“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 07 June 2015 00:00

Sognando Massachussets

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Visto da lontano, l’Istituto universitario dalla forma similgotica dove ha sede il mio dipartimento ha un che di misterioso.
La struttura dell’Istituto, culminante nella volta grigiastra dalla quale fuoriescono due spuntoni di diversa lunghezza − che vorrebbero rappresentare la sintesi di una guglia slanciata e piramidale senza tuttavia riuscire a dare all’intero complesso un credibile coronamento estetico − mi è sempre parsa come un’opera concepita da un architetto dalle idee stravaganti. Poi è successo che quasi d’improvviso nel mio modo di osservare quell’edificio qualcosa è cambiato. Sarà che da un po’ ho preso a recarmi in ufficio alle prime luci dell’alba, ossia nell’ora in cui il giorno si presenta carico di promesse. O più probabilmente perché ho in mente un piano così eccitante che ogni luogo che mi capita sotto gli occhi mi appare in armonia con tutto il mio essere.

Sono le sei di un mattino milanese. L’inverno nel pieno del suo ciclo. Il sole stenta a farsi strada tra gli orli dei tetti. S’intravede qualche riflesso indefinito nelle finestre degli appartamenti esposti a est. Mi trovo alla guida della mia vecchia auto e ho un freddo cane, l’impianto di aerazione che regola la temperatura interna ha smesso di funzionare non ricordo quando. Ma sono allegro lo stesso.
In giro c’è solo qualche sparuto automobilista. I semafori lampeggiano. Meglio guidare con prudenza.
Le edicole e qualche bar stanno alzando le saracinesche.
Tra poco sarò davanti all’Istituto.
L’Istituto ospita cinque dipartimenti, il mio è quello di ingegneria cibernetica dove insegno in qualità di assistente. Per accedere all’interno non devo neppure scendere dall’auto, basta premere il comando elettronico, nessuno sa dove l’ho fregato. Non voglio rischiare, entro dal cancello secondario evitando l’ingresso principale dove si trova l’alloggio del custode. Così sono pressoché sicuro che la mia presenza non verrà notata. In un baleno apro la porta dell’ufficio; la chiave dell’ufficio, sì, quella l’ho in dotazione in virtù della mia posizione nel corpo accademico.
Ed eccomi comodamente seduto alla mia scrivania, avviluppato da un piacevole tepore.
All’interno del mio ufficio mi muovo quasi al buio, l’unica fonte di luce è il video del computer che ho appena acceso, ma da fuori non si vede. In questo modo ho almeno tre ore a disposizione per lavorare in pace, lontano da occhi indiscreti. Poi − come tutte le mattine − all’improvviso scoppia il casino a più tonalità. Quasi una musica dodecafonica. L’arrivo dei miei colleghi docenti, gli inservienti che starnazzano rumorosamente, quegli studenti che con la scusa di farti delle domande a loro dire importanti sul corso che stai tenendo cercano soltanto di mettersi in vista... non si sa mai... La voce minacciosa del Rettore, che fa vibrare l’apparecchio telefonico.
È l’ora delle lezioni, in qualche aula sono già iniziati gli esami. Anch’io devo lasciare il mio ufficio, ma prima di recarmi in aula raccolgo in fretta il materiale che sto esaminando e lo chiudo a chiave nel cassetto della scrivania. Si tratta di una faccenda di cui fino a oggi non ho parlato a nessuno.
A mia moglie Elena ho semplicemente detto che sono alle prese con una relazione tecnica urgente che potrebbe giovare alla mia carriera, e che mi tocca lavorarci sopra nei ritagli di tempo perché durante il giorno sono totalmente assorbito dalle normali mansioni.
Verso sera, quando sono sicuro che tutti hanno lasciato l’Istituto, chiudo l’ufficio dall’interno e torno a lavorare sulla materia di cui mi sto occupando. A intervalli regolari di mezz’ora, per precauzione lancio un’occhiata di controllo fuori dalla finestra dell’ufficio.
Attorno a mezzanotte rientro a casa.
Elena mi accoglie col solito sorriso complice, e subito mi accompagna al tavolo, in cucina, dove c’è sempre qualche piattino appetitoso che mi ha preparato. Lei ha già cenato da qualche ora, siede di fronte a me sgranocchiando un grissino. “Tutto bene, Giorgio?”. “Sì, e tu?”. “Anch’io”. E nient’altro. Di tanto in tanto scuoto leggermente la testa, rispondendo in quel modo ai suoi sorrisi appena accennati.
Io e Elena siamo over 30. Per ora non abbiamo figli, più avanti se ne parlerà. Lei si è laureata in filosofia col massimo dei voti, qui a Milano. La sua tesi su La fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty è stata pubblicata da una casa editrice specializzata in testi universitari. Ne va fiera.
Elena non ha un lavoro fisso, si limita a dare qualche lezione privata a liceali fancazzisti. Sta pensando di darsi al giornalismo culturale.
Finita la cena, butto giù mezza compressa di un ansiolitico e m’infilo a letto. Elena mi strofina il piede contro la coscia. Le dico non c’è tempo da perdere... ci rifaremo quando tutto sarà finito... devo essere in forma, domani mattina...
Da lei un sospiro appena.
Questo andazzo è cominciato una settimana fa − da quando ho scoperto il segreto del Magnifico Rettore dell’Istituto, il professor Mario Tramelli, detto il Gran Cattedratico.

Un raggio di luce di una giornata che sembrerebbe volere timidamente fuoriuscire dall’inverno si insinua dalla finestra del bar che dà sul viale antistante e si riverbera di traverso sul tavolino dove sono seduto con Giuliano. Il bar si trova a un isolato dall’Istituto, sul lato che fronteggia l’ingresso. Siamo in pausa pranzo, il caffè è buono e bollente. Si chiacchiera.
”Gran culo!” Giuliano.
“Quale?” chiedo.
“La biondina, quella appoggiata al balcone, là in fondo a sinistra”.
Lui è il professor Giuliano Mandrulli, direttore del mio dipartimento. Sta per compiere i cinquanta, ma ne dimostra almeno dieci di meno ed è convinto di avere un’unica missione nella vita: quella di dedicare la sue migliori energie al benessere fisico dell’altro genere.
Oltre a me, da qualche settimana Giuliano ha alle sue dipendenze un altro assistente, Graziano Tramelli, il figlio del Gran Cattedratico. Graziano è un fighettino griffato dalla testa ai piedi, taglio di capelli tipo giovane attore hollywoodiano tinti di giallo. Si è laureato a ventitré anni grazie a una serie di esami addomesticati dal padre, il fatto è noto a tutti ma nessuno ha mai avuto il coraggio di denunciarlo. Qui all’Istituto si fa dell’omertà un’arte sopraffina. Del resto, il Gran Cattedratico è uno dei tanti personaggi di questo Paese che hanno fatto una facile carriera grazie a una vasta rete di potenti Santi in Paradiso... cioè nell’universo politico... nell’ethos polis, insomma. Ed è perciò intoccabile.
Giuliano non si è lasciato impressionare dalla presenza del giovane Tramelli nel suo staff, e quando si è trattato di decidere a chi assegnare i piani di studio più complessi ha scelto me. In effetti, sono il suo vice. Giuliano sostiene che ho doti creative e potrei essere un buon ricercatore... se in questo cazzo di Paese la politica investisse quanto è necessario per il progresso della scienza. Gia! Ma al dipartimento non si fa ricerca, ci limitiamo a insegnare agli studenti ciò che la scienza ha ormai acquisito da tempo. Così gli faccio comodo perché lo sollevo dall’onere palloso di predisporre certi piani di studio con un grado di innovazione vicino allo zero. Comunque, siamo amici.
Tra quelle che affollano il bar, la biondina è la studentessa che più di ogni altra stimola gli appetiti di Giuliano. Ma lui ha occhi per tutte, con una certa predilezione verso le loro parti basse.
“Che vuoi, con tutto quel bendiddio c’ è solo l’imbarazzo della scelta” dice.
Annuisco.
“E se uno di questi giorni ne rimorchiassimo un paio?”.
“Perché no!” − rispondo − “Del resto, l’abbiamo già fatto altre volte”.
“Certo che se lo venisse a sapere il Gran Cattedratico...” fa lui.
“Be’, in fondo sono affari nostri... e poi basta essere prudenti”.
Giuliano inarca le sopracciglia e bofonchia qualcos’altro che non capisco sul Gran Cattedratico.
“Scusa, puoi ripetere?” domando.
“Niente, niente... lasciamo perdere”.
Ho una leggera contrazione allo stomaco.
Intanto dalla porta centrale del bar fa capolino la chierica di Arturo Cipolloni, somiglia al fondo di una scodella capovolta ornata da un’aureola a tre quarti fatta di una peluria dal colore indefinibile che poggia sul colletto bisunto della camicia. Ha l’abitudine di entrare dalle porte di spalle, il che a volte gli procura qualche guaio. Eccolo che inciampa nella gamba di un tavolino, sbanda pericolosamente, sembra lì per rovinare al suolo ma fa in tempo a riprendersi. Si gira verso di noi, con l’indice ricurvo della mano destra sistema in qualche modo gli occhiali sul naso violaceo, le lenti sono spesse e a strati concentrici, gli occhi minuscole macchie tendenti al liquido.
Non sono sicuro che ci abbia riconosciuto.
Cipolloni è l’inserviente anziano dell’Istituto. Passa le giornate in stato catatonico seduto al tavolo posto di sghembo all’ingresso della biblioteca. Se hai bisogno di un libro, puoi stare sicuro che ti porta quello sbagliato. Il Gran Cattedratico si serve di Cipolloni anche per commissioni personali, quelle più semplici, s’intende, dove non c’è rischio che combini disastri. Lo spedisce in farmacia quando si accorge che sta per esaurire la scorta di compresse per i suoi disturbi alla prostata, gli dice va’ al supermercato e comprami un chilo di mele − ma che siano trentine, mi raccomando − imbucami queste lettere e non dimenticarti di metterci i francobolli; talvolta gli chiede di sistemare qualche filo elettrico fuori posto.
Volgo lo sguardo a Giuliano, e dico: “Povero Cipolloni, mi fa pena”.
“Mah, ti dirò... io non mi fiderei mica tanto di quell’uomo”.
“Perché?”.
“Ti credevo un buon osservatore. L’hai guardato bene in faccia quando l’altro giorno è successo quel fatto a Cecilia?”.
“Be’, si mi è parso sconvolto. Ma chi non lo sarebbe stato al posto suo?”.
Cecilia è la figlia di Cipolloni, da un paio di mesi lavora all’Istituto come archivista, gira voce che è stata raccomandata dal Gran Cattedratico. Cecilia ha appena compiuto diciott’anni, capelli rasta nero corvino, denti superiori un poco sporgenti che, stando a come Giuliano dice di figurarsela, in certe occasioni non sarebbero niente male; cammina ancheggiando, stretta nei jeans che le slanciano la gambe che è un piacere. Fin dal suo primo giorno di lavoro Cecilia ha elettrizzato la fauna maschile dell’intero Istituto. Quando si è saputo che una mattina Giuliano l’ha sorpresa nel piano sotterraneo con il giovane Tramelli indaffaratissimo a impalarla dal di dietro, nessuno si è meravigliato. Quella mattina Giuliano deve consultare un libro; prima chiede a Cipolloni di procurarglielo, ma subito ci ripensa e dice a Cipolloni venga con me altrimenti lei s’incasina, poi scendono nello scantinato dove sono archiviati i libri più voluminosi. In fondo alla stanza raggiungono una specie di corridoio formato da due alte file di scaffalature e si trovano davanti uno strepitoso primo piano delle nude natiche di Graziano − dalla scrivania sulla quale la ragazza è appoggiata pencolano le sue gambe divaricate, i jeans languidamente adagiati in basso.
“Dì un po’, chiedo a Giuliano ammiccando, che effetto ti ha fatto quello spettacolo?”.
“Non ho avuto neanche il tempo di... Cipolloni era sul punto di svenire. L’ho dovuto sorreggere fino in cima alle scale, e una volta di sopra lui si riprende di colpo e, di spalle, piomba nell’ufficio del Gran Cattedratico. C’è rimasto più di un’ora, sarei curioso di sapere cosa si sono detti”.
Accenno ad alzarmi. Giuliano è subito in piedi.
Siamo già per strada.

