Sant’Elmo, a quanto pare, non è piaciuta affatto come location, se non forse al solo accidioso recensore, che vi ha trovato facilità di parcheggio e temperature consone al suo, invero nordico gradiente termico), che invero denotano una sostanziale distanza fra il festival e la città che lo ospita ma di fatto non lo “vive” né lo “respira”.
All’accidioso recensore, pur sommamente critico verso la qualità complessiva di quest’ultimo Festival, tutto questo vociare vagamente sdegnato, che invoca chiusure e soppressioni, ricorda tanto le storielle di quei mariti traditi che, per infliggere efferata punizione alle consorti fedifraghe, non trovan di meglio che evirarsi di proprio pugno per far a quelle un dispetto. L’ardita similitudine serve all’accidioso recensore per renderede evidente la propria idea, e cioè che il Festival è e resta un’opportunità, farlo male è e resta un’opportunità sciupata, non farlo affatto sarebbe la perdita di un’opportunità, ovvero una forma di castrazione artistica. È invece auspicabile, dall’ottica ancorché parziale e senza giammai pretesa d’infallibilità dell’accidioso recensore, che da questo Festival, fatto male, si riparta per fare qualcosa di migliore, magari facendo tesoro degli errori, soprattutto in sede di direzione e consulenza artistica, e si comprenda finalmente quanto questa possibilità possa rappresentare e quanto finora non è riuscito ad offrire.
Oltre a rappresentare, per l’autore di queste tardive righe, un’occasione ulteriore per dedicarsi alla visione teatrale e confrontarsi ancora – e magari una volta per tutte vincere – con la propria accidia.

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Dinamo
testo e regia Claudio Tolcachir, Melisa Hermida, Lautaro Perotti
con Daniela Pal, Marta Lubos, Paula Ransenberg
musiche dal vivo Joaquin Segade
scenografia Gonzalo Cordoba Estévez
luci Ricardo Sica
assistente alla regia María Garcia de Oteyza
produttori Jonathan Zak, Maxime Seugé
produzione Teatro Timbre 4
in coproduzione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Festival d’Avignon, Maison des Arts de Créteil Scène Nationale, Fundación Teatro a Mil (Santiago du Chili), Teatro La Plaza (Lima), Centro Cultural San Martín (Buenos Aires), Sesc São Paulo
con il sostegno di Ministère de la Culture de la Ville de Buenos Aires
e di Théâtre National de Bordeaux en Aquitaine
lingua spagnolo (con sopratitoli in italiano)
durata 1h 10’
Napoli, Teatro Mercadante, 28 giugno 2015
in scena dal 26 al 28 giugno 2015

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