Print this page
Saturday, 09 May 2015 00:00

La vita che ti uccide

Written by 

Se tu chiedi di rinunciare alla vita, la vita
non ti preserva, comunque ti uccide.
(Emma Dante)

 

Il buio è la premessa di ogni spettacolo, il luogo d’origine da cui parte ogni trama: dal buio sorgono gli arredi di scena, vengono i personaggi della storia, nasce la prima parola che viene detta. Per questo – che la platea sia piccola o grande, che appartenga a una stanza  di periferia o alla sala elegante di un’importante città – esiste il momento magico, lentissimo e benefico in cui le luci si spengono e tace ogni voce mentre, in assito, s’attarda l’inizio. Senza questo buio, spazio/tempo di passaggio dal mondo consueto all’inconsueto del teatro, nessuna opera potrebbe cominciare.


Le sorelle Macaluso
di Emma Dante appartiene a questo buio, da questo buio deriva, di questo buio è composto. Spettri d’un passato che non esiste avanzano lentamente, schiera o plotone chimerico appartenente al tempo che è stato, perché siano ancora: per un’ora e dieci minuti. Avanzano, questi volti di corpi vestiti di nero (perché parti dell’assenza scura da cui vengono; perché portatori del lutto a cui sono rimasti e a cui dovranno dare replica) mostrando un pallore carnale, aumentato dalle livide luci superiori: sono anime chiamate alla presenza, invocate all’apparizione da una danza individuale e rituale la cui formula è detta quindi coi muscoli, il fiato, la circolarità della coreografia. Chi sono queste sette sorelle? Donne che forse furono veramente; metafore di rimando ad altre donne che hanno abitato il reale; attrici cui spetta il compito di vivere la finzione mentre fingono la vita. Si muovono all’unisono, smascherando immediatamente ogni innaturalezza compositiva e dicendo, quindi, che il teatro non ha a che fare con la verità, che nulla di ciò che mostra è sincero, per quanto sinceramente ci dica più di quanto faccia l’ipocrita realtà di cui siamo parte.
Perché sia chiaro che la loro esistenza è solo un’evocazione momentanea, voluta da una regista e messa in pratica su un palco, raggiungono la ribalta spogliandosi momentaneamente dei soprabiti scuri (mostrando un costume da mare: segno della storia di cui sono portatrici ma anche metonimia tessile del costume di scena) e qui prendono gli scudi e le spade per guerreggiare falsamente, in maniera pupesca, ribadendo in questo modo che ciò a cui assistiamo è una simulazione ma anche anticipando (figurativamente) la lotta dialogica cui stiamo per assistere. Nessuna sicurezza fissa, immobile, nessuna assolutezza appartiene al mio teatro – ci dice inoltre Emma Dante – e ce lo dice, in questo primo frammento, cambiando la tonalità dei fari a picco sugli armamenti: argentei, diventano d’oro, per tornare di nuovo argentei. Poi le sette si dispongono in riga e che ognuna mantenga il posto che le spetta – il ruolo che le è stato assegnato: “Stai qua” dirà una all’altra; “Torna qui” indicherà una sorella a una sorella, “Tornatevene al vostro posto” ordinerà il padre a tutte.


Inizia così la narrazione, con una frontalità che non sgretola la quarta parete ma che la quarta parete la forma proprio tenendo dritti questi stessi corpi femminili, perché si compia la riviviscenza della morte. Impossibile non notare che il paradosso su cui si fonda Le sorelle Macaluso è il paradosso su cui si fonde il teatro in quanto teatro: arte che fa coincidere i defunti (i personaggi che appartengono a una scrittura finita, terminata, compiuta)  coi vivi (gli attori) perché il sacrificio dei vivi (gli attori, la cui identità svanisce durante la recita) permetta di mostrare l’esistenza dei defunti.
Emma Dante – con il suo testo e con questa sua compagnia straordinaria – dice dunque di quel giorno, di quel luogo, di quel gioco che generò la fine ma lo dice in questo giorno (la data odierna), in questo luogo (un palcoscenico), con questo gioco (il teatro) generando la risorgenza della fine: perciò non riesco a non pensare a Le sorelle Macaluso − oltre che come a un delicato strazio sulla perdita di chi si ama − anche e soprattutto come a una dimostrazione della portentosa capacità epifanica che ha il teatro: attraverso i suoi mezzi artigianali, le sue trovate drammaturgiche, i suoi scorci visionari.
Ecco dunque il tappeto di luce chiara che anticipa e chiama la prima apparizione, il crocifisso innalzato per ostentare la tematica funeraria, le capriole, le piroette, i salti e l’esagerazione gestuale, la reiterazione di movimento, la calcatura mimica per dare sostanza ai fantasmi della trama; ecco il dialettismo (lingua mascherale ma anche sonoro caratterizzante e carnalità idiomatica), la ripresa interna delle battute e la loro riassegnazione infra-attoriale, la prova e la riprova di una sequenza, l’indicazione di una posa e la sua messa in pratica, il duale simbolismo cromatico nero/colori degli abiti; ecco i defunti impegnati nella ripetizione ossessiva di una partitura motoria (la forma ritornante del ricordo in cui è chiuso chi non c’è più; la realizzazione della relazione per cui quell'attore è quel movimento); ecco la claustrofobia dello spazio vuoto, la cui chiusura dipende paradossalmente dal mancato uso delle quinte, con le loro aperture mostrate, suggerite o delineate; ecco la ritmicità della musica, il suono battente della lingua, l'animalità delle espressioni facciali; ecco l’italiano/convenzione della madre e il pugliese di una delle figlie (differenzazione linguistica come metafora del distacco, da cui dipende la diversità dell'una rispetto alle altre); ecco il coro, la sovrapposizione confusa di voci e l’assolo, la coreografia personale e collettiva, le scene eseguite nel centro anteriore di un ambito tracciato intorno da tre controscene; ecco una drammaturgia visiva che nasce, si sviluppa, regredisce e muore secondo un'equilibrata linearità plurintensiva (buio/ luce/ danza/ apparizione/ esposizione del fatto/ sparizione/ danza/ luce/ buio).


