“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 14 June 2015 00:00

Del caffè soltanto la posa

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Fare Goldoni o rifare Goldoni. Fedeltà o tradimento. Due scelte parimenti legittime, le quali possono trovare senso e ragione nell’apparire in scena; possono trovare senso e ragione qualora chi le apparecchia per la scena, rimanendo fedele o tradendo, interpreti il testo traducendolo in forma viva. Perché si può prendere Goldoni, Shakespeare, Molière rispettandone alla lettera il testo eppure offrirne ad ogni apertura di sipario una nuova visione, riconsiderando lo spazio scenico, i costumi, le luci e i movimenti in assito; oppure si può prendere Goldoni, Shakespeare, Molière e manometterne scientemente il testo, i personaggi e le indicazioni di scena e offrirne il legittimo tradimento.

Nell’uno e nell’altro caso sottende alla scelta un’idea registica che sia tale, una visione che, partendo da quel che è già scritto, che è stato già recitato, visto, applaudito o al limite anche fischiato, s’assume la responsabilità di rielaborare per la scena ciò che verrà visto e applaudito, o al limite anche fischiato.
Ci accostiamo alla visione di questa Bottega del caffè firmata da Maurizio Scaparro avendo come riferimento goldoniano (o pseudo-goldoniano) ultimo e precedente Il servitore di due padroni di Antonio Latella, passato per Napoli poco più di un anno fa; abbiamo ancora negli occhi (e nelle orecchie) più che la recita recitata della prima parte di quello spettacolo, la seconda parte in cui il testo diveniva pretesto, grimaldello per scardinare un impianto teatrale consolidato, destrutturazione a vista del contemporaneo muffito funzionale alla ricostruzione di un contemporaneo nuovo; abbiamo ancora negli occhi (e nelle orecchie) il disappunto, la disapprovazione di un pubblico che dinanzi alla “rivoluzione” di Latella reagiva in maniera scomposta e divisa, in ogni caso prendendo partito su uno spettacolo che divideva ma che, dividendo, suscitava reazione e discussione. E che in ogni caso dava corpo ad una istanza legittima di rinnovamento.
Ci accostiamo a questa Bottega del caffè firmata da Maurizio Scaparro e sin dal principio non abbiamo bisogno d’affaticarci granché per accorgerci che siamo al cospetto di un’operazione diametralmente opposta a quella condotta da Latella; La bottega del caffè andata in scena al Napoli Teatro Festival appare in assito con tutte le stigmate dello spettacolo tradizionale, della lettura filologica, della fedeltà al dettato goldoniano in senso lato. E fin qui niente di male; come si diceva poc’anzi, nella legittimità della rielaborazione ci può stare benissimo anche una lettura “classica” dell’opera. È però auspicabile che nella rilettura di un’opera, ancorché filologica (pedissequa, con qualche minima variazione) vi siano comunque delle scelte registiche che connotino “quella” messinscena, che le conferiscano un’anima ed una identità, mettendo in evidenza taluni aspetti piuttosto che taluni altri, offrendo una visione fedele sì, ma che abbia anche la capacità di mostrare la propria specificità, altrimenti si rischia di trovarsi dinanzi ad un mero un esercizio per filodrammatici.
Ebbene, La bottega del caffè di Scaparro mostra – quasi ostenta – la propria vocazione alla staticità ed alla ignavia; è una riproposizione antiquaria d’un vecchio modo di fare teatro, cui ben s’attagliano certe desuete quanto stucchevoli convenzionalità da parte del pubblico (l’applauso all’ingresso in scena dell’attore, l’applauso a scena aperta dopo una “tirata” dell’attore, l’applauso all’uscita da una scena dell’attore); è una riproposizione antiquaria (e antiquata), La bottega del caffè di Maurizio Scaparro che sembra dichiarare – quasi ostentare – la propria vocazione retrò sin dall’apertura del sipario, con una scenografia che occupa l’intero palcoscenico ricomponendo il campiello dell’azione; apparato scenografico che trasmette una sensazione di bidimensionalità, che appare quasi come una dichiarazione, programmatica e involontaria, della piattezza che la messinscena denoterà nel suo complesso. Vecchio l’impianto, obsolescente la scena, d’antica foggia i costumi (ma su questo non v’è granché da obiettare), di vecchio stampo anche la scelta recitativa, che opta per toni declamatori e gestualità convenzionali. In sostanza, in questa Bottega del caffè firmata da Maurizio Scaparro  non riusciamo a trovarci altro che una stantia riproposizione in stile ancien régime di un classico riproposto pedissequamente, senza che un’idea registica di fondo si sostanzi in ribalta.
I nuclei concettuali della commedia goldoniana, ambientata durante il Carnevale veneziano (ovvero i concetti di verità e finzione scrutati nell’universo borghese di una società in trasformazione) rimangono mero accenno verbale; non abbiamo ad esempio altro che una battuta e due mascherine a ricordarci che siamo a Carnevale; così come tutto il gioco delle verità vere, delle verità presunte, delle verità narrate e spettegolate, delle verità mezze e duplici, rimane ancorato ad una mera esposizione dialogica di maniera, senza che se ne colga e se ne rimarchi appieno la pregnanza, senza che si lasci emergere il gioco sottile di dissimulazioni che sottende alle dinamiche umane che intercorrono tra i personaggi e che hanno in Don Marzio il ruolo cardine.
Ancora: le luci e le musiche. Non sfuggono dalla sostanziale piattezza di questa Bottega del caffè né il disegno luci, né il “commento sonoro”, se così si possono chiamare gli sparuti arpeggi di violino che sottolineano  le affacciate al balcone della ballerina ed il monologo finale di Don Marzio; le luci di scena assolvono all’unica funzione di accompagnare il digradare del giorno nell’evolversi della trama, che va dall’alba al tramonto del giorno di Carnevale, mentre le musiche “firmate” da Nicola Piovani assolvono ad una funzione del tutto anodina e marginale, confinate in quei brevi momenti cui s’è testé fatto cenno.
Da tutto ciò consegue che La bottega del caffè di Maurizio Scaparro si consegna alla memoria come un vecchio avanzo di palcoscenico, sopravvivenza residuale di un modo di fare teatro obsoleto, vetusto,  e che per di più mal si coniuga con quelle che dovrebbero essere le prerogative di un Festival, per sua stessa natura vetrina del contemporaneo e non già teca museale.
Perché è possibile portare in scena Goldoni, Shakespeare, Molière, rivoltarli come un guanto oppure lasciarli intonsi, tradirli o rimaner loro fedeli, ma è deprecabile farli affogare nella polvere; polvere che nella fattispecie assume l’aroma stantio d'un caffè del quale è rimasta soltanto la posa.

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
La bottega del caffè
di Carlo Goldoni
adattamento Maurizio Scaparro, Ferdinando Ceriani
regia Maurizio Scaparro
con Pino Micol, Vittorio Viviani, Manuele Morgese, Ruben Rigillo, Carla Ferraro, Mariangela Robustelli, Ezio Budini, Giulia Lupi, Alessandro Scaretti
musiche Nicola Piovani
scene e costumi Lorenzo Cutuli
luci Maurizio Fabretti
movimenti coreografici Carla Ferraro
foto di scena Salvatore Pastore
produzione Fondazione Teatro della Toscana
lingua italiano
durata 2h
Napoli, Teatro Mercadante, 8 giugno 2015
in scena 8 e 9 giugno 2015

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