“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 21 June 2015 00:00

"Non dimenticateci!"

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“Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa non è il tulipano / che ti fan veglia dall'ombra dei fossi / ma sono i mille papaveri rossi”.
(F. De André, La guerra di Piero)


All’ombra dei fossi, rossa la morte violenta tra i rossi papaveri: un uomo, impugnata l’arma, spara sull’altro, puntandolo con gli occhi fissi nei suoi. Dicono sia il tempo di una guerra grande, dove i grandi risolvono i destini mondiali ed i piccoli si ammazzano senza sosta in nome della patria, di una necessità di giustizia voluta da ragioni senza ragione. Dicono sia il tempo di seicentocinquantamila soldati caduti, di tredici milioni di morti. Pesci nella rete dell’incomunicabilità, senza più acqua: una mattanza.

Dicono, ed è stato.
Lì, si è fatta la guerra; qui, la scena si fa campo d’azione per lanciare acqua sul rogo della strage, come per ricordare quanto è stato, come se a parlare potessero essere le ferite insanabili di tutti i corpi e di tutte le menti cui non si è mai potuto chiedere la parola.
Una scena di trincee si apre sotto la foschia di una luce nebbiosa: arroccati, mucchi di sacchi sparsi, ingrigiti dal polveroso ed acre “profumo della trincea”, nascondono uomini persuasi all’attacco, ad ogni costo. Così, questa tavola di legno che è la scena si fa scatola di umano racconto a difesa di un capitale umano atrocemente investito e non più reso: si potesse nel luogo della persistenza della memoria, questa ne sarebbe – e ne è stata – un’occasione sobria ed eloquente, dove la parola del passato si fa intreccio narrato attraverso alcune precise memorie. Andando  a “spasso con la storia”, per le vie spesso anonime e franate, a cercare le voci di chi non ha più voce e restituirle al tempo del presente ed a quello che verrà.

“Je revois la ville en fête et en délire/ Suffoquant sous le soleil et sous la joie/ Et j’entends dans la musique les cris, les rires/ Qui éclatent et rebondissent autour de moi”.
(Angel Cabral – Michel Rivegauche, La foule).

Gocce di saudade – si rivive l’intramontabile interpretazione di Edith Piaf di un originario valzer peruviano al caldo brivido di una superlativa Serena Pisa – richiamano giorni di festa e di delirio, in un’esplosione di musica, grida e risate. Erano i giorni dei salotti di fine ‘800, della rivoluzione dell’elettricità, dei primi viaggi in auto e nella macchina del cinema, degli entusiasmi patriottici distrattori delle classi sociali: erano i giorni dell’epoca bella. Scorrono e l’idea della guerra si fa cosa certa, nell’illusione della brevità di un lampo: “Natale a Parigi!”, “Natale a Berlino!”, si racconta. Un’illusione lampo: la guerra scoppia e si fa di posizione, di trincea; diventa un fatto mondiale. E l’Italia, dopo un anno di neutrale tentativo di capirci qualcosa, tradisce a patto di sentirsi definitivamente indipendente: nei segreti accordi londinesi, la dichiarazione di suicidio.
La nostra è la guerra del “15-18” e gli italiani l’hanno fatta senza averne neanche il fiato.
Si combatte con le velenose ed ustionanti armi chimiche, con le maschere anti-gas, le corazze Farina e le scarpe di cartone: nella testimonianza di un militare, tra le innumerevoli pervenute, la denuncia dell’inadeguatezza dei soldati italiani, chiamati in campo ad uccidersi arrangiandosi così come veniva. Nulla si capiva e c’era bisogno di fare il possibile per non capire: il Cognac come antidoto “per accendere lo spirito” – si racconta – ed a bruciare per primi furono i cervelli. I sensi vengono meno poco a poco o d’un colpo, la vista, l’udito non appartengono più a questi esseri umani, e nemmeno la coscienza di quanto sono chiamati a compiere: inebetiti, diventano scemi di guerra.
Si legge “nulla di peggiore di quel che c’è prima dell’assalto”: tragiche di paura le ore che precedono la morte, unica certezza per quel che resta di questi uomini. È la guerra mondiale.
In Italia, poi, in questa innaturalezza così dolorosa, qualcosa di bello nasce. Cinquanta anni di Unità e non conoscersi da Nord a Sud, da voce a voce, da uomo ad uomo. Almeno tre anni di guerra e sentirsi figli della stessa madre, riconoscersi fratelli tra le diversità. L’Italia è diversa per colori, dialetti, storia, sapori, ed ora si stringono in un abbraccio fraterno. Miliardi di lettere da e per il fronte lo testimoniano. Tra le tante, quella di un soldato di Catanzaro che scrive alla madre di iniziare a prepararsi alla culinaria, a cucinare il pesto genovese.
Tra le stesse e tutte le altre, sempre, questo disperato monito: “Non dimenticateci”.