Emergo da un sonno profondo. Stento a riconoscere l’ambiente. Ecco... il mio letto! Con gli occhi cisposi allungo il braccio sulla mia sinistra e la mano avverte il tepore lasciato sul lenzuolo da Elena. La odo armeggiare in cucina, mi raggiunge portandosi dietro un caldo aroma di caffè. “Buon giorno, amore” dice “È quasi mezzogiorno, lo sai?” Mi porge la tazzina. Il caffè bollente mi riconduce alla vita.
È domenica, ieri sera ho finito quel lavoro.
Sono sotto la doccia da almeno un quarto d’ora. Adesso ho le idee più chiare, mi sento in gran forma. Elena mi passa il cordless nel box doccia: “È Giuliano, vuole parlarti”.
“Ciao Giuliano, che fai in piedi a quest’ora?”.
“E che cazzo! Alle sette ero già in edicola a comprare il giornale”.
“Ci sono novità che possano interessarmi?’”.
”Sul giornale no, a parte le solite stronzate dei nostri politici. Ma ne ho io una per te di notizia... e per Elena”.
“Dimmi”.
“Sbrigatevi, ho prenotato un tavolo per quattro in quel ristorante del lodigiano che tu conosci. Io e Milena siamo già pronti. Tra un po’ passiamo a prendervi. Si va con la mia macchina”.
Milena è un’estetista freelance che convive con Giuliano da un paio d’anni, quali intenzioni abbiano i due per il futuro della loro storia non si sa − prima di lei a pascolare nella casa di Giuliano ce ne sono state tante altre, per periodi più o meno brevi. Karma sentimentale.
Ha riappeso senza salutarmi. Giuliano è fatto così, si comporta come capo anche nei nostri rapporti privati.
Il citofono premuto a raffica mi fa capire che sono arrivati. Elena mi segue trafelata, conosce l’impazienza di Giuliano.
Il motore è acceso, Giuliano ci fa cenno di salire in macchina. Saliamo. Mi siedo di fianco a lui che sgomma alla grande, mi giro e allungo la mano alla sua donna che sta sbaciucchiando Elena. Le dico Milena sei uno schianto.
Ci hanno riservato l’angolo più tranquillo del ristorante. A metà pranzo Giuliano è già ubriaco. Si è scolato quasi una bottiglia di Gutturnio, senza contare i non pochi bicchieri di Malvasia secco come aperitivo. Tuttavia, ha un apprezzabile autocontrollo; mi accorgo che qualche suo sguardo indugia su mia moglie ma la cosa non mi sorprende.
Milena siede accanto a Elena, di fronte a noi uomini. Indossa una originalissima camicetta semitrasparente a colori caldi e una gonna la cui lunghezza non riesce − o non vuole, forse − distendersi di quel tanto oltre le ginocchia.
Giuliano adesso ha attaccato il filetto al pepe verde ma non la smette di parlare, è un fiume in piena.
Punta la forchetta verso di me agitandola: ”Sul giornale di oggi ho letto un editoriale piuttosto deprimente riguardo alla nostra tecnologia che è in grave stato di arretratezza nei più disparati settori. Ti pare che in questo Paese qualche governante se ne preoccupi? C’è forse qualche ministro del cazzo che si avvale del know-how di quei nostri scienziati che tutto il mondo ci invidia? ‘Sti politici pensano soltanto alle loro posizioni di potere e nient’altro. È una situazione che noi due viviamo anche nel nostro lavoro, dove tocchiamo con mano come siamo indietro di decenni”.
“Giuliano, lo sai bene anche tu: le teste più fini se ne vanno a lavorare dove hanno sede le multinazionali. Se ti va di dirla con i nostri antichi padri latini: Ubi pecunia, ibi patria”.
“Balle! E’ la solita idea fissa di quelli di una certa sinistra, come te”.
Comincio ad annoiarmi, non ho nessuna voglia di discutere di politica, ma ci pensa Giuliano a scuotermi con una battuta sul Gran Cattedratico: “A essere sinceri, nel nostro Istituto qualcosa si potrebbe fare, soltanto se il professor Tramelli volesse...”. Si interrompe di colpo e mi fissa per qualche secondo con quello sguardo indagatore: “Tu hai in mente di cambiare lavoro − diciamo così − l’ho capito da un pezzo”.
“No” − replico − “sto bene qui, prima o poi le cose cambieranno anche nel nostro Paese. Il progresso delle tecnologie è inarrestabile e sta sviluppandosi a una velocità impressionante. Verrà anche il mio momento... e forse non è lontano".
Giuliano inarca le sopracciglia e si alza. Di fatto è come se ci avesse comunicato che il pranzo è finito.
Siamo rientrati a Milano, ma anziché riportarci a casa, Giuliano se ne esce con una proposta che in realtà somiglia a un ordine: “Stasera si va tutti a casa mia”.
“No, Giuliano, facciamo un’altra volta”.
“Non se ne parla nemmeno. Ho appena rifornito il bar, ce n’è per tutti i gusti, questa sera ci divertiremo”. Si gira e lancia uno sguardo a Elena.
Decido di resistere: “Giuliano, proprio non ce la faccio, vorrei riposare, mi sento rintronato. I vini... sai”.
“E va bene, ma te ne pentirai.” Poi rincara la dose: “Peccato! Avremmo potuto parlare un poco del Gran Cattedratico...”. Dà una sterzata nervosa, e in pochi minuti siamo davanti a casa nostra. Ci salutiamo con una certa freddezza. Giuliano è filato via lasciandoci a malapena il tempo di scendere dalla macchina in tutta fretta.
“Finalmente!” sospira Elena. Le sfioro le spalle e dico: ”Adesso la notte è tutta per noi”. “Davvero?”.
Infilo la chiave nella toppa della porta di casa e sollevo la maniglia. Spingo, ma la porta non si apre. “Prova a spingere più forte” suggerisce Elena. Premo con la spalla senza esagerare, la porta si apre solo di qualche centimetro emettendo uno sgradevole stridore. “Ancora più forte, può darsi che ci sia qualcosa sotto la soglia” incalza Elena. Questa volta la spallata è decisiva: la porta si spalanca. Sto per scivolare a terra, appoggio la mano allo stipite per non cadere. Mi giro. Elena trattiene a stento un sorriso. “Cos’è ‘sta roba sotto i piedi?” mi chiedo ad alta voce. “Vetri, mio caro, sono vetri, non lo vedi?”.
Ne raccolgo una scheggia piuttosto lunga. Ce ne sono altre sul pavimento.
“Gesù, i ladri!” miagola Elena. Mi basta un’occhiata a vasto raggio per rendermi conto che nel soggiorno tutto è a posto. Controllo gli altri locali, anche lì a prima vista sembra che non sia stato toccato niente. Mi viene da pensare che per essere dei ladri hanno perlomeno il senso dell’ordine.
“Guarda, Giorgio, guarda quel buco nella vetrata!” esclama Elena, “E questo cosa può essere?”. Mi porge un sacchetto di plastica che ha raccolto dal pavimento, vicino al divano. L’apertura del sacchetto è legata con un filo di nylon. Tasto il sacchetto, che sia un sasso? Sotto le dita mi sembra di sentire anche della carta. “Giorgio, sta’ attento, potrebbe essere pericoloso”.
Elena impallidisce, ma in lei prende il sopravvento la curiosità di controllare se i suoi gioielli riposano tranquilli nel contenitore del caffè dove di solito li tiene nascosti, e si precipita in cucina.
Strappo il filo dal sacchetto. Mi trovo tra le mani un cubetto di porfido e una busta gialla formato quattro per quattro. Appoggio il sasso sul divano. La busta è indirizzata a me − la grafia che si direbbe di mano femminile ha scritto con un pennarello nero il nome del destinatario: Dottor Giorgio Velleitani.
Apro la busta e ne estraggo il contenuto. Poi la nascondo dietro il cuscino del divano.
Elena è ancora di là.Qui va tutto bene” − la sento dire − “Ti sei fatto un’idea di cosa può essere successo?”.
“Nooo...”.
È tornata in soggiorno. Mi sorride: “Sai, tesoro, credo proprio di avere bisogno di una doccia. Tu intanto vedi un po’ se siamo nei guai o se è soltanto uno scherzo di pessimo gusto”.
Dopo la doccia Elena mi raggiunge. L’accappatoio aperto le spiove dalle spalle nude. I capelli sciolti, ancora umidi. Ha l’aria gaiamente perplessa, ma non fa alcun accenno al vetro rotto.

Pensieri di un marito in preda a un momentaneo avvilimento: Mi sei seduta accanto, sorseggi il tuo pinot grigio, lentamente, tenendo nella mano destra il bicchiere mentre con l’altra ti riassetti i capelli, passando poi a sfiorarti le labbra con le dita; quante volte, come adesso, hai saputo stimolare la mia immaginazione con gesti lievi, di cui voglio illudermi di essere l’unico beneficiario perché sei la moglie che ignora con disinvoltura certe mie fantasie che di tanto in tanto mi prendono senza che io riesca a dissimularle del tutto, e dai senso alle mie spiegazioni anche quando in realtà si tratta di monologhi volutamente oscuri inventati sul momento. Ma c’è dell’altro: forse ti domandi quali saranno i miei prossimi passi, quelli decisivi per il nostro progetto, ci siamo sposati perché l’avevamo un progetto... non è così? E pensi al giorno che si realizzerà; lo so che vorresti sapere quando, ma non mi vuoi forzare, non ti sei posta un termine, aspetti con pazienza quel giorno... e in questi pochi istanti di silenzio ti osservo e mi accorgo che da sopra il bicchiere che stai portando alla bocca ti si velano gli occhi... darei tutto per sapere...

