“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 12 June 2015 00:00

Prometeo o della Libertà

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Il corpo di quello che sembra essere un uomo giace legato: le braccia dietro la schiena, il polso unito all’altro polso. Sul torace e lungo la colonna vertebrale presenta diverse ferite: tagli più o meno lunghi ed escoriazioni più o meno larghe si vedono anche al costato, sui fianchi, tra le scapole, all’altezza del collo, sugli avambracci. Devono bruciare questi graffi, queste ferite: di giorno la pelle è arsa dal sole, mentre di notte è il vento a toccare le carni, generando continue fitte dolorose. È scritto infatti: “Tu odierai il sole, eppure per tutta la notte pregherai perché il suo sorgere offuschi il freddo brulicare delle stelle e sciolga i geli del mattino”.

La testa è inclinata e poggia quasi sul petto, il respiro è lento (lo si intuisce dai movimenti del ventre), le gambe leggermente divaricate. Scalzo, indossa un pantalone marrone, di tela, di cotone o di lino: non saprei dire. Se ne sta quasi immobile dunque. Mi vengono in mente ancora le parole di Eschilo: “Ecco le tue catene, ecco la tua roccia. Nessuna mano ti scioglierà”. Mi vengono in mente le parole di Robert Lowell: “Non ti puoi muovere di un dito, vero? La tua mano non può più risolvere nulla. D’ora in poi né l’azione né il sonno interromperanno i tuoi pensieri”.
Non riesco a scorgerne i connotati. Colpa della penombra (che ore saranno? Vale la cronometria della vita ordinaria o quella dilatata del teatro? È in corso il tempo degli dèi o quello degli uomini?), colpa soprattutto del cappuccio che gli copre la testa e che non mi permette di vedere naso, bocca, orecchie, nuca. Di profilo, se ne sta come se ne sta un condannato, un prigioniero, un uomo posto in una gabbia all’aperto. So che si tratta di un attore e che questo attore è Prometeo ma Prometeo chi è? “Altri si ribellarono e furono più fortunati. Si ribellarono, furono sepolti. Ora a malapena incurvano la convessità della terra. Chi li cerca non li trova. Chi cerca me, mi vedrà e imparerà la lezione”. Qualcuno che ha tentato la ribellione, forse; oppure qualcuno che ha sostenuto il Potere che ora domina ma che, nei confronti di questo Potere, deve aver commesso un’infrazione, un peccato, “una provocazione”. Il Potere, infatti, non può “passare sopra alla disobbedienza senza perdere” la propria onorabilità. Ancora: chi è? Qualcuno che desidera la morte ma al quale la morte – madama pace, livellatrice degli spasmi e degli ardori, soffocatrice d’ogni patimento e d’ogni illusione – viene negata perché gli sia negato il riposo, la dimenticanza, perché il suo perdurante castigo funga da esempio. Chi è questo Prometeo quindi? È un Cristo, tradito e condannato dalla comunità di cui fa parte? È il Poeta, ridotto alla solitudine e dunque alla separazione dal popolo cui destinava le sue parole? È l’iracheno che ha per parete le sbarre di Abu Ghraib? È l’islamico, piegato in ginocchio, schiacciato dal caldo rovente di Cuba e pressato dalla suola di un soldato americano a Guantanamo? È il terrorista o sedicente tale che attende un processo destinato a non avvenire mai e al quale si nega il cibo, il sonno, una tregua? È l’anarchico che ha fallito la sua missione solitaria, il rivoluzionario abbandonato dai suoi stessi compagni, è forse il consigliere del sovrano caduto in disgrazia come cadono in disgrazia i Polonio di Shakespeare? Chi è questo Prometeo che adesso è qui in scena, seduto e mostrato su una pedana nera e rialzata, mi chiedo quando d’intorno s’ode ancora l’eco della parola antica – sonoro corale affidato a una voce singola – mentre sul fondo sono sfumate la sequela d’immagini in controcolore: negativi sfocati, percezioni in frammenti, linee da distorsione visiva, microscene ridotte in pulviscolo o cenere, dettagli ingigantiti e dunque inafferrabili nella loro totalità.