“Scrive sempe e sta' cuntenta: / io nun penzo che a te sola / Nu penziero me cunzola, / ca tu pienze sulamente a mme. / 'A cchiù bella 'e tutt'e bbelle, / nun è maje cchiù bella 'e te...”
.

Scivolano sul ghiaccio di questo dolore rigido, le parole struggenti e melodiche di una delle dichiarazioni d’amore più belle di ogni tempo, di un soldato, nonostante tutto, innamorato della sua donna, della sua terra, della vita.
Ma la guerra avanza, spietata, e con essa l’incoscienza delle azioni. Un generale chiede al suo tenente com’è possibile che non si sia mai ferito, come che si mostri così insicuro sul senso della guerra. Il tenente: "In guerra non si è sicuri di nulla, neanche di essere sicuri". "Vincere o morire, questo è il nostro motto" – replica, impettito, il generale – "e moriremo tutti!".
La tregua del Natale 1914 non fu che un sospiro di illusorio sollievo, eppure anche questo “storico”. Il risveglio di quel 25 Dicembre fu a colpi di calci ad un pallone, senza distinzioni tra alleanze internazionali; ci fu da bere e da sorridere, insieme; quei fratelli si sono scambiati oggetti personali per non dimenticare quel momento di inaspettata bellezza. Fino al contrordine dei superiori, cui seguì una battaglia tremenda: sul campo, le tracce rimaste non furono che di quegli oggetti scambiati.
Sarebbero stati ancora, e per molto, i giorni della “Grande Guerra”.
Non era facile fare la guerra, non era facile farla uno contro un altro. Quegli uomini si uccidevano tra loro guardandosi negli occhi. "Ci insegnavano a ragionare, ad ubbidire, a comandare altri soldati" – "a tirare ad un uomo a due passi da me". – Pensava: "Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa".
“Basta, mamma mia”: da una lettera, l’ennesimo urlo disperato rivolto da un soldato agonizzante alla Vergine.

Il Capitan della compagnia
egli è ferito e sta per morir
e manda a dire ai suoi alpini
che lo rivengano a ritrovar.

I suoi alpini gli mandan dire
che non han scarpe per camminar
“O con le scarpe o senza scarpe
i miei alpini li voglio qua”.

“Cosa comanda sior Capitano
i suoi alpini eccoli qua!”.
“Io comando che il mio corpo
in cinque pezzi sia taglià”.

Il primo pezzo alla mia Patria
che si ricordi del suo alpin.
Il secondo pezzo al battaglione
che si ricordi del suo capitan.

Il terzo pezzo alla mia mamma
che si ricordi del suo figlio alpin.
Il quarto pezzo alla mia bella
che si ricordi del suo primo amor.

L’ultimo pezzo alle montagne
che lo fioriscano di rose e fior!
L’ultimo pezzo alle montagne
che lo fioriscano di rose e fior!

Dal cinquecentesco canto funebre a questo rivisitato dalla tradizione alpina nel tempo di questa guerra. Qui, come in scena, riproposto integralmente. Perché le ragioni della guerra non conoscono ragione. Ma la conoscenza di quanto è stato, che ci ha resi uomini molto meno e molto più, ci spetta. Di diritto, di dovere.
Chiedendo alla memoria di persistere, si rende la vita a quelle voci che, scavalcate dai latrati dei più “grandi”, non hanno avuto il tempo di comprendere cosa avessero già deciso per loro, per tutti, per noi. E “grande” è stato il sacrificio di quel silenzio imposto senza pietà: il silenzio – della vita che si perde – con cui si paga in ogni guerra.
La dignità della memoria, nella seria intimità di questo racconto che approda al Nostos.

 

 

 

 

La Grande Guerra
adattamento drammaturgico Massimiliano Donato, Giovanni Granatina
regia Giovanni Granatina
con Giovanni Granatina, Salvatore Veneruso, Antonio Granatina
musiche Salvatore Prezioso, Giancarlo D’Angelo
voce Serena Pisa
costumi Gina Oliva
foto di scena Giancarlo D'Angelo
produzione Nostos Teatro
coproduzione Accademia Italiana “D. Cimarosa”, Den Creativity Space
Aversa (CE), Nostos Teatro, 14 giugno 2015
in scena dal 12 al 14 giugno 2015

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