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Thursday, 11 June 2015 00:00

Preludio alla morte

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Crave, opera della drammaturga inglese Sarah Kane del 1998, è stato portato nei teatri italiani con la traduzione di Fame o Febbre, ma dopo aver visto la messa in scena fatta da Pierpaolo Sepe per il Napoli Teatro Festival, si comprende meglio l’etimologia inglese del termine che indica bramare, desiderare ardentemente, aver disperato bisogno e anche implorare, chiedere con insistenza.

I quattro personaggi di Crave sono indicati con le lettere A (author, abusator, actor) un uomo anziano, pedofilo dichiarato, che ha un rapporto morboso con C (child, bambina, ragazzina) che non vuole ammettere di amare quell’uomo a cui è legata con la violenza, poi c’è l’altra storia di M (mother) una donna di una certa età che teme la vecchiaia e non vuole rimanere sola per cui vuole un figlio da B (boy), un ragazzo giovane che vuole amore e la tratta con umiliazione. Sono ruoli ben delineati, scolpiti in una pietra immobile di cui si avverte tutto il peso esistenziale e claustrofobico che è stato ben reso dalla scenografia di Francesco Ghisu e dal disegno luci di Cesare Accetta. Un’alta rete separa il pubblico sulle gradinate dalla scena della Sala Assoli, mentre la parete di fondo è un grande rettangolo bianco con quattro finestre con le sbarre separate tra loro da accenni di pareti a suggerire delle celle. Una gabbia, una prigione, una stanza da ospedale psichiatrico, potrebbe essere tutto questo, ma è la vita di A, di C, di M e B. Un perimetro soffocante dove inizialmente, per lunghissimi minuti, i quattro personaggi si muovono lentamente avanzando dalla finestra alla rete. Il giovane B ha un trench di pelle, dei pantaloncini corti, capelli ricci, la donna M accanto a lui ha un foulard che le copre i capelli biondi, occhiali scuri, vestita come una donna degli anni ’50, poi accanto a lei si dispone l’anziano A individuabile dall’abito datato, mentre la ragazzina accanto a lui ha i capelli rossi, una pelliccetta dalla forma a giacca sulle gambe magre. Messi davanti alla rete iniziano alternativamente il loro sfogo, passando da A a C poi a M e a B. senza un ordine, così i dialoghi sono frammentati in una sintassi che si ricostruisce solo nello svolgersi della rappresentazione. Chiedono con insistenza all’altro, desiderano egoisticamente con ardore, pieni di una bramosia inevitabilmente disattesa.
Sulla rete vi è un microfono per ciascuno dei personaggi che amplifica le loro voci creando un’eco più o meno intensa che si perde tra le pareti della sala accrescendo quella sensazione disturbante percepita sin dall’inizio. I personaggi alternano la loro confessione davanti alla rete a movimenti di ritorno verso le anguste finestre sbarrate a volte con passi pesanti amplificati, come detto prima, in un cupo rimbombo, oppure correndo da una parte all’altra dell’assito presi da una furia incontenibile. Gesti inconsulti, scoordinati, respiri affannati e ansimanti intervallati da dialoghi frammentati, da suoni acuti che accompagnano spesso le parole dei personaggi, tutto ciò tende a creare un fortissimo disagio che non trova quasi la strada per fuggire, per cercare una salvezza. Ognuno dei personaggi desidera ardentemente, vorrebbe imperativamente, è questo il tratto dominante dei personaggi che la loro storia non connota in una forma definita come le lettere dei loro nomi vorrebbe far apparire, l’angoscia di M è la stessa di A come di C o di B, infatti ad un certo momento i quattro iniziano a spogliarsi del loro involucro esterno per poi rivestirsi con gli abiti degli altri indossando, ad esempio, A l’abito femminile di M.
“Non avevo... non ho”, “Sono depressa perché sto per morire”, ”Ho fame di bianco su nero”, “Ora che ti ho trovato posso smettere di cercarmi”, “Puoi vederti solo se non sei morto del tutto”, ”Io scrivo la verità e lui mi uccide” sono frasi pronunciate come moniti, assiomi che sono pronunciati da C che potrebbero essere di M o di B o di A. Ad un certo punto si avventano con forza sulla rete cercando di scalarla, ma cadono all’indietro, tutti, e riprovano tante volte senza successo, con il fiato sempre più corto, più arrabbiato. La frustrazione si diffonde con il suono di un ticchettio insistente che è interrotto solo quando si sentono dei colpi di oggetti lanciati dai quattro contro la rete. Non si comprende inizialmente cosa siano, complice un’oscurità leggermente tagliata da un fascio di luci, poi si vede chiaramente che sono tante piccole bamboline di pezza. L’Io, il Noi, L’Altro sono smembrati in tante piccole parti, in tanti Io, in tanti Altri, in tanti Noi sbattuti contro un’esistenza che non dà scampo. Così si sentiva Sarah Kane l’anno prima che si suicidasse, questo percepiva l’autrice in un contesto che si stava sgretolando senza soluzione e questo testo è la scarnificazione dei suoi pensieri più profondi. La parola non serve e non salva. Brevemente i personaggi si abbracciano tra loro, ma è un abbraccio fugace, perché “la vita non vale la pena di essere vissuta”, l’amore “è la legge, l’amore è secondo volontà”.
Lentamente si ritirano verso la finestra sbarrata. È inutile superare la rete, è inutile guardare fuori, la vita è fatta di sassi di vetro colorati gettati a terra, in mezzo a bamboline di pezza. La lotta volge al termine come l’esistenza dei quattro personaggi, che abbandonano un assito pieno di oggetti testimoni silenziosi di una lotta tutta interiore che non ha nulla di poetico e letterario, al contrario, ma di sgradevolezze, di assurdità, di amarezze e di vergogne.
Tutti gli attori sono credibili in ruoli davvero complessi, tutto lascia un senso epidermico di pesantezza che non va via nemmeno quando scrosciano gli applausi.

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Crave
di
Sarah Kane
regia Pierpaolo Sepe
con Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastrelli
scene Francesco Ghisu
costumi Annapaola Brancia d’Apricena
luci Cesare Accetta
movimenti di scena Chiara Orefice
aiuto regia Emma di Lorenzo
assistente scenografa Christina Psoni
produzione Casa del Contemporaneo Centro di produzione teatrale
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Sala Assoli, 8 giugno 2015

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