“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 01 May 2015 00:00

Il maestro e Margherita

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Non ricordo bene se l’arredamento della casa di Michele Apicella in Io sono un autarchico sia lo stesso di quello usato come scenografia della casa di famiglia nell’ultima fatica di Moretti Mia madre (pare che l’appartamento non sia lo stesso, ma i libri, e forse anche alcuni arredi sì), ma allo spettatore più attento non sarà sfuggita la forte somiglianza tra questi ambienti ricostruiti per l’occasione e la casa del protagonista in Ecce bombo.

Lo studio dove sedeva il padre (Glauco Mauri) o la consolle con il telefono, il tavolino circolare, sembrano ancora lì, lasciati nell’appartamento da cui uscì un cinema giovane e leggero, un refolo di vento innovatore che però, alcune volte negli anni a venire, si sarebbe rintanato in quelle “due camere e cucina” di infausta memoria, felice formula critica per stigmatizzare la facile tendenza di certo cinema nazionale a guardarsi addosso e a scambiare pressapochismo per autorialità. Un innegabile effetto déjà vù che fa scattare la nostalgia per quel tempo in cui il secondo lungometraggio morettiano veniva girato, per ciò che ha rappresentato per il costume italiano, per quell’ansia di rinnovamento che doveva svecchiare i modi e i temi della rappresentazione al cinema della realtà italiana. Nostalgia anche per quel tempo in cui si è scoperto Moretti nei passaggi Rai dei film successivi (il mio primo Moretti in sala è quello di Palombella rossa), per la conquistata maturità di quello che allora era ancora (per quanti anni lo è stato?) il “giovane cinema italiano”. Ecco, è questo senso di familiarità con l’universo tematico e iconografico del regista che comporta, in chi scrive, quel moto di commozione altrimenti dato dall’evento luttuoso all’origine di questo nuovo capitolo della sua filmografia.
Certo la rappresentazione della morte di un genitore è un elemento che tocca gran parte del pubblico adulto, ma Moretti evita le trappole del sentimentalismo e imbastisce, insieme a Francesco Piccolo e a Valia Santella, una narrazione di un momento della sua vita che assume un portato universale e non soltanto personale. Nel caso di Mia madre il lutto (e la sua elaborazione) non rappresentano se non il pretesto per illustrare l’impasse lavorativa e personale di un regista, il suo vivere e superare una crisi che intreccia le dimensioni familiare, affettiva e lavorativa. E per evitare una pressoché facile e scontata identificazione tra sé e il protagonista – e immaginiamo anche per un giusto senso di pudore – Nanni si sdoppia e inventa un alter ego femminile, una sorella regista alle prese con la direzione di un film, mentre riserva per sé la parte defilata del personaggio secondario, quella di un uomo saggio che medita, stanco, di lasciare il lavoro di ingegnere presso una ditta, dopo essersi messo in aspettativa per accudire la madre. La sua è una presenza discreta ma costante, che rinuncia ai vezzi e agli isterismi consueti per meglio far risaltare il carattere della sorella Margherita: quanto lui è calmo, riflessivo (e anche disilluso) tanto lei è esagitata, alterabile (e volutamente illusa che l’impegno professionale allontani l’imminenza della morte).
Dicevamo che l’argomento del film è troppo personale per consentire a Moretti di non comparirvi, ma proprio per questo non ha scelto di stare al centro della scena. Margherita non è una semplice versione femminile di Nanni, ha una sua autonomia – per quanto in alcune situazioni sembri proprio fare il verso al Nostro – ed è un personaggio pensato, sì, per la Buy, ma che al contempo la emancipa dalle abituali sue insicurezze e le permette di ribadirne la piena maturità. I suoi punti fermi, i suoi pregiudizi, la sua caparbietà sono anche quelli di Moretti: la convinzione che gli attori non debbano mai immedesimarsi troppo nei personaggi (fino ad annullarsi) ma che debbano mantenere un leggero scarto dall’adesione totale è un leitmotiv di Moretti che Margherita ripete decisa agli attori perplessi. E proprio questo topos narrativo (e critico, al contempo) è inscenato quando Moretti affianca la Buy, nel ruolo del fratello maggiore: vediamo l’attore (Nanni) che non combacia con il personaggio (Margherita).