I pensieri sfumano.
“Parliamo un po’ della situazione, Elena. Noi due siamo simili, lo hai capito prima ancora di diventare mia moglie. Abbiamo in comune certi tratti del carattere e qualche ambizione, direi. Se non altro non siamo disposti a lasciarci trascinare dalla corrente. Insomma, ci piacciono le esperienze concrete, non le illusioni o vaghe speranze. E invece io me ne sto ad ammuffire in quell’Istituto del cazzo dove faccio tutto tranne quello che vorrei... e tu... tu passi le giornate a giocherellare col tuo computer a forte vocazione filosofica... dal quale speri che prima o poi spunti il coniglio bianco, qualcosa che al suo apparire farebbe impallidire il tuo amato Maurice se non addirittura il Gran Sacerdote dell’esistenzialismo, Jean-Paul Sartre, con il suo L’essere e il nulla ormai superato dall’epifania del tuo exploit − che ne dici”.
“Per quanto mi riguarda non è proprio così, tesoro. Sono in contatto con un paio di blog culturali − filosofia e letteratura − e ti assicuro che ne vengono fuori cose molto interessanti. Ho cominciato a farmi conoscere e i miei pezzi, che tu non riesci mai a leggere... per i troppi impegni, vengono molto apprezzati. Ma c’è dell’atro: i responsabili di quei siti e dei loro webmagazine mi hanno lasciato intendere che quanto prima potrei entrare nel gruppo dei curatori” conclude, vagamente inquieta.
“Scusami, non volevo essere sgarbato. Ma veniamo a me, l’ingegneria offre un ampio ventaglio di specializzazioni, si può dire che è fatta per menti creative. È un campo sterminato per chi ha inventiva... dal controllo dei vari processi tecnologici alla simulazione e verifica di qualità delle progettazioni interconnesse e così via. Verrebbe da definirla una cornice a misura delle mie capacità. Sta di fatto, però, che io sono uno degli assistenti del professor Mandrulli, e chissà quando potrò avere una cattedra mia! Per adesso perdo il mio tempo a insegnare concetti astratti e obsoleti a un branco di giovani scarsamente motivati. È questo che mi fa incazzare come una biscia, specie se penso che in giro, nei Paesi più avanzati, ci sono un sacco di occasioni che potrebbero interessarmi... e io ne ho trovata una... una che non voglio perdere. Soltanto che c’è di mezzo quel bastardo del Gran Cattedratico!”.
“Ed è a questo punto che salta fuori quel lavoro che hai fatto nelle ore più strane in questi giorni, non è così?”.
“Adesso è il caso che te ne parli, comincio a sospettare che in qualche maniera c’entri con quello che è successo oggi in casa nostra”.
La sua espressione si è fatta dura. “Giorgio, cerca di essere più esplicito. E facciamola finita al più presto, è meglio per tutti. Dimmi anche quello che sicuramente sai del vetro rotto e di quel sacchetto”.
“Elena, tra noi due c’è stato un tacito accordo in questi giorni, non è vero?”.
“È così”.
Mi metto più comodo sul divano appoggiandomi al cuscino. Accavallo le gambe per sembrare disinvolto, nel muovermi avverto dietro la schiena la presenza della busta. La prendo e porgo il contenuto a Elena. È un cartoncino con tre sole parole scritte con un pennarello: Fermati, ti conviene!!! Ci sono anche delle fotografie. Vedo Elena trasalire.
“Per più di una settimana sono uscito di casa a un’ora impossibile, e rientrato in piena notte. Ti ho detto che stavo lavorando su una relazione speciale di un certo interesse e che ero costretto a farlo al di fuori dell’orario di lavoro, niente di più. Tu, come è nel tuo stile, mi hai lasciato fare senza chiedermi di cosa si trattava”.
“Sì, amore. Vieni al dunque”.
“Ti è mai capitato di sfogliare quella rivista americana alla quale sono abbonato, la Cyber Monthly Review?”.
“Certo, mi sembra interessante”.
“C’è una rubrica, su quella rivista, che ogni mese segnala i bandi di concorso e le borse di studio emessi dai vari Istituti universitari di tutto il mondo, è la prima cosa che leggo quando la ricevo. Bene, circa tra mesi fa appare l’annuncio di un concorso del Massachusetts Institute of Technology − il prestigioso Mit, per noi dell’ambiente. I primi tre classificati vengono inseriti per due anni nel team di ricerca di quell’università bostoniana, e alla fine del ciclo il partecipante che ha conseguito i risultati giudicati più promettenti e innovativi sul piano tecnico dell’ingegneria cibernetica sarà integrato permanentemente nell’organico dell’università”.
“In tre parole: il tuo sogno”.
Uno squillo del telefono ci interrompe bruscamente. Dall’altra parte del filo c’è Giuliano. Uno sguardo all’orologio: è quasi mezzanotte.
“Hei Giuliano! Ti credevo impegnato con Milena in una delle vostre acrobazie senza rete”.
“Stammi a sentire, non è il momento di sparare cazzate. Apri bene le orecchie: il Gran Cattedratico è morto ammazzato. L’hanno trovato oggi verso sera, stecchito sul pavimento nel suo cesso personale dell’Istituto”.
“Oggi... di domenica. E che ci faceva lì?”.
“Grande esempio di understatement, il tuo!”.
"No, Giuliano. È che in fondo...”.
“Che in fondo quello ti stava sui coglioni, lo sanno tutti”.
“Dài, non scherziamo! Tu, piuttosto, quando l’hai saputo? Non a quest’ora, immagino... E come l’hanno ucciso?... chi?”.
“Mi hanno telefonato questa sera verso le otto quando noi stavamo rientrando a Milano. Io però me ne sono accorto solo pochi minuti fa. In effetti sono stato un po’ occupato con Milena, capisci? A un certo punto mi alzo dal letto per andare al bagno e ti vedo la segreteria telefonica che lampeggia. C’è registrato il messaggio di un certo commissario Cavatorci del comando di pubblica sicurezza... quello vicino all’università... Be’ in questo momento non ricordo il nome della via, sono abbastanza confuso”.
“Senti, che tu sappia ha telefonato solo a te?”.
“Ha chiamato tutti e cinque i direttori di dipartimento. Siamo convocati in commissariato per domani mattina. Beato te che sei fuori da queste rogne!”.
Riattacca.
Ho l’abitudine di tenere l’apparecchio sulla funzione viva voce, Elena non ha perso una parola. “Santocielo!” sospira.
C’è voluto un po’ prima che riuscissi ad accendermi una sigaretta, ho un tremito alle mani, vorrei passarne una anche a lei. Elena capisce, e mi dice lascia perdere non ho voglia di fumare. Forse si aspetta che le parli del Gran Cattedratico... Ho le idee annebbiate.
Si è distesa per il lungo sul divano, la testa appoggiata sul bracciolo, posa il bicchiere sul tavolino, nell’altra mano ha una fotografia quattro per quattro leggermente spiegazzata. Poi la stira con tutt’e due le mani e mi gira uno sguardo dei suoi. Le sono seduto a fianco per terra, sul tappeto, appoggio la testa alla sua spalla.
“Non sei venuto granché bene” mi dice.
Passa tra le mani una dopo l’altra le cinque foto che qualcuno ha voluto recapitarmi in una busta gialla usando come vettore un solido cubetto di porfido. L’inquadratura delle prime quattro non cambia, se non di poco: io che lavoro al computer del mio ufficio, sulla consolle un libro di cui a occhio nudo non si riesce a leggere il titolo − ma io so qual è − e c’è anche un dischetto appoggiato sopra alcuni fogli. Soltanto nell’ultima foto sono ripreso più da vicino ma sempre di spalle con un fascicolo tra le mani, è intitolato Funzioni sensorie e dispositivi per ampliare i confini della cibernetica. Ipotesi di ricerca per Il Massachusetts Institute of Technology – a cura di Graziano Tramelli.
“C’entra qualcosa il figlio del Gran Cattedratico, in quello che stai sospettando?”.
“Indirettamente, forse. Non credo che quel fighettino ne abbia la testa. Chi ha architettato tutto quanto non può essere stato che il padre. E ti spiego come potrebbe essere andata”.
“Sentiamo”.
“Ti dicevo di quella rivista americana, e del concorso. La data di emissione del bando è del trenta gennaio. Il regolamento fissa il termine di presentazione della domanda alla fine di febbraio. Stando a quanto è riportato nella rivista, copia del bando è stata inviata anche a quegli Istituti universitari non americani dove funziona un dipartimento che lavora sulla materia in questione, come da noi. Il compito di segnalare il docente candidato al concorso spetta al Rettore. Il candidato non deve superare i quarant’anni. C’è poi un ultima clausola: il candidato ha l’obbligo di segnalare al Mit una tesina programmatica di almeno duecento pagine sulle linee di studio proposte”.
“Considerato che Giuliano ha superato il limite di età, il concorso sembra fatto su misura per te, nessun altro del tuo dipartimento che ho conosciuto mi sembrerebbe all’altezza”.
“Sono d’accordo. Ma credo di avere le prove che il Gran Cattedratico non abbia voluto informare i docenti del dipartimento... o forse era intenzionato a farlo solo a pochi giorni della scadenza per dare un vantaggio... diciamo a suo figlio − che nel frattempo poteva tranquillamente predisporre la tesina o, come è più probabile, farsela fare dal padre. Gli eventuali altri aspiranti non avrebbero avuto abbastanza tempo per portare a termine un lavoro così impegnativo”.
“Tu invece l’hai fatto”.
“È stato un gioco da ragazzi scoprire che Tramelli lavorava di nascosto per suo figlio. Durante una delle sue innumerevoli puntate giornaliere nel gabinetto personale per via della prostata che lo tormenta da anni, ne ho approfittato per infilarmi nello studio del Gran Cattedratico. Conosco la sua password, mi basta premere pochi tasti ed ecco che sul video appare la tesina che sta scrivendo per il fighettino. La duplico su un dischetto. Nel dischetto sono registrati il giorno e l’ora della duplicazione, oltre al numero di matricola del computer. Così il Gran Cattedratico è nelle mie mani, io ho la prova del suo tentato imbroglio”.
“Da quel momento ti sei messo a lavorare di nascosto per preparare la tua tesina. Ma perché non l’hai fatta sul tuo computer a casa? e poi, come pensavi di riuscire a partecipare al concorso?”.
“Ho dovuto sistemare la faccenda in ufficio, era necessario consultare alcuni libri che potevo trovare soltanto nella biblioteca dell’Istituto. Quanto al modo di partecipare al concorso, avevo in mente di smascherare il Gran Cattedratico proprio domani. Gli avrei mostrato la tesina che stava mettendo insieme per suo figlio. Ho ragione di credere che sarebbe venuto a patti. Il mio piano era semplice: per evitare lo scandalo lui informa subito i docenti del bando scusandosi per il ritardo. Tutti sanno che è distratto... magari dice che il fax del Mit che annunciava il concorso era finito tra le cartacce impilate sulla sua scrivania − e i miei colleghi del dipartimento se la bevono. A questo punto convince suo figlio a rinunciare al concorso. Così al Gran Cattedratico non resta che segnalare il mio nome. E per me è cosa fatta. La mia tesina l’ho finita sabato sera”.
“Interessante, peccato che il Gran Cattedratico sia stato mandato al creatore!”.
È passata la mezzanotte. Elena si alza dal divano, e di fronte alla vetrata del soggiorno. Passa una mano, quasi una carezza, nel punto dove ho coperto la spaccatura del vetro con un pezzo di cartone. Torna verso il divano, si tira su i capelli dalla nuca, cerca il mio sguardo e lascia che l’accappatoio scivoli lentamente a terra.
“Cosa farai domani, Giorgio?”.
“Che ne so”.

Pensieri di un possibile indiziato di omicidio: I miei assalti a Elena si sono conclusi col sorgere del sole, lei è girata sul fianco, con una mano le scosto delicatamente i capelli che le coprono la fronte, il suo sonno improvviso è profondo. La guardo, sembra quasi sorridere... quanto a me non ho da stare allegro... dunque mi spiavano, qualcuno vuole incastrarmi e mi chiedo come ho fatto a non accorgermi, di sicuro avranno usato una webcam, quel tipo di microtelecamera che puoi manovrare direttamente da casa collegandola al tuo computer via Internet, l’avranno installata in qualche angolo del mio ufficio, ma non è un lavoro facile, ci vuole una persona esperta in allacciamenti telefonici... che conosca l’ambiente... che conosca il mio ufficio...

Mi alzo e vado in cucina per farmi un caffè. “Giorgio, dove sei?”. È Elena che mi chiama dalla camera da letto, nel rimettere rumorosamente nell’armadietto il barattolo del caffè l’ho svegliata.
Eccomi di nuovo in situazione.
Questa volta sono io che le porto un buon caffè a letto. Le dico bevilo e poi rimetterti a dormire, ne hai bisogno.
“Va bene, amore, ma sono preoccupata per te. Che succederà adesso?”.
Le stampo un bacio sulla fronte. “Sta’ tranquilla. Tutto andrà bene. Mi basta essere sul posto prima che qualcun altro mi preceda”.
“Dove?”.
“All’Istituto, nel mio ufficio”.

Batuffoli di neve fluttuano nell’aria vorticosamente. L’ultimo sussulto di un inverno che potrebbe cambiare il corso della mia vita.
Procedo lentamente, una brusca frenata mi farebbe sbandare. Non è il momento. In fondo al viale, da dietro un velo punteggiato di bianco traspaiono le guglie dell’Istituto. Manca mezz’ora all’apertura. Devo sbrigarmi.
Il mio primo sguardo in ufficio è rivolto al soffitto, ed è là, nell’angolo sulla destra, che mi salta all’occhio il piccolo foro nascosto in parte da una lampada a muro che solitamente tengo spenta. Superfluo dire che della telecamera non è rimasta traccia.
Faccio per aprire il cassetto della scrivania che avevo lasciato chiuso a chiave.
“Se sta cercando quello che c’era lì dentro, si metta pure il cuore in pace. Il cassetto è vuoto e i segni dell’effrazione sono piuttosto evidenti”.
È alto poco più di un metro e mezzo. Età tra i cinquanta e i sessanta, difficile da definire. Indossa un cappotto giù-di-moda dalle maniche troppo lunghe. Mi sta fissando dalla soglia dell’ufficio. “Qualcuno, a sua insaputa, le ha fatto visita, Dottore Velleitani”. Poi mi si avvicina, allunga la mano destra o piuttosto le falangette delle dita. “Permetta che mi presenti, sono il commissario Cavatorci.” La voce ha un tono grave. Accento meridionale.
“Piacere, Velleitani. A cosa devo la sua visita?”.
“Dottore Velleitani... non mi dica che non ne sa nulla”.
“Di... di quello che è successo al Gran... al Professor Tramelli?”.
“Appunto”.
“Sì, sì... so che... Ma s’accomodi, prego”.
“No Dottore Velleitani, non c’è tempo da perdere. Piuttosto, facciamo un salto in commissariato, è qui a due passi. Può darsi che lei possa aiutarmi... qualche informazione utile... Non si preoccupi, sarà questione di pochi minuti”. Non mi sono neppure tolto il giaccone. Lo seguo. Lui si gira: “E non tocchi niente, mi raccomando! Lasci tutto com’è, qui”. Noto che ha i capelli color castano slavato e i baffetti di un improbabile nero.
Per entrare al commissariato passiamo sgomitando attraverso un corridoio di transenne sul marciapiede. Una lunga fila di umanità dolente. Immigrati senza l’ombra di un sorriso. Ognuno ha in mano un foglio. Il foglio della speranza, sto pensando. Se ne parlassi a Giuliano, mi accuserebbe del solito buonismo declamatorio.
A proposito, cosa starà facendo Giuliano in questo momento? non dovrebbe essere qui in commissariato con gli altri suoi colleghi direttori di dipartimento?
Cavatorci apre la porta del  suo ufficio e dice si accomodi, si è tolto il cappotto e mi invita a fare la stessa cosa. Mi siedo di fronte alla sua scrivania, osservo che ha le unghie ben curate.
Attacca subito: “Il professore Tramelli è morto folgorato mentre era seduto al gabinetto. Lo ha trovato il custode dell’Istituto durante il consueto giro di controllo festivo. Qualcuno ha collegato dietro la maniglia dello sciacquone un filo di corrente elettrica sotto tensione, poi ha praticato un foro nel sedile del water e lo ha fatto passare tutto intorno dall’interno. Quando il professore Tramelli ha impugnato la maniglia per azionare lo sciacquone è stato come trovarsi su una sedia elettrica”.
“Davvero ingegnoso... cioè... volevo dire... terribile!”.
“Lei, dottore Velleitani, è la prima persona che ascolto qui in commissariato. Ma si rassicuri, non si tratta di un interrogatorio. Più tardi, alle dieci, saranno qui i direttori di dipartimento. Come può immaginare, prima ho bisogno di farmi un quadro di com’è l’ambiente all’Istituto. Dopo cominceranno le indagini”.
“Sono il primo solo per caso... suppongo... per la semplice ragione che lei, commissario, mi ha incontrato pochi minuti fa nel mio ufficio...”.
“Certamente, Dottore Velleitani. Ma adesso mi parli un po’ di quello che le è successo”.
Nel giro di pochi minuti ho vuotato il sacco. O quasi. Gli ho parlato del concorso e delle manovre del Gran Cattedratico. Naturalmente non avevo nessuna intenzione di ricattare il Rettore − così ho detto a Cavatorci − volevo soltanto esercitare un mio sacrosanto diritto e quindi convincerlo a informare i docenti del bando e prendere la decisione che gli competeva.
Poi dico a Cavatorci della busta gialla e di quelle fotografie.
Cavatorci si passa il pollice sui baffetti strani, abbassa lo sguardo scostandosi leggermente dalla scrivania: “Dottore Velleitani, lei si è ficcato in un bel pasticcio, sa! Mi vuole spiegare perché ha scelto un modo così contorto e pericoloso per raggiungere il suo obiettivo? Bastava che dopo qualche giorno dalla pubblicazione del bando su quella rivista lei chiedesse notizie al riguardo direttamente al professore Tramelli”.
“Ho atteso una settimana o giù di lì, non ricordo bene. Nessuna notizia da parte di Tramelli, mi aspettavo che diramasse una circolare al dipartimento. Devo confessare che tenevo... che tengo molto a quel concorso. Mi sono anche chiesto se era il caso di parlarne ai colleghi, ma ho preferito non farne niente e togliermi da solo la curiosità. Non le nascondo che ho sempre avuto molta diffidenza nei confronti di Tramelli. E alla fine i fatti sembrerebbero darmi ragione. A Tramelli mancava solo un anno alla pensione, lui sapeva che una volta lasciato l’incarico suo figlio Graziano si sarebbe ormai trovato senza nessun appoggio, in balia della propria inettitudine e quindi preclusa ogni possibilità di carriera. Così ha pensato bene di spedirlo negli Usa, o almeno di provarci, con quel giochino che le ho appena spiegato”.
“Ipotesi, congetture... verità magari! Tutto è possibile. Sta di fatto, però, che lei è sotto tiro. C’è il rischio che con la storia delle fotografie qualcuno le voglia giocare un brutto scherzo, specie adesso che lei non è più in possesso del dischetto col quale provare che il professore Tramelli era impegnato a scrivere la tesina per conto del figlio. Veda di guardarsi bene le spalle!”.
“Quanto al dischetto sono tranquillo, quello che mi hanno trafugato dal cassetto della scrivania era una copia che tenevo lì per ogni evenienza, ma ne ho un duplicato in un posto sicuro”.
“In questo caso, me lo faccia avere. E anche le foto, assieme al sacchetto e tutto il resto. Vorrei aiutarla a capire. In fondo, con la faccenda del dischetto lei non ha commesso alcun reato, semmai c’è stata una certa scorrettezza ma ciò non mi riguarda”.
“D’accordo, commissario. Per il resto posso...”.
“Mi ascolti bene, Dottore Velleitani. Lei oggi ha già avuto abbastanza emozioni. Le conviene tornarsene a casa, visto che il suo ufficio l’ho fatto sigillare per i controlli del caso. Quando avrò ancora bisogno di parlarle saprò dove trovarla. Immagino che in questi momenti lei non stia facendo progetti... diciamo così... a breve”.
“No... no”.
“Allora, buona giornata, Dottore Velleitani. Io devo prepararmi. Da un momento all’altro saranno qui i direttori di dipartimento”.
Sulla strada, almeno dieci centimetri di neve. La fila dei transennati non sembra diminuire. Poveri cristi ingobbiti dal freddo.
Devo recuperare la macchina davanti all’Istituto. Mi trovo a pochi passi dal solito bar. Ho bisogno di un caffè bollente. Attraverso i grossi fiocchi di neve intravedo Cipolloni a braccetto di Cecilia. Sulla soglia del bar, nel girarsi di spalle per entrare, lui cade a terra e sbatte la testa. Gli occhiali scivolano via e quasi scompaiono sotto la neve. Cecilia lo aiuta a sollevarsi, raccoglie gli occhiali e glieli rimette. Cipolloni se li toglie di nuovo e li sistema a modo suo, poi entrano.
Oggi non è giornata. Non mi va di avere gente dell’Istituto tra i piedi.
Decido di rinunciare al caffè. Salgo in macchina e mi dico che quella ragazza, Cecilia, in un certo senso potrebbe essermi utile. Ho la sensazione che sia meno ingenua di quanto si pensi, e che tuttavia possa essere manovrabile. A casa non trovo Elena. Mi ha lasciato un biglietto Sono al supermercato. Torno presto, baci baci baci. Potrei chiamarla sul cellulare, ma lascio perdere. Vado al bagno, poi mi sdraio sul divano.
“Russavi come un ghiro, amore”. È Elena che mi scuote leggermente il braccio.
Dal sacchetto del super tira fuori due bottiglie di chardonnay di ottima marca e una di Wild Turkey, e posa il tutto sul tavolo del soggiorno.
“Ti dispiace che ti ho svegliato?”.
“No... ma che ore sono?”.
“Sono le undici di una magnifica mattinata di neve. La neve mi rende euforica... ma in questo momento muoio dalla voglia di sentire quello che hai da raccontarmi”.
“Sei così sicura che abbia tante cose da dirti che tu non sai già?”.
“Penso di sì. Vuoi forse farmi credere che in commissariato si sono limitati a offrirti un caffè?”.
“No, il caffè non me l’anno offerto. Comunque Cavatorci mi è parso un gentiluomo. Ma tu, piuttosto, come fai a sapere che sono stato da lui?”.
“Semplice. Mi ha telefonato Giuliano quando dal suo ufficio ti ha visto uscire dall’Istituto con il commissario. A proposito, questa sera siamo invitati a casa di Giuliano. Sarà una cena alla marinara. Pesce, molluschi, e compagnia bella. Mi ha chiesto se vado da lui un po’ prima per dargli una mano a preparare quei manicaretti che a suo dire saranno deliziosi... e un tantino afrodisiaci. Sembra che Milena non ci sappia fare... in cucina”.
“E tu, che hai risposto?”.
 “Vado là verso le sei. Tu puoi raggiungermi più tardi, oggi è meglio che ti riposi. E vedi di non dare corpo ai fantasmi! Ma intanto dimmi di Cavatorci”.
Le ho detto tutto di Cavatorci e dell’ufficio.
Elena non ha fiatato, neanche una parola. Mi segue in camera da letto, sceglie nell’armadio il vestito che indosserà stasera, evita il mio sguardo e mi dice buon riposo. Mi sento come in fibrillazione. Un ansiolitico non mi farà male.
Al risveglio sono ancora sotto l’effetto dello Xanax. Scosto la tendina della finestra della camera, ha smesso di nevicare. Il display della radiosveglia mi dice che sono le sedici e venti. Ho dormito almeno cinque ore. L’umore adesso è discreto e sono abbastanza su di tono. Ho voglia di prendermi un thè con Elena. La chiamo ma non risponde, è già uscita.