In un’intervista realizzata da Andrea Porcheddu e Patrizia Bologna Emma Dante dichiara che non c’è distacco completo tra uno spettacolo e l’altro: “Uno entra nell’altro, non c’è mai un azzeramento” e, piuttosto, la sua ricerca “spinge ad incastrare, a far combaciare”. Provo allora a mettere in relazione Le sorelle Macaluso col passato lontano (l’opera d’un tempo che, per tematica, mi sembra più affine) e con quello prossimo (l’ultima opera della Dante che ho recensito).
Vita mia, del 2004 è, per dirla con Porcheddu, “il punto più alto di riflessione sui riti del lutto”. Una madre, tre figli, uno spazio chiuso, i legami esasperati, una veglia e una morte effettiva che viene respinta, definendo – in forma nuova e folle – il rifiuto pirandelliano di accettare la sparizione illudendosi che, la vita che ti diedi, continua.
Vita mia è un fatto, è un accadimento, non uno spettacolo” dice Emma Dante di questo testo ridottissimo, “giocato sulle proiezioni mentali di una madre” per cui in scena si vede ciò che lei vede, per cui in scena ancora vive ciò che per lei vive. Quale punto di contatto con Le sorelle Macaluso? Non le ragioni della genesi (allora drammatica, personale, sorellesca davvero); non le dinamiche relazionali che emergono tra i personaggi e nei confronti del pubblico; non la sostanza dell’atto attoriale (“gli attori non recitano Vita mia, sono veri!” dice la Dante mentre non potrebbe dire lo stesso de Le sorelle, con cui offre invece una recita voluta, cercata, realizzata e dichiarata). Piuttosto mi sembra che il dato in comune sia la possibilità di assistere a “un gioco sul tempo, capace di anticipare o posporre a piacimento un fatto eclatante come la morte”.
E Io, Nessuno e Polifemo? Alla base della riflessione (metateatrale) sull'episodio omerico c'è l'inesistenza di fonti certe e coincidenti per cui l'uno (Polifemo) non si riconosce nel racconto dell'altro (Omero) pur dipendendo, il primo, dalla narrazione del secondo. La storia diventa così un cumulo di omissioni, di mancanze, di dettagli sbagliati o volutamente travistati e per noi (lettori/spettatori dell'incontro) risulta impossibile la certificazione e la conoscenza dei fatti. Ebbene, tornando a Le sorelle Macaluso: trascorrere l’infanzia in un istituto, invece che in famiglia, è una fortuna o una disdetta? La madre è vittima o colpevole della morte di suo figlio? E di chi è la responsabilità se una sorella soffoca mentre sta giocando? “Che ne sai tu, Katia? Che ne sai della mia vita?”.
Già, che ne sappiamo di coloro che ci stanno accanto? E quali certezze abbiamo su come, i nostri comportamenti, vengono recepiti da chi ci osserva? Abbiamo torto o ragione? Siamo i martiri, i carnefici o siamo entrambi? Siamo sicuri di essere nel giusto, che la responsabilità dell’accaduto non sia nostra, che ciò che abbiamo fatto o che ci è stato fatto sia per gli altri ciò che è per noi? Le sorelle Macaluso ricordano perfettamente il rumore della porta di casa quando si apre, lo sguardo del padre, la corsa fatta in strada; ricordano la corriera per andare al mare, l’anguria lasciata sul marciapiede, il salvagente messo in vita; ricordano le frasi, la calura, la corsa per il tuffo; ricordano le canzoni che cantavano, l’attimo in cui sono state mano nella mano, il punteggio (“ottantuno!”) di chi ha resistito di più sotto l’acqua ma – quando si tratta davvero di comprendere quello che è successo – le versioni divergono, i punti di vista contrastano, le opinioni guerreggiano: “La colpa è di Katia”, “Tu eri la più grande, la responsabilità poteva essere anche la tua”, “Non fu colpa tua, Katia: la colpa fu mia”.
Questa privazione d’ogni certezza rende plurima anche la definizione dell’opera e così, dalle domande, vengono altre domande: è un accidente voluto dal destino o una recondita volontà personale ciò che accade? Siamo al cospetto di un caso fortuito o di un omicidio voluto? Le sorelle Macaluso è una tragedia del fato o un dramma parentale, in cui alcuni membri della stessa famiglia s’odiano fino a volersi eliminare reciprocamente, come può capitare tra chi si è amato di un amore disperato?