“Ardenti immagini terrestri sprizzano e crepitano” nel #Prometheus#2 di Raffaele Di Florio. Il loro luccichio viene incontro alla platea dalla parete di fondo, che fa da schermo, alternando visioni comprensibili a liquide emanazioni che si dileguano dopo pochi secondi. Il lampo è un abbaglio, l’abbaglio sono due fari che illuminano per una frazione brevissima la platea e i suoi spettatori. S’ode un battito ancestrale e reiterato, che fa seguito al canto evocativo – alla malia metrica – da cui tutto questo prende la sua origine. Le Oceanine appartengono al corpo di Io ed Io −“speranza che non vede” − non ha diritto di parola ma di presenza, funge perciò da collettività e figura isolata, da coro e da testimone cui pure è negata l'osservazione diretta della tortura, delle rivendicazioni reciproche, delle dissertazioni contrapposte.
Di lato, battendo sul ferro la suola perché al rimbombo s’aggiunga rimbombo, l’arrivo dell’Efesto/Oceano, entrambi in un corpo perché è comune per quanto diversa la deferenza, la rinuncia alla lotta e alla libertà delle due figure eschilee. “Mi si può torcere con la stessa facilità con cui si torcono i miei metalli ardenti” dice di sé Efesto nella riscrittura del Prometeo di Lowell, poi continua affermando: “Mio padre mi raddrizzò con la sua folgore. Si impara a camminare sulla retta via dopo aver avuto le gambe storpiate”. E Oceano? Rimbalza “tra il tiranno e la vittima, giustificando il tiranno alla vittima e la vittima al tiranno... sempre giustificando e placando”, desidera servire e tuttavia sentirsi libero, cammina ma il suo camminare è uno strisciare, sente il legame del sangue ma comprende anche l’inevitabilità (e dunque l’utilità personale) della sottomissione. Va fatta la stessa domanda già compiuta per Prometeo: chi è questo Efesto che manifesta anche tratti e momenti da Oceano? È l’esecutore materiale, è il torturatore inflessibile, è il confidente capace di alternare il sibilo all’urlo, la distanza alla pressione, la tregua all’incedere incalzante. È il carceriere d’America, il marine in missione umanitaria e conquistatrice, è l’interrogatore secondo il modello imposto dal Patrioct Act? È l’aiutante del tiranno, che sarà seppellito dal tiranno cui fa da servo o dall’usurpatore che ne prenderà il posto? È un uomo al cospetto di un altro uomo, che si fa dio al cospetto di un altro dio poiché questa relazione contempla e riguarda la Vita e la Morte, la Giustizia e la Legge, il Caso e il Destino?
#Prometheus#2 è in questo incontro, è in questo corpo a corpo, è in questo dialogo a due con terza presente/assente (Io come schiera d’umani, popolo, donna portatrice di futuro, madre generatrice del sovrano che priverà del trono il sovrano).