Pensieri di un uomo che fiuta il pericolo: Poteva almeno svegliarmi... quanta fretta! Tra poco dovrò affrontare Giuliano, vorrà che gli spieghi un sacco di cose, di sicuro mi dirà che era meglio se mi consigliavo con lui prima di manipolare il computer del Gran Cattedratico e tutto il resto. Giuliano, a dispetto delle apparenze, quando le cose sono poco chiare non è tipo che fa pesare la sua posizione di direttore, però questa storia potrebbe non andargli giù tanto facilmente, i direttori hanno responsabilità soggettive e oggettive nell’ambito del proprio ufficio, quindi rispondono in solido anche degli atti dei loro dipendenti, e certi fatti possono nuocere alla loro carriera, io e Elena dovevamo concordare una linea di condotta su quello che c’era da dire a Giuliano... invece Elena è corsa da lui...

A tavola Giuliano ha glissato sull’incontro in commissariato con gli altri direttori dicendo che non ne è venuto fuori niente di interessante. Poi butta lì che questa mattina c’è stata l’autopsia del Gran Cattedratico, e che nel pomeriggio si è svolto il funerale in forma strettamente privata. Quando ho l’impressione che sia giunto il momento di accennare ai miei guai, lui fa lunghe pause che sembrerebbero calcolate, poi si mette a parlare d’altro. Da parte mia mi guardo bene dal toccare l’argomento.
E come se per me e Giuliano la questione fosse chiusa, se non addirittura inesistente.
Per il resto la conversazione procede tra alti e bassi su argomenti di scarso interesse, Elena ha degli attimi dove fissa il vuoto. Milena è brilla, e del tutto al di fuori della situazione.
La serata si è conclusa a un generale livello di ragguardevole gradazione alcolica, ma niente di più. Eccetto quello che Elena ha scoperto.
“Vuoi dirmi per quale strana ragione sei andata da lui così presto?” domando a Elena mentre stiamo rientrando a casa. “Amore, chiedimelo ancora. Sapessi quanto mi fanno piacere queste tue manifestazioni di gelosia!”.
“Sì, ma tutto quel tempo con lui... in casa sua”.
“C’era anche Milena, tranquillo!”.
“Giuliano non ne fa una questione di numero”.
“Stronzo! Non mi ringrazierai mai abbastanza per quello che ho fatto per te questa sera. Lo sai che grazie al mio intuito femminile... e non solo... hai la possibilità di cavartela senza conseguenze?”.
“Non è ancora finita, ci sono tante altre cose da chiarire”.
“Sì che è finita Giorgio! A questo punto basta giocare bene le carte che ti trovi in mano”.
Il pezzo di cartone è ancora là sulla vetrata, dovrò decidermi a farla riparare.
Mi domando se Cavatorci vorrà fare un sopralluogo a casa nostra.
Sono le due di notte. Di altri alcolici non se ne parla, ma un caffè forte ci starebbe bene. Vado in cucina e lo preparo per me e Elena, che nel frattempo si è tolta le scarpe ed è sdraiata sul divano.
Accendo una sigaretta e ne passo una anche a lei.
“Così, il mio caro amico direttore mi spiava!” Attivo il lettore dvd e inserisco The Koln Concert, le note di Keith Jarrett mi aiutano a rilassarmi.
“È presto per dirlo, ma perlomeno si può dire che era a conoscenza del fatto”.
“Per via delle immagini che tu questa sera hai scoperto nel computer di Giuliano. Stammi a sentire, dirmi  come ci sei riuscita?”.
“Oh, sì. Ma prima ti devo una spiegazione”.
Spegne la sigaretta nel posacenere. Le sto seduto di fronte, sulla poltrona. Mi sorride. “Tesoro, ti è piaciuto il salmone grigliato, questa sera? e quei deliziosi bocconcini di sushi? o forse hai preferito i totani ripieni affogati nel sughetto...”.
“Una cena squisita”.
“E allora, come hai potuto pensare che Giuliano potesse preparare da solo e in poco tempo tutti quei piattini, oltre alle varie insalate, macedonia, e via dicendo? Ho dovuto aiutarlo. È solo per quello che sono andata da lui così presto. E tu mi fai il geloso!”.
“So che ti fa piacere”.
“Dài non scherzare! Si è dato molta da fare, è davvero bravo in cucina. A un certo punto ha aperto una bottiglia di chardonnay, dice che gli stimola la creatività. Ha voluto che ne bevessi un paio di bicchieri anch’io”.
"E nient’altro?” chiedo.
“Be’, qualche frase vagamente allusiva, una mano che ti sfiora la spalla o un po’ più giù tipo scusami-sai-non-volevo, quelle cose che anche tu ben conosci. L’ho lasciato fare. Sta’ tranquillo, non si è spinto più in là di quanto io fossi disposta a stare al gioco. Volevo che si eccitasse quel tanto che bastava per fargli uscire una parola, un cenno su quello che è capitato in questi giorni all’Istituto... e non solo lì. Ma lui non c’è cascato”.
Si interrompe per qualche istante e mi dice mettiti qui.
Mi sposto dalla poltrona e sono già sdraiato sul divano. La testa è appoggiata sul suo grembo. Il tocco leggero delle sue dita che mi accarezzano i capelli, Elena conosce i miei punti deboli. Mi dice dunque volevi sapere, e spiega come ha lasciato Giuliano da solo in cucina quando si è trattato di sminuzzare la cipolla da mettere sul salmone, così lei fa per raggiungere Milena che è in soggiorno alle prese con le parole crociate del giornale, ma passando davanti allo studio di Giuliano nel girare lo sguardo verso la porta socchiusa si accorge che il computer è acceso, pensa che Giuliano se ne sia dimenticato preso com’è dal cucinare e da altre fantasie, allora entra nello studio, sfiora distrattamente un tasto del video e compare la lunga lista file registrata in ordine alfabetico, macchinalmente ne fa scorrere qualche pagina, quando arriva alla lettera G lo sguardo si sofferma sul file Giorgio, che vedi un po’ è anche il nome di suo marito, dice a se stessa che donna sarei se non mi lasciasi vincere dalla curiosità, quindi porta il cursore sul file, preme il tasto enter e appaiono una dopo l’altra le cinque immagini. Le stesse foto della busta gialla.

