“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 February 2013 04:30

Come se non ci fosse mai stata

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Prima della scena. L’attore è già in scena. Jeans e maglione di lana anni ‘90. Aria stordita. Farfuglia qualcosa tra sé e sé, mentre strofina ritmicamente, compulsivamente quasi, la mano sinistra lungo il fianco. Piano piano, mentre Giampiero Judice comincia a parlare, si smorzano le luci e comincia il suo monologo. Nulla in scena, oltre il buio fondale. Solo un lampadario minimale, una piccola luce elettrica che suggerirà per tutto il tempo una luce irreale, artificiale, di realtà altra, quale quella che ci colpirà, ci martellerà impietosa per tutto lo spettacolo.

 “Nel ‘92 avevo 22 anni”. L’incipit. La guerra. Una guerra vicina, a 500 chilometri da casa, giusto sull’altra sponda del Mediterraneo. Una guerra dirimpettaia eppure già dimenticata, come se non fosse mai esistita. Ma prima della guerra c’è l’esistenza normale, a Milano. Gli amici, le ragazze, le canne, Charlie Parker, morto a 35 per gli eccessi. L’indeterminatezza di non sapere cosa si è e cosa si vuole fare. “Io volevo essere come lui. Nero e arrabbiato”. Mani e voce sapienti che costruiscono lo spazio. L’infanzia, le bambine che giocano con le Barbie e i bambini con i soldatini. La vediamo la mensola con i soldatini. E poi? Poi la guerra nei Balcani. Le notizie edulcorate di piccoli scontri, scaramucce, regolamenti di conti. La curiosità, il senso di avventura, un pretesto, andare a prendere i nonni (la mamma di origini croate). Un viaggio rocambolesco con un amico, Paolo, e le macchine fotografiche, infine l’arrivo nel paese dei nonni. Loro non vorrebbero andare via, lasciare il campo, il mulino, le pratiche burocratiche del resto richiedono tempo, a meno che... c’è sempre un a meno che... se si arruolasse, per aiutare i Croati, i nonni potrebbero partire subito. Zagabria. Hotel Continental. Lì ci sono i cronisti internazionali, non escono fuori, restano lì tranquilli a raccontare la bella favola degli scontri isolati. Ma la realtà è ben diversa: “Qui la gente sparisce. Qui è pieno di fosse comuni”. Paolo torna a Milano, lui decide di restare, per i nonni, perché possano tornare in Italia, al sicuro.
Una voce irreale, con uno strano accento marcato, irritante a tratti, ci avvinghia, ci cattura, ci lega e ci fa prigionieri. Ci impone di ascoltare. Ci sospende il fiato in un ritmo sincopato. Vorremmo tirare il fiato. Vorremmo una battuta comica. Vorremmo poter vedere la guerra come un film di Kusturica. Vorremmo sentire meno l’odore del sangue, dei corpi putrefatti, lasciati a decomporre, in balìa dei corvi e del pattume. Vorremmo sentire la poesia della Guerra di Piero, vorremmo continuare a sentirci pacifisti. Vorremmo sentirci estranei. E invece continuiamo a seguire, a veder materializzarsi l’orrore, la bestialità umana, la pulizia etnica, la sopraffazione dell’altro in nome di un odio atavico, covato sotto la cenere per secoli o decenni e allora il vicino, l’amico, cessano di essere tali, si trasformano in un cane da ammazzare, profanare, sottomettere, perché discendente di chi ha ucciso i propri congiunti cinquant’anni fa o l’altro ieri. La guerra trasforma. Il paese di Andersen, con le case colorate e le oche, si trasforma nel suo rovescio, con i tetti bruciati, le bombe, i massacri. Forse è inevitabile, ogni fiaba ha un lato oscuro, poche cose sono inquietanti quanto le fiabe. La guerra trasforma tutto, soprattutto chi la fa. Nulla è più lo stesso. L’orrore intride la mente, come il sangue dei compagni ha intriso le mani e il corpo. Quell’orrore permea ogni spazio, fisico e mentale. Si fa trappola da cui non si può uscire. L’inferno dei Balcani. Il vero incubo comincia quando se ne esce. Quando si torna a casa. Dopo aver visto l’orrore. Dopo aver vissuto l’orrore. Dopo averne fatto parte. Non si esce puliti dalla guerra. Il nostro protagonista fugge, è l’unico modo per uscirne, quando si rende conto di essersi abituato troppo all’orrore, di averci preso gusto. Torna. Ma non torna più. Non è più lo stesso. Se prima era uno grumo indeterminato di aspirazioni confuse (voleva fare un po’ il musicista, un po’ il fotografo: “Mi sentivo tanto Robert Capa... Nel frattempo mi facevo delle gran canne”), adesso è un grumo disperato di umanità devastata dal senso di colpa. Torna dalla guerra con la faccia da spettro. E se pure cerca di avere una vita normale, se pure assume l'enzima della felicità (la serotonina), la sua faccia da spettro, il demone, la furia interiore del senso di colpa, non può lasciarlo in pace. Non si può essere lo stesso dopo aver ucciso un uomo. Dopo averlo ucciso in guerra. Perché? Perché la regola numero uno in guerra recita che bisogna sparare per primi, a Napoli si direbbe senza sapé leggere né scrivere, bisogna farlo prima che l’altro ti spari. Ma era proprio necessario? La domanda resta. Anche quando si uccideranno altri uomini. E nella mente impazzita dal dolore e dall’orrore ruotano in loop altre domande, altri demoni, altri sensi di colpa. Era davvero necessario? Era giusto? Era giusto far tornare in Italia i nonni? Dalla Croazia all’Italia, poi, col fascismo, di nuovo in Croazia, ora di nuovo deportati, seppure a fin di bene. Questa è la guerra e il disordine che si porta appresso. L’individuo non è più arbitro del proprio destino, ma sasso in balìa delle onde del caso.
E noi siamo in balìa di questa ipnotica narrazione. Avvinti ai sedili. Coscienti dell’impossibilità di chiudere gli occhi e fare finta che tutto ciò non sia successo. Magari perché l’incidente di un amico a guerra finita, ci ricorda che quella guerra è vicina, nel tempo e nello spazio. Resta una gamba di legno e il desiderio di giustizia. E per chi l’ha vissuta? Che speranza c’è oltre la rabbia, oltre il bisogno di urlare, il bisogno di non dimenticare, perché dimenticare è morire, è non avere più motivi per vivere? “E pensavo a Charlie Parker che era morto a 35 anni solo come un cane”. “Ascoltavo il metronomo. Invece delle note mettevo i ricordi su quei tempi, temendo che dimenticando li avrei ammazzati due volte". La musica come sfogo, come ossessione, come urlo, come preghiera, come voce, come domanda. “Suonavo e basta”. Pausa. Respiriamo. Applaudiamo. Storditi. Commossi. Scossi. Cambiati? Non so, ma scrollati dal torpore dell’illusione di non sapere, come se non ci fosse mai stata. Come ha detto qualcun altro: “Ricordate che questo è stato”.

 

 

Balkan Express. Destinazione Sarajevo
Nema problema (storia di un ritorno)
di
Laura Forti
regia Laura Forti
con Giampiero Judica
produzione Fondazione Teatro Due
lingua Italiano
durata 1h 10’
Salerno, Teatro Ghirelli, 18 febbraio 2013
in scena 18 febbraio 2013 (data unica); dal 19 al 24 febbraio Sala Assoli

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