Neanche l’attore straniero chiamato ad interpretare un acquirente americano di una fabbrica in dismissione, nel film che Margherita sta girando – dal perentorio titolo di Noi siamo qui, quasi una dichiarazione d’intenti che sembra suggerire un’idea forte, ferma, una sicura presa di visione della situazione di sfruttamento dell’attuale precaria industria italiana, film cha ha però una lavorazione “travagliata” da inconvenienti che costituiscono il lato comico del film vero – non riesce a rendere credibilmente il personaggio assegnatogli: Turturro rende bene l’idea dell’attore americano desideroso di garantirsi l’autorialità girando in Italia (patria di Fellini e di attori come De Sica, Mastroianni, Peppino De Filippo, ricordato a ragione canticchiando la musichetta pubblicitaria che si sente ne Le tentazioni del dottor Antonio, episodio felliniano del collettivo Boccaccio 70), ma qualcosa in lui lo rende maldestro, contribuendo ad un comico effetto di ridimensionamento delle sue fanfaresche pretese.
La madre è una presenza discreta, relegata in ospedale a curarsi, quasi dimessa nella sua infermità, attenta a non condizionare troppo l’esistenza dei figli (interpretata con realistico piglio da Giulia Lazzarini). Non è una rappresentazione ricattatoria quella realizzata da Moretti: un’anziana signora, dal cuore compromesso, va incontro ad un inesorabile declino. Non è narrata la morte improvvisa di un figlio adolescente. Ciò che fa riflettere e che assume la valenza di un adagio sapienziale è confrontare il continuo sforzo con cui ognuno di noi conquista un ruolo nella vita, una posizione nella società, nel lavoro (con tutti i libri studiati, le lezioni impartite, le versioni corrette), e l’inevitabilità di un momento che tutto cancella. O forse, ché la memoria di chi resta, i ricordi degli ex allievi, vincono il nulla che segue alla morte con tutta la sua durezza, sul piano della coscienza. In quello dell’incoscienza, nel dominio dell’onirico, i sogni costruiscono set così reali da ingannarci sulla presenza/assenza dei nostri cari che non ci sono più. E i sogni aiutano Margherita a fare chiarezza, a dare sfogo a sentimenti di rabbia verso la madre che se ne va, verso il lavoro che non le da sicurezza, verso se stessa, incapace di accettare i suoi limiti e i suoi schemi.
Sogni – e realtà – commentati da musica di repertorio perfettamente in sintonia con le atmosfere e i ritmi della narrazione. Moretti sceglie tra i motivi più noti di Arvo Pärt, assecondandone la natura enigmatica e introspettiva, li accompagna a un quartetto d’archi di Philip Glass eseguito dal Kronos Quartet e alla musica sospesa del giovane Ólafur Arnalds. Non mancano melodie cantautorali, nello specifico un vecchio brano di Leonard Cohen ed una ballata orchestrale di Jarvis Cocker (dal suo primo disco solista di nove anni fa).
Come sempre il Nostro dirige la macchina da presa con movimenti dai raccordi fluidi ed eleganti, funzionali all’accumulo di situazioni che si alternano lungo i corridoi tematici che s’intersecano nei suoi film, voci soliste che dirige con acume e leggerezza, sguardi centipreti che trovano in lui stesso, da sempre, il fulcro dell’equilibrio e della coerenza.

 

 

 

 

Mia madre
regia Nanni Moretti
con Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro, Giulia Lazzarini, Beatrice Mancini, Enrico Ianniello, Stefano Abbati, Anna Bellato, Tony Laudadio, Renato Scarpa, Pietro Ragusa, Tatiana Lepore, Lorenzo Gioielli, Monica Samassa, Vanessa Scalera, Davide Iacopini, Rossana Mortara, Antonio Zavatteri, Camilla Semino, Domenico Diene
sceneggiatura Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
fotografia Arnaldo Catinari
musiche brani di Arvo Pärt, Philp Glass, Ólafur Arnalds, Leonard Cohen, Jarvis Cocker, Cinzia Donti, Isabella Colliva
montaggio Clelio Benevento
scenografia Paola Bizzarri
produzione Sacher Film, Fandango, Le Pacte, Rai Cinema
distribuzione 01 Distribution
paese Italia, Francia, Germania
lingua originale
italiano
colore a colori
anno 2015
durata 106 min.

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