Il mattino dopo un incipiente mal di testa mi dà il benalzato. Elena è sul computer nel locale che abbiamo adibito a studio per tutti e due. Mi faccio un paio di crostini al miele, una gran tazza di caffè all’americana. Poi un’aspirina.
Ora non resta che decidere sul da farsi.
Sul tavolo in cucina c’è il giornale di ieri. In prima pagina campeggia il titolo DELITTO ALL’UNIVERSITÀ, nel sottotitolo due righe sulla inconsueta tecnica dell’assassinio e un accenno alle difficili indagini tra il personale dell’Istituto e le centinaia di studenti.
“Sarà il caso di comprare il giornale, oggi” dico a voce alta in modo che di là, dallo studio, Elena mi senta.
“Puoi prenderlo mentre vai all’Istituto, no?”.
“È inutile che ci vada, il mio ufficio è sigillato”.
Verso del succo d’arancia e lo porto a Elena.
“Non essere fatalista, caro! A questo punto un atteggiamento di passiva attesa non può che nuocerti”.
Squilla il telefono. Dico pronto ansando leggermente. È la voce baritonale e al tempo stesso suadente di Cavatorci: “Buon giorno, dottore Velleitani, come va? Spero bene”.
“Sì... sto bene”. Risposta idiota.
“Ha visto fuori? Non nevica più e c’è un sole quasi primaverile. Non se ne stia rintanato in casa. Venga a trovarmi. Ho notizie per lei dal suo ufficio... e non dimentichi le foto con tutta la confezione”.
“Il tempo di farmi la barba e sono da lei”.
“D’accordo. Arrivederci, Dottore Velleitani”. Il mio telefono è a viva voce.
“Quando gli parlerai delle immagini nel computer di Giuliano misura bene le parole. Lascia che sia lui a commentare” mi consiglia Elena.
Pochi minuti dopo l’abbraccio, le dico ti voglio bene e mi precipito in macchina. Non mi fermo neppure a comprare il giornale, di sicuro Cavatorci ne sa di più.
Hanno rimosso le transenne. Faccio per dirigermi con decisione al primo piano, quando un agente che se ne stava sonnecchiando nella guardiola dell’ingresso esce e mi chiede lei dove va. Rispondo che Cavatorci mi sta aspettando. Alza stancamente la mano, punta l’indice verso la rampa della scale e mi dice primo piano seconda porta a destra ma prima aspetti mi dica il suo nome. Velleitani. Torna in guardiola, qualche secondo al telefono e mi fa cenno di sì col capo rimettendosi a sedere con fare scazzato.
“Buongiorno commissario”.
“'Giorno, s’accomodi pure”.
Gli passo il sacchetto di plastica, dentro non manca niente di quello che dovrebbe interessargli. Lo posa su un tavolino accanto alla scrivania senza rivolgergli uno sguardo.
“Abbiamo tolto i sigilli dal suo ufficio. Lei è libero di andarci quando vuole”.
“Buona notizia”.
“Le dirò di più, Dottore Velleitani, abbiamo le impronte digitali più recenti in quel punto dove hanno lavorato per installare la telecamera che la spiava. Sono di quel buffo inserviente... tale Cipolloni. E vuole saperne un’altra sulla famiglia Cipolloni?”.
“A questo punto sono davvero curioso di sapere cos’hanno combinato”.
“Ieri mattina c’è stato il funerale del professore Tramelli. Era in forma privata, ma io ho chiesto l’autorizzazione di parteciparvi. Lei non ci crederà, ma al braccio del figliolo Graziano, dietro al feretro, c’era la signorina Cecilia”.
“Materia su cui riflettere, si direbbe”.
“Per approfondire le indagini a tutto campo. Con ogni probabilità il signor Cipolloni ha molte cose da dirci... lo stiamo tenendo sotto pressione. Comunque, per oggi in quanto a notizie è tutto... se proprio vogliamo escludere la corsa...”.
“Quale corsa?”.
“Dottore Velleitani, i direttori di dipartimento sono già ai nastri di partenza, tutti quanti, per la successione al posto di Rettore, ed è come in certe corse al trotto dove il cavallo più forte parte con venti metri di handicap. Nel nostro caso il più forte non ci sta e allora cerca di truccare la corsa. Ma, sia chiaro, il mio è soltanto un esercizio di immaginazione, Dottore Velleitani, sebbene debba ammettere che quell’incontro con i direttori non è stato inutile”. Poi, lasciando affiorare un sorriso da sotto i baffetti, conclude: “Quante confidenze le sto facendo!”.
“Prima di andarmene, commissario, avrei anch’io qualcosa da dire”.
“Dica, la prego”.
Cavatorci accoglie la notizia della immagini nel computer di Giuliano con totale indifferenza. Si limita a dirmi: “Se posso permettermi di darle un consiglio, Dottore Velleitari, non ne parli a nessuno, tantomeno al professore Mandrulli. Lasci che me la sbrighi io”.
Rispondo va bene è meglio così.

Pensieri amletici nell’ufficio del commissario. Captatio benevolentiae, me l’hanno insegnato al liceo... ammiccamenti, l’abilità di Cavatorci nel gioco delle parti per trarne vantaggio non mi sorprende, sono i ferri del mestiere, mi tratta con un certo spirito amichevole, il nostro commissario, sta per caso cercando di farsi dare una mano nelle sue indagini da un uomo la cui posizione può essere decisiva? Il mio timore è che si tratti piuttosto di una sofisticata partita psicologica su due o più livelli che alla fine potrebbe nuocermi, meglio non cedere alle lusinghe. Giorgio, resta freddo! La partita è aperta a ogni possibilità... misura le parole e non fare commenti, mi ha raccomandato Elena.

“E quel suo concorso Dottore Velleitani? Tra pochi giorni scade il termine per la presentazione della domanda, senza contare che il consiglio di amministrazione dell’Istituto si riunirà tra circa un mese per eleggere il nuovo Rettore”.
“Commissario, non me la sento di cedere le armi. Nemmeno in una situazione così difficile come questa”.
“Mi fa piacere per lei. Cosa intende fare, allora?”.
“Lasci che usi un luogo comune: prendo il toro per le corna. Domani stesso chiederò ai colleghi del dipartimento di discutere con loro la questione, e non mancherò di mettere sul tavolo la mia candidatura. Dirò anche che, se necessario, vado a rompere le scatole al ministero. Deve pur esserci qualcuno in grado di decidere entro la fine del mese... purché si riesca a rintracciare il fax del Mit”.
Cavatorci allunga una mano sotto la scrivania abbassando leggermente la spalla. La mano riemerge e deposita sulla scrivania una ventiquattrore di pelle nera con una piccola lacerazione vicino al manico. “Il fax è qui dentro, non si preoccupi”. Riconosco la borsa del Gran Cattedratico.
I baffetti troppo scuri sembrano percorsi da una fulminea vibrazione. “Ora, Dottore Velleitani, devo congedarla. Mi aspetta un gran lavoro. Lei faccia pure quella riunione con i suoi colleghi del dipartimento... se proprio ci tiene. Ma, mi raccomando, si guardi bene dal dire che ha manomesso il computer del professore Tramelli e che ha scoperto, come lei dice di ritenere senza tuttavia averlo ancora provato, che il Rettore stava trescando a favore di suo figlio. Si limiti a dire che è venuto a conoscenza del bando per caso, sfogliando quella rivista, e che in attesa di una comunicazione ufficiale del Rettore lei, in un certo senso, si è portato avanti col lavoro preparando la sua tesina. E non abbia timore che il professore Mandrulli salti fuori a parlare di quelle foto, sarebbe come ammettere un suo coinvolgimento... vedrà che se ne starà zitto. In tutti i casi, si tenga libero per venerdì mattina. Faremo quattro chiacchiere qui in commissariato, ci saranno altre persone... spero. E stia attento a quello che fa!”.
È quasi l’una, avverto un calo di zuccheri. Tiro fuori dalla tasca del giaccone il telefonino e chiamo Elena: ”Ciao gioia, sarò a casa tra poco. Mi fermo solo per una colazione leggera, poi farò una scappata in ufficio, mi è venuta un’idea”.
Davanti a un buon piatto di linguine al pesto, dico a Elena che la situazione sta avendo degli sviluppi e che non ho nessuna intenzione di farmi sorprendere dagli eventi. Tanto per cominciare, oggi farò cantare quella ragazza.

All’Istituto tira un’aria plumbea. Incrocio colleghi e personale vario che di solito ti salutano sorridendo, fanno battute stronze su qualsiasi cosa viene loro in mente. Oggi invece mi evitano, volgono lo sguardo altrove, nel vuoto si direbbe. Passo davanti all’ufficio di Giuliano, la porta è chiusa ma dentro la luce è accesa.
Il mio ufficio è quello di tutti i giorni, se escludiamo il forellino là in alto e il cassetto della scrivania segnato da una vistosa fenditura all’altezza della chiave.
La polizia ha già fatto tutti i controlli necessari.
Mi dico Giorgio sta’ calmo. Faccio il numero di telefono interno: “Buongiorno signorina Cipolloni, sono Velleitani. Può venire un attimo da me, per favore?”.
“'Giorno, dottore". Apre la porta quel tanto che basta per sporgere il busto in avanti. Le labbra socchiuse lasciano solo intravedere i denti superiori sporgenti che disegnano un timoroso sorriso.
“Venga, venga Cecilia. Si accomodi pure”.
Si siede di fronte alla mia scrivania, accavalla le lunghe gambe. Tiene gli occhi abbassati sulle ginocchia. Non sa dove mettere le mani, le muove in continuazione.
“Come va, Cecilia?”.
“Be’ oggi non tanto bene”.
“Certo... capisco... è un giorno triste per tutti... il professore...”.
Cecilia fa per aprire bocca, ma scoppia a piangere, le passo il pacchetto di Kleenex che tengo nel cassetto della scrivania, a stento riesce a dire grazie, poi prende a tirare su col naso. Passano un po’ di secondi prima che lei metta insieme qualche parola. Mi dico Giorgio ci siamo. E infatti a poco a poco le parole danno corpo a frasi dal senso compiuto. Stringe fra le mani i fazzoletti inzuppati, si fa più sicura e parla. Dice che è molto dispiaciuta per quello che è successo al professore, ma che c’è dell’altro che nessuno vuole capire, lei e Graziano si vogliono bene e lui intende sposarla, purtroppo il professore non era d’accordo, e per questo motivo al funerale tutti i parenti di lui la evitavano. E non è finita. Anche all’Istituto ce l’hanno con lei, per quella volta con Graziano nello scantinato. Però nessuno sa che dopo lui c’è stato un altro che per più di una settimana l’ha costretta a scendere giù in quell’archivio per farle tutto quello che gli piaceva. Era il professor Mandrulli a trascinarla dabbasso, minacciandola di spifferare ogni cosa su un imbroglio che Graziano stava combinando. Lei non ne sapeva niente di quell’imbroglio, ma non sopportava l’idea che Mandrulli potesse fare del male al suo ragazzo. E in più adesso la polizia se la prende anche con suo padre, per delle impronte che lei non capisce cosa vogliono dire.

Ha parlato più di quanto sperassi... Così Giuliano se la faceva... interessante!