Il tema di #Prometheus#2 mi sembra sia la tirannide perché è la tirannide il tema vero del Prometeo incatenato di Eschilo, perché è la tirannide il tema della traduzione ricompositiva di Robert Lowell. L’atmosfera desolata della roccia del Caucaso vale quella di un’antica cella segreta, quella di una torre seicentesca in cui si pratica la detenzione dei nemici, di un campo di prigionia contemporaneo. Non è un caso che Jonathan Miller, nel mettere in scena il Prometeo di Lowell, l’ambientò nel cortile di un palazzo rinascimentale: le mura a fare da sfondo, il colonnato di statue degli dèi a sovrintendere allo spettacolo. La tirannide va intesa certamente come potere temporaneo, va intesa come gestione più o meno duratura ma comunque momentanea del presente, va intesa come atto realizzato di Forza e Potere, come applicazione effettiva del sentimento di Paura, come limitazione liberticida del concetto di Possibilità. Ma la tirannide va intesa anche come ciclica alternanza di ordine/corruzione/riordine in cui uccidere significa venire poi uccisi, come accade con Shakespeare e i suoi Giovanni, i suoi Riccardo, i suoi Enrico. Sappiamo infatti che − se Zeus è un tiranno e Prometeo è la vittima ribelle − il figlio di Zeus, che non è ancora nato, è la figura del destino, è la vendetta che avrà in futuro il suo inizio, è l’ordine che troverà un nuovo assetto, un nuovo nome, un nuovo re. C’era Urano, “poi venne Crono, il padre di Zeus”, poi Zeus. Verrà il figlio che, come sempre, è “più forte del padre” (“Ogni gola affamata” – si sente, non a caso – “sarà ingoiata da una gola ancora più grande e famelica”).
C’è però una differenza – o meglio: un’unicità – che appartiene al Prometeo: pur essendo una tragedia quest’opera è anche un mito: per questo esprime una storia sacra e primordiale, mette in contatto Cosmo e Terra, offre un oggetto che diventa creazione e pur trovando un suo autore appartiene al buio dei tempi, all'oralità sovraindividuale. Per questo il Prometeo esprime una storia della civiltà (il passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura attraverso il fuoco e ciò che ne deriva), per questo contiene pensiero politico e possibilità d’applicazione antropologica, per questo racconta del contesto arcaico e di quello feudale, per questo diventa il racconto di Dio e di Cristo o di Dio e di Satana, metaforizza la scienza e la degerazione mostruosa della scienza (Shelley); per questo sembra un'anticipazione del Discorso sulle origini e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini di Rousseau (scritto ventidue secoli dopo); per questo dice della gerarchia (dell'Olimpo e dell'Impero, del Regno, del Parlamento) ma dice anche del disordine anti-gerarchico; per questo ha come protagonista una divinità che viene intesa pure come il “più nobile santo e martire del calendario filosofico” (Marx), emblema delle masse che soffrono “sulla stretta superficie di questa terra” (Camus), “santo patrono del proletariato” (Thomson).
È stato però forse Kafka a comprenderne maggiormente la natura mitica, ad un tempo assoluta e incompleta, sfuggente e variabile: riportandone le quattro leggende (le aquile che gli divorano il fegato, la fusione con la roccia, la dimenticanza assoluta, la stanchezza di lui “che non aveva più ragione di essere”) lo scrittore praghese asserisce che – provenuto da un fondo di verità – il Prometeo deve terminare nell’inspiegabile. È questa inspiegabilità che permette a Eschilo di rappresentarlo teatralmente senza skēnē ma invece con l’ausilio di una sopraelevazione scenica (il pagos) e l’uso di un macchinario (la mēkhanē) per l’arrivo degli esseri alati; questa inspiegabilità permette nei secoli l’uso di teli e pareti di fondo con o senza prospettiva, l'impiego delle tuniche e dei calzari o della giacca e della cravatta, permette l'allestimento a cielo aperto o in uno spazio infossato; permette che diventi un’opera dotata di balletti, costumi, musica e canto (Calderón), che sia una tragedia dell’ascolto (Luigi Nono) o che usufruisca di un gigantesco titano inginocchiato, a capo chino, che funge da tramite tra le nuvole e i gradoni del teatro (Luca Ronconi). E Di Florio? Mi sembra che la sua sia una resa epica del Prometeo, coerente tra l'altro con la staticità di questo dramma, privo di azione scenica e con personaggi che sono l'incarnazione dialettica del messaggio che vogliono trasmettere o di cui sono portatori; mi sembra insomma che la premessa poetica di #Prometheus#2 sia la consapevolezza dichiarata che questo spettacolo viene dopo il Novecento, che non si può né celare né limitare questa strumentale modernità dei mezzi a disposizione, che non si può neanche mentire o illudere attraverso la verosimiglianza o imponendo la trasparenza della quarta parete e che è in nome di questa consapevolezza che Di Florio mi sembra tenti di operare − per dirla con Lowell − “una fusione tra il dramma antico e un dramma di tipo nuovo” o meglio: di far continuare il primo (l'antico) usando le potenzialità del secondo (il nuovo).
Per questo il sonoro microfonato, le parole udite mentre le labbra restano chiuse, la modernità tuttavia simbolicamente atavica degli abiti, l’interpretazione attorale che sul finale trova uno sbocco diretto verso il pubblico in sala; per questo la musica, la dichiarazione scandita e calcolata dell’azione di scena (“Posso concederti ancora un minuto, forse due minuti per rispondere e sottometterti”), l’uso del corridoio laterale della platea, il plurilinguismo (il greco di Eschilo, l'inglese di Lowell, l'italiano), la multimedialità extraperimetrale delle proiezioni. Per questo la connotazione politica, da intendersi non partiticamente ma come discorso compiuto alla collettività attraverso la trama e che − usufruendo dell’accezione del Prometeo “previdente”, che il domani lo conosce “esatto e chiaro” e che ha dipanato i falsi sogni degli uomini liberandoli dalle tenebre dell’ignoranza − allude alla parola come strumento di inganno e disvelamento dell’inganno, della menzogna e smascheramento della menzogna. Così, assistendo a #Prometheus#2 e riflettendo sul fatto che Zeus è onnipotente (“Soltanto Zeus è libero” perché non ha “nessun altro sopra di sé”) ma Prometeo conosce il futuro, m'interrogo − senza trovare risposta − sul rapporto drammatico che esiste tra la forza e la conoscenza per cui se la forza (Zeus) teme ed è limitata dalla conoscenza, la conoscenza (Prometeo) subisce ed è censurata dalla forza.
C'è infine Io, che Jan Kott definì in un saggio “il personaggio più importante dopo Prometeo”. Interpreto Io come l'incarnazione della resistenza, dell’ostinazione, della pratica vitale e salvifica dell’opposizione all’oppressiva imposizione dal sistema. Vedo inoltre in lei la generazione prossima, il manipolo che deciderà di non sottostare o di non arrendersi, chi non accetterà il dettato diffuso dal dominante. E così quando sento queste battute − “Noi tutti saremo perduti, cancellati, bloccati nella nostra sofferenza e sotto di noi, forse, ci saranno creature ancora più umili, che continueranno ad andare avanti” − il mio pensiero, non so perché né quanto sia giusto, va subito ai migranti del mare, che sono carne che emerge dal ”fango” di Eschilo, che sono moto ondoso inarrestabile, che sono flusso che nessuna legge e nessun decreto contiene perché non si contiene per legge o decreto il diritto di vivere: fosse pure la propria disperazione, la propria povertà, la propria fame.
Gonfia è dunque la pancia di Io: gonfia di futuro, di dignità, di volontà.
Gonfia di riscatto, forse.

 

 

 

 

 

Fringe E45
#Prometheus#2
dal Prometeo incatenato
di Eschilo e di Robert Lowell
ideazione, adattamento, regia Raffaele Di Florio
con Antonello Cossia, Paolo Cresta, Valentina Gaudini
sound, visual design Francesco Albano
musica Salvio Vassallo
ingegnere del suono Corrado Taglialatela
make up Chiara Pepe
produzione Altrosguardo
foto di scena Mario Laporta
lingua italiano, greco, inglese
durata 1h
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 8 giugno 2015
in scena 8 e 9 giugno 2015

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