La famiglia. Torna in Emma Dante il microcosmo ad un tempo ricattatorio e affettuoso, fatto di vergogne e paure, di sincerità e rimozioni, fatto d’istinti da occultare, giornate da condividere, colpe da tacere. Ma si tratta qui di una famiglia femminilizzata, si tratta della rimanenza di ciò che la famiglia fu un tempo ed è questa rimanenza che provoca l’avanzata degli spettri, in attesa che − chi deve salutare − saluti davvero. Frutto della funzione chimerica del teatro, operano esse stesse come agenti chimerici permettendo al pubblico di vedere il padre, la madre, il nipote prima che padre, madre e nipote, siano raggiunti da un'altra tra loro. Ecco l’ulteriore bellezza di questo spettacolo, quindi, in cui vita e morte non sono soltanto la duplice fonte primaria dell’insieme ma agiscono di continuo nell’opera e quasi su ogni personaggio, rispetto ad ogni relazione, così testimoniando la loro coesistenza inevitabile: “Tutto” – leggo d'altronde dalle note di regia – “si ispira al racconto che mi fece un amico. Sua nonna, nel delirio della malattia, una notte, chiamò la figlia urlando. La figlia corse al suo letto e la madre le chiese: In definitiva io sugnu viva o morta? La figlia rispose: Viva, sei viva mamma! E la madre beffarda rispose: see viva! Avi ca sugnu morta e non mi dite niente p’un fàrimi spaventare”. Ci appartengono, insomma, vita e morte contemporaneamente tanto quanto noi – contemporaneamente – apparteniamo alla vita e alla morte.
Così – “in definitiva” – le sorelle possono giocare con chi è già mancata; possono assistere a quando i genitori, danzando, fanno l’amore; possono di nuovo preoccuparsi di quanto si affatichi il nipote ma possono anche cingere un corpo vero, un corpo le cui mani tremano, le cui vene del collo pulsano, le cui palpebre s’alzano e si abbassano, un corpo la cui fronte suda, la cui schiena si piega, i cui passi fanno rumore, il cui fiato è caldo, per annunciare a questo corpo che è giunta l’ora, che è il momento dell’addio, che ad attenderlo c’è l’oblio del retro del palco, della parete di fondo, dell’oltrequinta.


Termina, Le sorelle Macaluso, con la danza dell’abbandono. Termina facendo ascoltare nell’aria l’intenso fruscio di una coreografia in grado di rendere – con gli ultimi spasimi – un sogno irrealizzato. Termina consegnando progressivamente la carne nuda (com'è quando si nasce, com'è prima di vestirla per la tomba) alle braccia nere dell'ombra che questa carne la sfiora, la tocca, la cinge, la stringe, la possiede via via sempre di più poi l'agguanta e la risucchia, portandola altrove da dove è vissuta per un'ora.
Termina Le sorelle Macaluso riducendo le luci a una parvenza pulviscolare, a una patina percepibile appena, a un ultimo riflesso vedibile. Così torna il buio, quel buio da cui tutto comincia e in cui tutto finisce.
Perché è questo che accade in teatro, perché è così che inizia e termina ogni vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NB. La precendente recensione de Le sorelle Macaluso, scritta da Il Pickwick
La danza delle ombre, in bilico tra la vita e la morte (Michele Di Donato, 27/01/2014)

 

 

Le sorelle Macaluso
testo e regia Emma Dante
con Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonardo Saffi, Stephanie Taillandier
scene e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
armature Gaetano Lo Monaco Celano
assistente alla regia Daniela Gusmano
foto e grafica Carmine Maringola
produzione Teatro Stabile di Napoli, Théâtre National di Bruxelles, Festival d’Avignon, Folkteatern di Göteborg
in collaborazione con Atto Unico, Compagnia Sud Costa Occidentale
lingua italiano, dialetto palermitano, dialetto barese, dialetto napoletano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Mercadante, 5 maggio 2014
in scena dal 5 al 10 maggio 2015

Latest from Alessandro Toppi

Related items