Mi alzo e sono vicino a Cecilia. Le sfilo i fazzoletti dalla mano e li butto nel cestino. Trasale.
“Cecilia, lei ha tutta la mia comprensione ma adesso si calmi. Vedrà che tutto andrà a posto... e dica a suo padre di stare tranquillo... è meglio per lui”.
Poi per giustificare il fatto di averla chiamata in ufficio le dico che ho esaurito la carta del fax e di portarmene una risma. Esce ancheggiando più del solito, sto pensando che a prescindere da considerazioni etiche a Giuliano non manca un particolare buon gusto.
Vorrei chiamare Elena, ma il trillo del telefono mi precede: è Cavatorci.
“Dottore Velleitani, ha già fatto quella riunione coi suoi colleghi del dipartimento per parlare del concorso?".
“No, pensavo di farla tra qualche minuto”.
“Devo chiederle di sospenderla, non vorrei che costituisce una turbativa nel corso delle indagini. Ne parleremo venerdì in commissariato assieme a tutte le altre questioni. Venerdì è il venticinque del mese, lei sarebbe ancora in tempo per inoltrare la domanda a quell’università americana... se tutto andrà bene”.
Lo interrompo: “D’accordo, commissario. Ma chi firmerebbe la domanda, visto che il Rettore non è ancora stato nominato?”.
“Questo non è certo un problema. Ho le opportune conoscenze negli ambienti giusti, è il mio mestiere”. Aggiunge ci vediamo venerdì, e mi saluta.
Passano pochi istanti, ed è di nuovo Cavatorci al telefono: “Mi scusi, Dottore Velleitani, dimenticavo di informarla su un fatto. Il giudice ha disposto la custodia cautelare nei confronti del signor Cipolloni, abbiamo rilevato le sue impronte digitali anche nel bagno privato del Rettore. Arriverderla”.
Quando è stato commesso l’omicidio io e Giuliano eravamo in quel ristorante in compagnia di Elena e Milena. La certezza di avere un alibi mi provoca una scarica di adrenalina.
Il Tg regionale delle diciannove ha trasmesso la notizia sugli sviluppi delle indagini all’università per l’omicidio del Rettore.
Un aperitivo prima della cena. Passo il bicchiere di riesling a Elena a facciamo cin cin, lei mette sul tavolino del soggiorno il piattino con su qualche scheggia di parmigiano-reggiano.
“Che ci fa in prigione quel Cipolloni? − dice Elena − “Ti sembra capace di un omicidio?”.
“Lo escludo, lui è soltanto la prima pedina che gli inquirenti hanno ufficialmente mosso. I giochi sono ormai aperti”.
“Ho la sensazione che presto assegneranno un ruolo anche a te in questa partita”.
Do un colpo di tosse. Poi le dico della sfogo di Cecilia nel mio ufficio.
“Giorgio, ti va di fare un gioco?”.
“Dipende da che gioco mi proponi”.
“Ti piacerà, vedrai. Dal momento che io sono un’aspirante saggista filosofica, immaginiamo che noi due stiamo scrivendo su un personal computer un giallo filosofico a quattro mani. Si tratta di un enigma che somiglia molto a quello nel quale in qualche maniera siamo coinvolti”.
“Ho capito cosa intendi, Elena. Possiamo farlo, visto che sai tutto del mio ufficio... e delle persone con le quali lavoro. Ma vorrei cominciare io. Supponiamo che il nostro commissario Cavatorci stia riflettendo sulla situazione partendo dal personaggio principale, vale a dire il Gran Cattedratico. Dunque, il Rettore trovandosi alle soglie del pensionamento è preoccupato per gli incerti sviluppi della carriera di suo figlio. È perfettamente consapevole dei limiti culturali e intellettivi del figlio Graziano, che, una volta lasciato solo senza l’aiuto del padre, rischia di restare inchiodato a vita nella posizione di assistente”.
Elena mi interrompe: “Sei così sicuro che Graziano non potrebbe migliorare col tempo?”.
“Stando a quello che si dice e a quanto io stesso ho potuto constatare, direi proprio di no”.
“Immaginiamo che sia così. Continua pure”.
“Il Gran Cattedratico riceve il famoso fax da Boston. Subito pensa che sarebbe l’occasione buona per togliere Graziano dalla palude e mette in atto quella manovra del concorso. A questa punto faccio un’ardita ipotesi. Il Rettore teme che il direttore del dipartimento, il nostro caro Giuliano, possa incazzarsi per l’incomprensibile ritardo con il quale ha informato del concorso i docenti interessati e quindi esprime il proprio disappunto in sede di direttivo dell’Istituto di cui fa parte. È un rischio che il Gran Cattedratico vuole evitare, sarebbe un pessimo epilogo per la sua carriera, ed ecco che gli viene in mente un’idea che potremmo chiamare merce di scambio: fa intendere a Giuliano che lo aiuterà nella corsa alla carica di Rettore quando tra pochi mesi lui dovrà lasciare per limiti di età − tieni conto che il Gran Cattedratico ha amicizie politiche molto influenti anche nel consiglio di amministrazione dell’Istituto − e Giuliano da parte sua ricambia il favore chiudendo un occhio sulla faccenda del concorso”.
Elena versa nei due bicchieri quello che resta del riesling, ci siamo fatti una bottiglia. Doveva essere un semplice aperitivo. “Vedi, Giorgio, non ho mai pensato che ti mancasse l’immaginazione, ma credo che in questo caso tu stai trascurando almeno due fattori, il primo è che Giuliano ha già una buona posizione, il secondo, almeno a quanto ci risulta, è che non ha mai manifestato l’intenzione di darsi da fare più di tanto per assumere responsabilità onerose... lui è più portato a... non è un mistero che gli piace la vita comoda e che pensa soltanto a scopare il più possibile”.
“Ne sai qualcosa anche tu, no?”.
“E se ti rispondessi di sì?”.
Faccio un gesto tipo non scherziamo.
Il riesling comincia a fare effetto. Elena dice ceniamo più tardi, adesso sdraiamoci un po’, torneremo dopo a occuparci del nostro giallo virtuale.
Sul divano c’è posto per due. Elena si addormenta di piombo. Mi stringo al sua fianco e le cingo il grembo con un braccio.
Pochi minuti e mi assopisco anch’io.
Nel sonno ho avuto un incubo. Il solito: correvo, correvo, ma alla fine mi trovavo sempre nello stesso posto. Angoscia.
Il risveglio è una liberazione.
Abbiamo dormito quasi un’ora buona. Elena posa con cautela il vassoio sul tavolino. Pane tostato, fette di salmone affumicato, una ciottolino di rosso d’uovo e due bottiglie di Stella Artois fresche al punto giusto.
“Vogliamo riprendere il nostro racconto, caro?”.
“D’accordo”.
"È il momento di mettere in scena la tua personale situazione, e diamo per scontato, come senza dubbio farebbe Cavatorci, che c’è un nesso con l’omicidio del Gran Cattedratico. Come prima cosa prendiamo in considerazione i personaggi e i loro rapporti interpersonali e che ruolo ciascuno poteva avere in questa storia. Quello che hai fatto tu lo sappiamo. C’è da supporre che non avessi alcun interesse a far fuori il Gran Cattedratico, in caso contrario ti saresti castrato con le tue stesse mani. Per te il Gran Cattedratico era l’interlocutore in assenza del quale sarebbe naufragato il tuo progetto di insediarti al Mit. Resta un punto interrogativo su come il Gran Cattedratico abbia potuto scoprire quello che stavi facendo a sua insaputa, qui è buio profondo. Poi è la volta di Giuliano, l’ipotesi di un accordo di mutua assistenza col Gran Cattedratico potrebbe reggere, la qual cosa escluderebbe automaticamente il tuo direttore da ogni responsabilità per quanto riguarda l’omicidio. E che dire di Graziano? Tutti pensano che non ha una personalità propria, con ogni probabilità sapeva cosa stava succedendo ma c’è da dubitare che abbia avuto parte attiva nell’opera di spionaggio, come al solito nessuno gli dà fiducia. Va da sé che è anche escluso un suo possibile coinvolgimento nella morte del padre. Infine, ecco Cipolloni ossia la manovalanza non qualificata. Sottolineo non qualificata, al di là di rimettere al posto qualche filo elettrico che si è staccato non sa andare. Quindi Cipolloni ha avuto una funzione secondaria nell’installazione della telecamera verosimilmente anche negli allacciamenti elettrici nel gabinetto del Gran Cattedratico, facendo il ragazzo di bottega, passava gli strumenti al suo principale, diciamo così, che li usava con la dovuta perizia. Quello che non mi spiego è che nel tuo ufficio gli uomini di Cavatorci non abbiano rilevato impronte digitali recenti oltre a quelle di Cipolloni. Non me la sentirei di escludere che sulla scena del delitto vi fosse un personaggio misterioso esperto di telecamere e impianti telefonici che non lascia impronte e che al momento non riusciamo a identificare, almeno in teoria. Infine ci sarebbe Cecilia, ma quella povera ragazza me la vedo più in veste di vittima designata a soddisfare le voglie di maschi infoiati piuttosto che protagonista o complice di un delitto”.
Il salmone spalmato con rosso d’uovo è una delizia. Elena lo assapora voluttuosamente. Beve un buon sorso di Stella Artois e si sfiora le labbra con la punta della dita per togliere quel poco di schiuma, mi rivolge un sorriso disarmante e dice che il prossimo capitolo tocca a me.
“Stando alle apparenze, fin qui tutto sembrerebbe quadrare. Ma dobbiamo ammettere che non siamo neppure a metà strada e ancora non si intravede una via d’uscita, non abbiamo la benché minima idea del retroscena, del movente e di chi possa essere l’assassino. E la cosa che più mi deprime è che ora le indagini ripartono dalle impronte digitali lasciate nel cesso del Gran Cattedratico dal personaggio più insignificante della storia. A questo punto dobbiamo prendere atto che non siamo più in grado di andare avanti con il nostro giallo a quattro mani. Quindi suggerirei di tornare alla realtà e lasciare che sia Cavatorci a risolvere l’enigma − non vorrei essere nei suoi panni”.
“Che vorresti dire?”.
“Che non c’è un minuto da perdere. Devo giocare d’anticipo, e subito!”.
D’improvviso mi si aprono gli occhi. L’orologio segna le ventidue, chissà se a quest’ora lo trovo ancora in ufficio. Prendo il telefono: “Buonasera commissario, avrei bisogno di parlarle... è urgente”.
“Che coincidenza! La stavo per chiamare. Volevo dirle che l’incontro in commissariato che le avevo preannunciato è confermato. Perciò ci vediamo venerdì mattina alle dieci. Parleremo di tutto, non si preoccupi. Le auguro una buona serata, Dottore Velleitani”.
Mi sorprendo a pensare che oggi è soltanto martedì. Il commissario vuole aspettare fino a venerdì per una riunione alla quale sembra dare tanta importanza. Che ci sia sotto qualcosa?
Lo stato di insicurezza in cui mi trovo mi fa prendere una decisione improvvisa. Dico a Elena che domani mattina telefono all’ufficio del personale e chiedo due giorni di permesso, ho un sacco di ferie arretrate, non può che farmi bene.
Sono il tipo di persona che quando ne ha il tempo apprezza starsene a letto anche senza dormire. Elena ha fatto del suo meglio per tenermi compagnia.

È venerdì. Alle sette sono già in piedi. Contrariamente alle mia fosche previsioni ho dormito bene. Mi avvio verso la cucina, e con gli occhi semischiusi dico buongiorno Elena.
Silenzio.
Mi rendo conto che non è in casa. Il suo cellulare è sul tavolo. Un brivido mi corre per la schiena.
Da almeno mezz’ora sono seduto su una sedia in cucina fissando il vuoto. Ho freddo. Infilo la giacca da camera sopra il pigiama, ma mi sento intirizzito come prima.
Il rumore della chiave nella toppa mi fa uscire dallo stato di trance, e l’apparizione di Elena è un’iniezione di ottimismo con effetto istantaneo. Ha in mano il sacchetto del panettiere e il giornale di oggi, mi si avvicina, deposita il tutto sul tavolo e mi abbraccia. Vengo avvolto da una sinfonia di odori, quello insinuante di Elena si mescola armoniosamente al dolce delle brioche e al fresco inchiostro del giornale.
Stendo il giornale sul tavolo. In prima pagina si parla di noi: l’occhiello dice Le indagini sull’omicidio del Rettore, il titolo L’INSERVIENTE NON PARLA, nel sottotitolo Spunta la pista dell’ambiente studentesco.
Diffido dei giornali italiani. Non fanno cronaca, ma si lasciano andare al gossip. Ne ho conferma nel leggere questo articolo; cerco la notizia della pista studentesca che sarebbe per me una boccata di ossigeno, ma trovo soltanto un generico accenno all’intenzione degli inquirenti di accertare se non vi sia qualche studente che per una ragione o per l’altra poteva nutrire del risentimento nei confronti del rettore. È la solita storia dei titoli drogati, smentiti poi dal contesto dell’articolo. Quanto al fatto che Cipolloni non intende parlare devo ammettere che non ne sono sorpreso.
Elena mi è a fianco, in piedi, la sua mano carezzevole sulla mia spalla. Sta leggendo anche lei. “Guarda qui“ − mi dice − “parlano anche di te”.
All’interno dell’articolo c’è un box che riporta l’organigramma dell’Istituto: sono indicate le discipline trattate dal ciascun dipartimento, i nomi dei direttori e dei loro assistenti. Elena fa scorrere il dito sulla riga che parla del nostro dipartimento, c’è scritto che tutti i docenti sono laureati in ingegneria cibernetica.
“Il solito giornalista disinformato!” sbotto.
C’è Giuliano al citofono. Gli dico: “Sali a prendere un caffè con noi, poi andremo al commissariato insieme”.
Ha gli occhi cerchiati più del solito.
Si accomoda in cucina, Elena gli porge il caffè e i loro sguardi si incontrano. Giuliano posa il cellulare sul tavolo accanto al giornale.
Dico vado a vestirmi, tra poco dobbiamo uscire. “Va bene, ma sbrigati” − dice Giuliano − “Almeno in macchina avremo modo di parlare un po’ di noi due”.
Sono pronto per uscire.
Il vibra-call del cellulare segnala una chiamata. Giuliano risponde: “Ciao Milena, che c’è?” Adesso dimostra tutti i suoi cinquant’anni. La conversazione si conclude in pochi secondi. “Quello stronzo di Cipolloni ha tentato il suicidio” dice Giuliano senza alzare gli occhi dal giornale. “Un agente del commissariato ha telefonato a casa mia lasciando detto a Milena che l’incontro in programma per stamattina è spostato alle quattro di pomeriggio, al momento Cavatorci si trova in ospedale dove hanno ricoverato Cipolloni. Ha detto anche che devo avvertire i colleghi del mio dipartimento”. Fa per chiamare gli altri due assistenti, ma ne trova soltanto uno; Graziano non risponde, lo smart-phone di ultima generazione del quale non si separa mai dice che al momento l’utente non è raggiungibile.
“Che si fa?” domando. “Andiamo nel mio ufficio” risponde Giuliano.
In macchina Giuliano non dice una parola, per la prima volta da quando è successo tutto questo casino sembra preoccupato, ma può darsi che mi sbagli, lui è soggetto a sbalzi di umore. Mi sento a disagio.
Nel corridoio dell’Istituto incrociamo il direttore del dipartimento di elettronica, va di fretta ma fa in tempo a informarci che Cipolloni ha cercato di suicidarsi ingerendo le lenti degli occhiali e parte della montatura fatta a pezzi. Poi si allontana dicendo ci vediamo alle quattro in commissariato.
Siamo nell’ufficio di Giuliano. Mi siedo su una poltrona, lui dice aspettami qui ed esce di nuovo dall’ufficio.
È rientrato: “Ho rintracciato Graziano, è all’ospedale con quella Cecilia, da suo padre”.
Giuliano prende il telefono, chiama il solito bar e ordina due panini al tonno e caprino, e una bottiglia di acqua minerale, dice al barista di portarceli per l’una. Ha fatto tutto senza chiedermi cosa ne pensavo.
“Sai che ti dico Giorgio? Quella riunione di oggi io non la capisco. Che cazzo ci andiamo a fare in commissariato? Saremo almeno una quindicina di persone, c’è il rischio che si trasformi in un’assemblea. Il Cavatorci deve avere in mente un piano che mi sfugge. E poi, ci ha già interrogato tutti quanti. Cos’altro si aspetta che salti fuori da noi? Provi invece a darsi da fare con gli studenti!”.
“Io non sono mai stato sottoposto a un interrogatorio formale” replico a muso duro.
“Ma via, sei stato il primo! Me l’ha detto lui”.
“Quello è stato soltanto un colloquio che ho avuto con Cavatorci per una circostanza − diciamo fortuita”.
“Ascolta, Giorgio. Fino a oggi noi due abbiamo fatto gara a chi era più abile nell’evitare l’argomento dell’omicidio, può darsi per una reciproca e in un certo qual modo comprensibile diffidenza. Ma questo gioco può durare all’infinito, è venuto il momento di parlare... e anche di quella telecamera. Dobbiamo farlo subito, continuare a fingere che non è successo niente può solo aggravare la nostra posizione. Non dimenticare che siamo tutti sotto osservazione, anche se talvolta non ce ne accorgiamo”.
“Tu sapevi...”.
“Sì sapevo tutto. Che stavi facendo quel lavoro e che ti spiavano, me l’ha detto il Gran Cattedratico. E c’è di più, il nostro defunto Rettore mi ha fatto avere le foto che ti hanno scattato e io le ho registrate nel mio computer di casa. Sono stato al gioco per cercare di capire dove voleva arrivare il Gran Cattedratico... credimi”. Poi cambia bruscamente argomento: “Questa mattina ho detto a Milena che il nostro rapporto non ha un futuro, ne mancano i presupposti. Lei non ha fatto una piega. Se ne andrà domani”. E scoppia in una risatina isterica.
Ci stiamo avviando al commissariato a piedi.

Pensieri di un uomo in attesa di verdetto: Oggi è il venticinque del mese, se non si chiarisce la mia posizione entro stasera posso dire addio a Boston e a tutte le speranze che in questi giorni ho investito sul Mit, lunedì è l’ultimo giorno utile per inoltrare la domanda, ieri sera Elena mi ha detto che settimana prossima vorrebbe aggiornare il suo guardaroba, là negli Usa va di moda la linea italiana ma di sicuro i prezzi sono molto più cari che da noi. Elena pensa che c’è sempre una buona ragione per non rinunciare ai propri sogni e mi incoraggia, dice ce la farai, e mi parla di uno scrittore che a un certo punto del romanzo fa dire a un suo personaggio che un uomo che non sogna è come un uomo che non suda, accumula in sé una grande quantità di veleno...

