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Monday, 08 June 2015 00:00

Oltre il cabaret, prima del teatro

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A distanza di un anno esatto o giù di lì, ritroviamo Camillo Acanfora ed il suo tentativo di imbastire un percorso teatrale personale e autonomo; stesso periodo (inizio di giugno), stessa rassegna (Off Scena ad Angri), come nella proverbiale italica tradizione balneare eternata nell’immaginario in classiche canzoni estive che rimandano a spiagge e mari da confermare da un’estate all’altra.

Perché a distanza di un anno o suppergiù torniamo sulle tracce di Camillo Acanfora? Probabilmente perché il seme – acerbo – della curiosità che ci parve avesse gettato un anno addietro ci è sembrato meritevole di venir rivisto, di essere ritrovato per constatare se avesse germinato alcunché di fruttuoso.
Se nel precedente Paro Noie avevamo intravisto qualcosa delle doti di scrittura di Camillo Acanfora e della sua capacità affabulatoria, impastata di una dialettofonia ironica e malinconica, ed avevamo di contro sottolineato qualche asprezza attoriale e la sostanziale assenza di uno sguardo registico altro che coadiuvasse la messa in scena, in questo Mascara e menta riscontriamo un’evoluzione, minima e coerente, del suo percorso, che ancora denuncia qualche difetto strutturale – più o meno i medesimi già presenti nel lavoro precedente – confermando però che in quello che compone questo ragazzo pompeiano trapiantato a Bologna sembrerebbe essere presente una traccia meritevole di continuare ad essere seguita,
È sempre solo in scena, Camillo, autore, interprete e regista di se stesso, collettore di esperienze vissute sulla propria pelle e tradotte in scena in un monologo polifonico, in cui affida più voci alla sua voce per farle raccontare una condizione precaria (la propria) in un contesto precario (il teatro), ricorrendo a certa qual metateatralità nel gioco rifratto dello sfogo di un attore che fa l’attore .
Ed è così che il gioco dell’attore inscenato da Camillo Acanfora si arricchisce di personaggi e situazioni, traslandosi in una scena semplicemente bipartita da un paravento ed altrettanto semplicemente scandita da luci che s’alternano in lineare schema binario nel demarcare e rimarcare il dialogo sincopato tra le varie voci a cui egli dà voce.
C’è un regista che aleggia, spettro teatrale di un’irreggimentazione coatta, che sembra stagliarsi come figura minacciosa; dall’altra parte, un pubblico immaginario e ideale a cui rivolgere le proprie istanze, le proprie elucubrazioni, le proprie verità intrise d’incertezza.
Andando oltre la scena (per analizzare la scena) questa fantomatica figura registica, proterva e vessante, ci pare ancora essere l’anello di congiunzione mancante tra il lavoro di scrittura di Camillo Acanfora e la sua composizione scenica: la semplificazione della scena, ridotta all’essenziale, non s’arricchisce d’alcuna immagine pregnante, demandando tutta o quasi l’espressività di Mascara e menta al testo ed al modo verbale di raccontarlo.
Discorso a parte per quanto concerne la capacità attoriale di Acanfora: egli possiede una buona capacità affabulatoria, venata di quell’ironia amara che sembra essergli cucita addosso con l’aderenza di una calzamaglia, indossata come una cavezza a mo’ di giogo, in guisa di “condanna”; la condanna è quella di una simpatia tanto endemica quanto involontaria, sul cui paradosso Camillo ironizza, cercando spesso (come ad esempio fa all’inizio dello spettacolo, con una facile captatio benevolentiae che lo porta ad interagire col pubblico suscitandone l’ilarità prima ancora di entrare in medias res), una complicità empatica, creata ad arte imbastendo un piccolo cabaret estemporaneo.
In realtà Camillo Acanfora porta in scena sé stesso e la sua vita, il suo percorso teatrale non ancora compiuto e che per compiersi abbisognerebbe di scuola e raffronti, di lavoro di compagnia e propedeutica teatrale; se la scrittura ha in sé qualcosa di valido in termini di freschezza inventiva e densità di contenuti e se la capacità di raccontare/intrattenere non fa difetto ad Acanfora, non altrettanto si può dire della sua presenza scenica, alquanto rigida e statica, non ancora capace di coniugare a quanto scritto e recitato un linguaggio corporeo attorialmente congruo e strutturato; anche sulla voce, sulla capacità di variare i registri vocali, il lavoro da compiere è ancora tanto, vieppiù se si sceglie di portare in scena più personaggi tutti affidati alla stessa voce, che però rimane unica fonazione per più suoni. Ragioni per le quali sembrerebbe necessario più che opportuno affiancare al lavoro di elaborazione e scrittura una pratica teatrale formativa e condivisa capace di favorire la crescita dell’attore.
Sfumature – e neanche tanto piccole – che delineano lo scarto tra il puro spettacolo di intrattenimento e il teatro propriamente inteso; al momento Camillo Acanfora si muove ancora in bilico lungo quest’asse d’equilibrio, tra una sorta di cabaret “elaborato” e la soglia di una partitura scenica compiuta.
Se il seme dello scorso anno era acerbo, ad un anno di distanza lo troviamo meno acerbo ma non ancora germogliato: ha bisogno ancora d’essere coltivato, ha bisogno delle cure d’una mano più esperta, di uno sguardo vigile che ne segua e ne indirizzi la crescita.

 

 

 

 

Off Scena
Mascara e menta (E sciò! Ma sta  gonn'?!)
scritto diretto e interpretato da Camillo Acanfora
produzione Sub Eventi
foto di scena Alfonso Cuccurullo
lingua italiano e napoletano
durata 1h
Angri (SA), Officina delle Idee, 3 giugno 2015
in scena 3 giugno 2015 (data unica)

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