Siamo in anticipo di un quarto d’ora. C’è tempo per un caffè. Il bar come sempre è pieno di gente, faccio segno al barista che abbiamo fretta. Giuliano ordina un decaffeinato. È una novità.
Il tragitto è breve. Camminando noto le varie sfumature di blu che colorano il cielo. È un primo annuncio di primavera.
Giuliano si muove nei corridoi del commissariato come fosse di casa, quando ci troviamo davanti all’ufficio di Cavatorci allunga il passo e si dirige a testa alta verso una breve rampa di scale sulla sinistra. Lo seguo, e chiedo sai dirmi dove stiamo andando. “Fidati di me” − risponde − “ci sono già stato altre volte”.
Scommetto che sta sogghignando.
Mi giro per vedere se dietro di noi ci sono altri colleghi che dovrebbero partecipare all’incontro. In fondo alla scala vedo Cavatorci, fa segno di proseguire. Davanti a una porta dal colore ocra sporco, Giuliano si ferma di colpo. Sulla porta c’è un cartello fissato di traverso con una puntina da disegno. La scritta a pennarello è ormai sbiadita del tutto e non si riesce neppure a immaginarla.
Cavatorci ci ha raggiunto, raddrizza con un dito il cartello che subito ricade nella posizione di prima. Basterebbe un’altra puntina, e ripassare con un pennarello la scritta scomparsa. Cavatorci dice buongiorno signori, accenna ad entrare ma Giuliano è più svelto di lui, agguanta la maniglia, spinge con disinvoltura ed entra per primo, io mi sposto goffamente a lato e lascio a Cavatorci almeno l’onore della seconda posizione.
Dentro non c’è ancora nessuno. Mi colpisce il fatto che l’ufficio è più piccolo di quello del commissario e mi domando come farà a starci tanta gente. Poi noto che ci sono solo sette sedie per gli invitati, sei delle quali sono poste a semicerchio davanti alla scrivania di Cavatorci mentre in fondo al locale ne vedo una appoggiata alla parete.
Qualche minuto più tardi entrano uno dopo l’altro i quattro direttori, Giuliano e io siamo già seduti sulle due prime sedie accanto alla porta. Cavatorci, che si era appena accomodato alla sua scrivania, si alza di nuovo, e va a chiudere a chiave la porta. Adesso siamo tutti seduti. Solo la sedia contro la parete è vuota. “Non si preoccupino, signori, ho chiuso la porta a chiave in modo che ci lascino in pace, così ce la sbrigheremo presto” fa Cavatorci. Lieve vibrazione dei baffetti.
Sulla scrivania un foglio di carta, una biro senza cappuccio e il telefono posto di fianco alla lampada da tavolo spenta. L’ufficio è fiocamente illuminato da una plafoniera al neon.
Cavatorci attacca: “Come prima cosa vorrei chiarire a lorsignori che non si tratta di un interrogatorio di gruppo, né è una specie di confronto all’americana. Ho solo pensato che le persone che occupano i posti di maggiore responsabilità all’Istituto possono meglio di chiunque altro rappresentarmi il clima dell’ambiente nel quale con ogni probabilità è maturato il fatto delittuoso. È altresì vero che sull’argomento ho già sentito ciascuno di loro separatamente, ma ora che siamo vicini a un quadro completo il fatto di trovarci assieme può aiutarmi ad avere una convalida dell’idea che mi sono fatto sull’aria che tirava complessivamente in Istituto prima dell’omicidio del povero professore Tramelli o, se del caso, ad apportare qualche necessario ritocco. Devo aggiungere che in un primo tempo avevo in animo di invitare anche gli assistenti, ma poi ci ho ripensato, mi bastano lorsignori. L’unico assistente che in questo momento è qui con noi e il dottore Velleitani, ma la presenza del dottore è giustificata dal fatto che nel suo ufficio, se mi passano la similitudine, è come se si fosse svolta qualche scena non secondaria del film al quale stiamo assistendo. Per quanto riguarda le indagini posso solo dire che proseguono. Aggiungerò anche che i medici hanno dovuto sottoporre il signor Cipolloni a un intervento chirurgico, ma dicono che se la caverà”.
Bussano alla porta. Cavatorci va ad aprire, sulla soglia dell’ufficio un agente in divisa gli passa una busta bisbigliandogli all’orecchio parole che non arrivano fino a noi. Cavatorci è di nuovo alla sua scrivania. Dice scusatemi un attimo. La busta è aperta, dentro c’è un foglietto che Cavatorci sfila un po’ evitando di estrarlo completamente, fa scorrere lo sguardo su quello che c’è scritto, ho la sensazione che si tratti di poche righe; rimette il foglio nella busta e la posa sulla scrivania, nell’angolo di destra vicino a dove sono seduto io.
Non so se Cavatorci si è accorto che mi è bastato uno sguardo per riconoscere la grafia dall’intestazione, lettere sinuose con qualche virtuosismo di troppo, disegnate piuttosto che scritte, come quelle della busta che mi hanno recapitato con il cubetto di porfido.
In meno di un’ora Cavatorci ha fatto il giro delle domande. Ciascun direttore ha confermato che i rapporti col Rettore erano normali, tra i colleghi del dipartimento c’è armonia e identità di vedute sui piani di studio, e tutti hanno parole di stima umana e professionale per i propri assistenti, compreso Giuliano.
Infine, niente di anomalo da segnalare sull’ambiente studentesco dei singoli dipartimenti.
A me non ha chiesto nulla.
Cavatorci appoggia i palmi delle mani sulla scrivania, lentamente si alza, prende il foglio di carta bianca, lo appallottola e lo butta nel cestino. Non ha preso neppure un’annotazione. Per un attimo fissa la sedia là in fondo, che è rimasta vuota, poi, come se stesse pensando ad alta voce, volgendo uno sguardo distratto alla finestra, dice: “Avevo invitato un’altra persona, ma evidentemente non è potuta venire”.
Prima di congedarci Cavatorci rivolge un ultima domanda al direttore di elettronica: ”Saprebbe dirmi per quale ragione circa un anno fa il dottore Graziano Tramelli ha chiesto di essere trasferito dal dipartimento che lei dirige, dove si tratta di materia nella quale lui è laureato, a quello di cibernetica del professore Mandrulli?”.
Il direttore di elettronica risponde che non ne ha idea, la richiesta l’ha fatta personalmente il Rettore, in sostanza era un ordine di servizio.
“Bene signori, grazie per la collaborazione. Buonasera”. Questa volta Cavatorci riesce a guadagnare la porta per primo.
Siamo sul corridoio, qualcuno ha chiamato l’ascensore, Giuliano mi dice non ci stiamo tutti scendiamocene a piedi. Faccio per seguirlo, ma mi blocco di colpo, lo prendo per il braccio e dico: “Fermati un attimo, guarda chi è in arrivo!” Dalla parte opposta del corridoio sbuca il rasta corvino di Cecilia, le anche sempre in gran movimento, sta andando incontro a Cavatorci che è ancora abbastanza vicino a me e Giuliano, quando lo raggiunge riesco a captare le sue parole. “Signor commissario, ha ricevuto il mio biglietto? Ho bisogno del suo aiuto, la prego!”.
Sviluppo in una frazione di secondo un ragionamento elementare, mi stacco da Giuliano e raggiungo Cavatorci: “Commissario, lei mi aveva detto che se entro stasera avessimo...”. “Calma, calma, Dottore Velleitani, le assicuro che sono intenzionato a chiudere questa storia entro oggi − ma la giornata finisce a mezzanotte − voglio prendermi anch’io un fine settimana di riposo”.
Quando rientro a casa sono passate da poco le diciannove e trenta. Elena è sul computer. “C’è qualcosa da mettere sotto i denti?” le chiedo. “Ti ho lasciato un panino al formaggio, di là in cucina, la birra è in frigo. Poi vieni a raccontarmi come è andata”.
Ho lo stomaco chiuso a riccio, riesco a mandare giù a fatica mezzo panino e tracanno la birra illudendomi di calmare il bruciore. Sono seduto sulla poltroncina del mio computer spento, in pochi muniti Elena è al corrente dell’incontro in commissariato. ”Coraggio, Giorgio, sta per arrivare il momento che aspettavi. Se tutto va bene, è questione di poche ore”.
“Troppe persone mi spiavano, mi sento come accerchiato” dico a Elena mentre avverto un fastidioso aumento dei battiti del cuore. “A questo punto, dopo quello che ho visto e sentito oggi, si potrebbe dire che almeno quattro persone tramavano contro di me”.
“Magari cinque!” esclama Elena.
“Se oltre ai due Tramelli e ai Cipolloni padre e figlia aggiungi il nostro esimio professor Mandrulli, i conti tornano Ma mi rifiuto di credere che Giuliano abbia fatto parte del gioco. E anche per Graziano e Cecilia non metterei la mano sul fuoco. Cecilia potrebbe essere stata un elemento inconsapevole: può darsi che si è limitata a scrivere l’intestazione della busta indirizzata a me senza nemmeno conoscere il motivo. Chi le ha chiesto di farlo forse è stato Graziano che a sua volta era una pedina passiva succube del padre”.
“Con un simile ragionamento si arriva alla conclusione sconsolante che chi ti voleva incastrare era solo il Gran Cattedratico che però è stato tolto di mezzo, così in questo momento siamo al punto di partenza e tu non sei in grado di chiarire agli inquirenti la tua posizione. No, non ci posso credere!”.
L’attacco di tachicardia non vuole cessare. Di scatto mi alzo dalla poltroncina, corro al bagno, piego la testa sul water e mi libero lo stomaco.
Lavo i denti e mi sciacquo la faccia. Sono di nuovo da Elena. “Dove sei andato, così di corsa?”. “Per poco non mi scoppiava la vescica, è un tipico fenomeno nervoso. Che vuoi, tutta questa tensione!”.
Adesso sto meglio.
In soggiorno mi sdraio sul divano e accendo il televisore. Faccio un po’ di zapping, poi mi sintonizzo sul canale dove in un talk-show di alto ascolto i soliti politici mettono in scena il teatrino che conosco fin troppo bene. Urlano come matti. Spengo.
Elena è rimasta sul computer.
Un thè ben zuccherato mi andrebbe bene. Mentre sto per raggiungere la cucina suona il citofono, è un tocco leggero, ne deduco che non si tratta di Giuliano. Sono le ventidue e un quarto. Chiedo chi è. Risponde un agente di pubblica sicurezza, lo manda Cavatorci per accompagnarmi in commissariato.

Perché non mi ha telefonato, prima di mandarmi l’agente? Avrei preferito andarci da solo in commissariato.

Il poliziotto sale, è giovane e sorridente: “Il commissario la prega di seguirmi, devo anche dirle che non c’è nessuna ragione per cui lei si debba preoccupare”.
Il  giovane poliziotto guida lento, quasi a volermi dimostrare che non c’è fretta. Prima di uscire, con un delicato gesto della mano Elena mi ha soffiato un bacio e mi ha detto torna presto.

Pensieri del Dottor Giorgio Velleitani prima che cali il sipario: Non poteva che finire così, tutte le ipotesi che ho fatto con Elena o anche da solo mancavano di un elemento convalidante, ossia il movente, alla fine di ogni ragionamento ci siamo sempre trovati in un cul-de-sac, ci voleva l’incontro di oggi al commissariato per aprire uno spiraglio, ora non mi resta che sperare...

Entro nell’ufficio di Cavatorci: “Buonasera commissario”.
“'Sera, dottore”.
Graziano è lì seduto, di fronte alla scrivania del commissario.
È come piegato in due, le spalle ricurve, il ciuffo giallastro gli copre l’occhio sinistro, mani a pugni chiuso appoggiate sulle gambe.
“Ciao Giorgio”. La diresti la voce di un ragazzino timido alle soglie dell’adolescenza, tiene lo sguardo abbassato.
“Ciao Graziano”.
Cavatorci mi indica una sedia: “Si accomodi vicino al dottore Tramelli”.
Solo dopo qualche secondo mi accorgo che in un angolo dell’ufficio c’è un agente in borghese seduto davanti al computer.
“Lei, Dottore Velleitani, deve solo dirmi se riconosce questa calligrafia”. Mi mostra una busta bianca che gli hanno consegnato in ufficio. “Sì, è la stessa della busta gialla che è arrivata a casa mia attraverso i vetri”.
“Si tratta della grafia della signorina Cecilia Cipolloni, la busta l’ho recuperata nell’archivio dell’ufficio del personale del vostro Istituto, è quella che conteneva la domanda di assunzione della ragazza” conclude il commissario.
Guardo di sottecchi Graziano: è scosso da un tremito.
Cavatorci alza un dito verso l’agente seduto al computer, questi esce dall’ufficio e subito rientra. Dietro di lui due agenti in divisa. Un altro tremito agita il corpo di Graziano. I due agenti gli si avvicinano, gli fanno cenno di alzarsi. Si alza. Adesso il ciuffo gli copre tutti e due gli occhi. Graziano esce di scena dandoci le spalle.
È finita.

Pensieri di un uomo libero: Se la felicità è un rischio che si deve correre, ma la sono davvero meritata, e la terribile esperienza di questi giorni è stato il prezzo che dovevo pagare. Ha ragione Elena: c’è sempre la possibilità di scegliere... sarà bene che non me lo dimentichi…

Per la prima volta da quando l’ho conosciuto, Cavatorci mi gratifica di un largo sorriso. Ha denti piccoli, bianchissimi. “Coraggio, Dottore Velleitani, chiami sua moglie e le dica che la faccenda è chiusa”.
Non mi faccio pregare: “Ciao amore. Qui va tutto bene. Aspettami, sarò a casa tra non molto”.
Cavatorci chiude gli occhi per un istante, si capisce che sta cercando di concentrarsi al massimo, dà l’impressione di essere un po’ affaticato, mi chiedo se anche lui non vede l’ora di tornarsene a casa, chissà se è sposato, non porta la fede al dito. La lucidità delle sua esposizione dei fatti mi colpisce: “È stato Graziano, Dottore Velleitani. Si è trattato di in parricidio, ma secondo lui non doveva andare così, voleva soltanto fare in modo che suo padre fosse costretto a rinunciare al progetto del concorso addomesticato... dopo le dirò come. Graziano era intenzionato a restare in Italia, è innamorato di Cecilia e intendeva sposarla. Se fosse andato negli Usa, Cecilia non avrebbe potuto seguirlo. Il Rettore era contrario a quel matrimonio... Cecilia, la figlia di un bidello. Figuriamoci! Il Rettore è sempre stato autoritario e oppressivo nei confronti del figlio, provocandogli, col crescere, una grave forma di insicurezza. Vede, Dottore Velleitani, io non sono di quei poliziotti che hanno grande fiducia in certe teorie che vanno di moda di questi tempi. Del resto, studi scientifici con tanto di dati statistici più che attendibili hanno dimostrato che una certa psicanalisi da sciamani anziché risolvere i problemi delle persone in analisi, si fa per dire, il più delle volte ha causato guasti irrimediabili. Pensi al complesso di Edipo e tante altre scempiaggini del genere! Io, comunque, il giorno del funerale del Rettore, visto lo stato di alterazione del figlio Graziano che più di una volta è stato sul punto di svenire l’ho fatto visitare in mia presenza da un medico di fiducia della questura, un neurologo, per intenderci, non certo da uno strizzacervelli. Una giusta dose di sensibilità umana non deve mancare mai nel mio lavoro, mi creda. In quel momento non era mia intenzione sottoporlo a un interrogatorio vero e proprio... sebbene quel rapporto così stretto coi Cipolloni cominciasse a insospettirmi. In ogni caso volevo aiutarlo a liberarsi dall’angoscia che lo attanagliava, il resto sarebbe venuto dall’approfondimento della indagini, questa era la mia idea. Il neurologo ha cercato di convincere Graziano a farsi una ragione della morte del padre, ma il giovane si è turbato ancora di più, ha avuto una crisi di nervi, balbettava frasi sconclusionate su Cecilia, poi di colpo si è chiuso in un mutismo assoluto al punto che il medico, per cercare di sbloccare la situazione, mi ha chiesto di lasciarli soli. Quando poco dopo sono usciti dallo studio, Graziano sen’è andato in tutta fretta. Il medico mi ha poi riferito che il giovane non aveva più aperto bocca quando erano solo tra loro due... era come e a avesse un segreto da nascondere. Ecco perché avevo invitato anche Graziano all’incontro di oggi, volevo osservare la sue reazioni in una situazione di estrema tensione psicologica. Ma lui non si è fatto vedere, era in ospedale con Cecilia, dal padre di lei. Questa sera, sul tardi, prima di convocare lei, Dottore Velleitani, l’ho rintracciato sul suo cellulare e gli ho detto che un mio agente sarebbe passato da lui, lo avrebbe accompagnato da me per uno scambio di vedute. Ho sgombrato la scrivania da tutto quello che non serviva al mio scopo, lasciando in bella evidenza sotto la luce della lampada da tavolo soltanto le due buste, quella gialla che lei conosce e l’altra bianca di oggi, appena entrato in ufficio lui le ha viste ed è crollato. È stata una confessione. Del tutto spontanea. Io nell’epilogo di questa vicenda non ho avuto grandi meriti, mi creda, non c’è stato neppure bisogno di interrogarlo. Graziano non ce la faceva più a tenersi dentro i suoi fantasmi. È venuto fuori che il padre lo costringeva in uno stato di totale soggezione, finché l’amore per Cecilia gli ha fatto prendere coscienza di sé. Una volta liberatosi da quella sudditanza, Graziano si è impegnato in un abilissimo doppio gioco. A ben vedere non è poi così corto di cervello come alcuni erroneamente credono. Ha lasciato credere al padre che era d’accordo sullo scambio di favori che questi aveva concordato con il professore Mandrulli, e ha coinvolto il signor Cipolloni e la figlia per rendere l’operazione più credibile agli occhi del padre. Come lei può immaginare, Graziano è stato molto generico e reticente nello spiegare la faccenda ai Cipolloni, ha detto e fatto di tutto affinché fosse il più possibile criptica ai suoi più o meno inconsapevoli complici. È stato lui che ha installato la telecamera con la quale la spiavano. Poi ha escogitato quella rudimentale sedia elettrica, in buona sostanza voleva fare in modo che il padre a causa di una forte scossa elettrica finisse in ospedale, quanto bastava per far trascorrere i termini del concorso. La scossa doveva essere forte, ma non mortale. Purtroppo le cose sono andate diversamente, l’autopsia ha evidenziato che il Rettore aveva le coronarie in disordine. Chi ha fatto tutti gli allacciamenti elettrici, usando dei guanti per non lasciare tracce, è stato proprio Graziano, che è esperto di elettronica... ma non abbastanza, come si è visto. In qualche modo, è il caso di dirlo, si è fatto aiutare da Cipolloni, inconsapevole di quanto stavano facendo, lasciandolo lavorare a mani nude... e quella è stata l’unica distrazione di Graziano. A Cipolloni ha detto che stavano collegando la videocamera con il gabinetto del Rettore al quale, durante i suoi infiniti tentativi giornalieri di svuotamento della vescica, sarebbe stato così possibile controllare ogni mossa di quell’assistente ficcanaso del dipartimento di cibernetica, cioè lei, Dottore Velleitani. Dopo la morte del Rettore  è successo che il Cipolloni ha tentato il suicidio convinto che sarebbe finito sotto accusa per omicidio. Che altro c’è da aggiungere? Che Graziano è giovane, e se al processo passa l’omicidio colposo potrebbe cavarsela con poco più di una decina d’anni che in caso di buona condotta verrebbero poi ridotti di circa la metà. Il signor Cipolloni guarirà e forse riuscirà a evitare il carcere, dal momento che non è mai stato del tutto consapevole di quello che in realtà Graziano gli faceva fare. Il professor Mandrulli non deve rispondere di alcunché davanti alle legge essendo del tutto estraneo al fatto. Lo stesso dicasi per lei, Dottore Velleitani. Resta infine la signorina Cecilia che non ha commesso nessun reato, a meno di riuscire a provare che fosse perlomeno al corrente delle intenzioni di Graziano. Il che mi sembra alquanto improbabile. Oggi mi ha persino aiutato nelle indagini confermandomi lo stato, se non proprio patologico, perlomeno anomalo tra il Rettore e suo figlio, quindi, come dicevo, non dovrebbe correre rischi. Mi ha confidato che vuole sposare Graziano anche se lui finirà in carcere... e che lo aspetterà”.
"Una sola domanda, commissario, qual è stato l’indizio che ha fatto scattare la sua decisione di concentrare le indagini su Graziano e l’ambiente che frequentava?“.
“Non tanto un indizio, direi un’anomalia. Più precisamente, il fatto che Graziano Tramelli, specializzato in elettronica, fosse stato trasferito dal Rettore a cibernetica, vale a dire al dipartimento dove si insegna una materia che lui conosce solo superficialmente... poi il legame coi Cipolloni ha fatto il resto”.
“Quindi ha cominciato a pensare alle ragioni di quello strano e improvviso trasferimento...“.
“E ho concluso che il Rettore voleva facilitare l’accesso di suo figlio a un Istituto universitario estero; il dipartimento di cibernetica era di sicuro il più adatto non fosse altro per i frequenti scambi internazionali che lo sviluppo di quella scienza comporta”.
“Avrei un ‘ultima cosa, commissario... ma no so se posso...“.
“Dica, dica pure, Dottore Velleitani”.
“Chi è stato a scoprire quel lavoro che io stavo facendo di nascosto nel mio ufficio? e quando se n’è accorto?”.
“Oh, semplicissimo! È stato il Rettore a scoprire tutto. Quando dal suo computer è scomparso il file delle tesina del figlio non è stato in grado di spiegarselo, forse ha pensato che si era dimenticato di premere il tasto save o a una caduta di corrente, sta di fatto che non ha perso tempo e si è rimesso subito al lavoro ricominciando daccapo. Questa volta però si prende le sue precauzioni e decide di lavorare sulla tesina quando a fine giornata tutto il personale ha lasciato l’ufficio. Può darsi che abbia fiutato il pericolo. In ogni caso per lui lavorare di notte non è un problema, giacché soffre d’insonnia... e di frequenti stimoli alla vescica”.
“Ma non poteva farselo a casa col suo computer personale quel lavoro?”.
“No, perché c’erano da consultare diversi volumi scientifici che si trovano nell’archivio dell’Istituto”.
“Ah, già”. Ne so qualcosa anch’io.
“Ecco quindi come viene a verificarsi la coincidenza che ha avuto un ruolo decisivo in tutta la vicenda. Da quel momento il Rettore comincia il suo lavoro notturno attorno a mezzanotte, mentre lei, Dottore Velleitani, lasciava l’ufficio all’incirca a quell’ora. E il caso vuole che una sera il Rettore capita lì qualche minuto prima del solito e vede lei, Dottore Velleitani, che se ne fila via in macchina dall’Istituto usando il comando elettronico per l’apertura del cancello che è in dotazione soltanto al Rettore e ai direttori di dipartimento; la cosa lo insospettisce e la mattina successiva, da buon decisionista qual è, mette subito in atto l’operazione di spionaggio... con tanto di intimidazione finale consistente nel cubetto di porfido e annessa corrispondenza, diciamo così. A ben vedere tutti e due facevate del lavoro in un certo senso straordinario più o meno negli stessi orari, operando sulla stessa materia ma con obiettivi opposti. Sembra che le cose siano andate così... stando almeno a quanto ha dichiarato il giovane Graziano”.
I baffetti visibilmente ammosciati riflettono la stanchezza di Cavatorci: “Adesso, Dottore Velleitani, è ora che lei torni da sua moglie. La faccio accompagnare in macchina da un agente. La auguro una buona notte. E sappia che lunedì si terrà un consiglio di amministrazione straordinario dell’Istituto presieduto da un ispettore ministeriale... vedrà che la sua domanda per il concorso sarà regolarmente trasmessa a Boston, ne sono sicuro”.
“Grazie, commissario. E buonanotte anche a lei”.
Il solito giovane poliziotto mi ha riportato a casa questa volta guidando briosamente lungo le strada ormai immersa nel blu violaceo della notte.
Un intenso abbraccio a Elena, l’emozione fin qui repressa e il calore del suo corpo quasi mi tolgono il respiro. A stento riesco a dirle: “Amore, prepara le valigie, gli Usa ci aspettano”.
Cheesburger, patatine fritte e una bottiglia di prosecco ghiacciato, poi un caffè forte e due dita di whiskey irlandese. Durante la cena ha voluto che le raccontassi ogni minimo particolare, anche il più insignificante. “Giorgio” − mi dice − “sono così eccitata che non ne hai idea. Siamo all’inizio della nostra vera vita... il nostro progetto... E per prima cosa sai cosa voglio?”.
“Sono curioso di saperlo”.
“Voglio un figlio... e subito!”.
A ripensarci, quelle erano le uniche parole che desideravo sentirmi dire.
Mi sono preso due settimane di ferie. Giuliano si è fatto vivo una sola volta per telefono. Dice che sta bene e ha in mente di dare una riordinata alla sua vita. Neppure un accenno alla imminente elezione del nuovo Rettore. Promette che dopo la sessione estiva degli esami verrà a passare qualche giorno da noi, nel Massachusetts; si è già informato sul clima che è di tipo continentale e non vede l’ora di farsi qualche nuotata nelle acque della costiera atlantica.
Quando da Boston arriva la email di accettazione della mia domanda, sono bastati pochi giorni per i preparativi e le formalità burocratiche. Elena ha appena trovato il tempo di andare a salutare i suoi, che dopo il pensionamento si sono trasferiti sulla riviera ligure, ed è tornata di corsa a Milano.
Io non ho nessuno da salutare.
Ieri ho chiesto a Elena se è sempre intenzionata a fare del giornalismo culturale.
“Hmm... ci devo riflettere” mi ha risposto con tono divertito.
Il taxi procede a tratti nel traffico caotico. Scrosci di pioggia intermittenti riducono al minimo la visibilità. Nell’abitacolo i vetri sono appannati. Elena mi stringe vicino raggiante, tra un’oretta saremo a Malpensa. Chiedo al taxista di fare una breve deviazione. Voglio dare un addio a quelle strane guglie. Eccole là in fondo che sovrastano l’Istituto. Nelle vicinanze l’indolente e frastagliato branco umano di sempre. Nulla cambia.
Passiamo di fronte al solito bar, dico al tassista rallenti un po’. Riconosco di spalle le due sagome che camminano sul marciapiede davanti a noi. Giuliano indossa un vecchio Aquascutum logorato dagli anni. Con la mano destra regge un ombrello dalle larghe falde gialle e blu elettrico, con l’altra cinge ai fianchi la ragazza che cerca di riparare i capelli rasta nero corvino appoggiandosi teneramente alla spalla di lui.

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