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Tuesday, 28 April 2015 00:00

Ereditando il buio

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Il mondo buio di chi non ha occhi per vedere ha i contorni che il tatto gli insegna, possiede i colori che la fantasia gli consegna; il mondo al buio di chi è condannato alla cecità, talvolta, può essere oggetto di uno sguardo più veridico rispetto a quello di chi su quel mondo punta occhi che vedono; lo sguardo senza luce del ‘Figlio’ protagonista di Patres illumina con disarmante candore una vicenda tragica ed è uno sguardo poetico, è lo sguardo a cui s’affida un afflato civile, senza che per questo la forma teatro si prostri al comizio da assito; perché manifesta, Patres, come si possa esemplare teatro d’impegno civile senza rinunziare – ma anzi praticandola eccellentemente – ad una forma espressiva che sia capace di rendere lo spettacolo teatrale prima di tutto arte di scena. Ed è una drammaturgia, quella di Patres, che originale pur nella sua semplicità strutturale, possiede una freschezza poetica che ne consegna la visione all’applauso prima e alla memoria poi.

Saverio Tavano firma un’opera asciutta, che su scena vive e ruota intorno ad una figura filiale (Gianluca Vetromilo e la sua splendida interpretazione tutta ad occhi chiusi) ed alle assenze che la circondano; il ricordo di una tragedia lontana ma non troppo, di un fatto di cronaca reale – l’affondamento della Jolly Rosso, una “nave dei veleni” fatta inabissare a largo delle coste calabre – è la scaturigine primigenia delle multiple tragedie indotte, delle morti inoculate dall’ecomafia; di più – e più ad ampio raggio – è sintomo e simbolo di un lascito esecrabile, di un’eredità irresponsabile che una generazione di padri trasmette ad una generazione di figli, rendendoli orfani di valori da rispettare, prim’ancora che di genitori da amare.
Così, la cecità (metaforica) di una generazione produce la cecità (effettiva) della generazione successiva.
Nel suo incanto poetico, il figlio protagonista di Patres possiede una sorta di sommerso disincanto, che è quello che gli fa vedere, con gli occhi candidi di una coscienza monda, le storture del mondo circostante; ha interiorizzato gli insegnamenti di chi ha poi razzolato male, a partire dalla consapevolezza che il mare vada rispettato, perché altrimenti diventa traditore; perché il mare rende sempre ciò che gli dai, se gli dai veleno ti restituisce veleno, se lo tratti male diventa “fitusu” e se il mare è “fitusu” il pesce che ne cavi è “mbalusu”.
Il mare, compagno di un’attesa, abita l’orizzonte buio di questo figlio, il cui spazio vitale è delimitato su scena da una corda che gli si annoda alla caviglia ed i cui affetti sono una madre che non c’è più, un padre atteso che lo abbandonerà, un cane che non c’è mai stato, partorito dalla sua fantasia e significativamente battezzato Argo, come il cane di Ulisse, da questo Telemaco che attende che il proprio padre torni a colmare il vuoto di un’assenza.
Arriverà il padre (Dario Natale), comparirà in scena e sarà oggetto delle domande ficcanti del figlio, poste col candore disarmante di un cuore pulito, poste “pi sapiri”, evase con omertoso imbarazzo da un padre incapace di spiegare il mondo al proprio figlio, trincerato dietro ad un generico “è successo quello che è successo”, ricusando le rimostranze filiali, disattendendone le istanze; significativo che, quando il figlio gli chiede dell’amore, quegli tenti di “spiegarglielo” gonfiando una bambola di plastica, incontrando il disappunto del figlio (“A mia stu ciunnu ‘on mi piaci”).
Arriverà il padre, per poi ripartire, avendo sul groppone una colpa non detta, la cui nemesi è già consumata in una moglie morta di cancro, in un figlio nato cieco; arriverà il padre, “picchi gira e rigira sempri cca si ritorna”; si ritorna in uno spazio che per il figlio è sempre il medesimo, mai abbandonato, se non con gli occhi della fantasia, con la tattile vista delle sue mani poggiate su un mappamondo, su cui ha conosciuto la Spagna e l’America, la Cina e l’Albania, facendo sempre ritorno al luogo da cui mai ebbe a partire. Mettere le mani avanti per vedere è il suo modo di percepire il reale, le palme delle sue mani ne surrogano il buio delle pupille.
È un padre quello sulla scena che tenta di provvedere ai bisogni primari del proprio figlio – lo lava, gli dà del cibo – ma è incapace di soddisfare il bisogno dell’immateriale, che è la più autentica e profonda istanza di un figlio che non si capacita, che vorrebbe sentirsi confessare ciò che in fondo già sa, che domanda storie e barzellette ad un padre cui si chiede di farsi maestro, guida e compagno e che invece è in fuga dalle responsabilità e da se stesso; un rombo d’aereo ne preannunzia il ritorno all’inizio, un rombo d’aereo ne accompagnerà la nuova fuga alla fine, quando ormai un rettangolo di luce ne ha inghiottito la partenza verso un’isola lontana, un eldorado che non c’è e che nasconde l’illusione di poter scappare davvero; illusione, “picchi gira e rigira sempri cca si ritorna”.
Resta un figlio, coi suoi occhi che non vedono, con la mente lucida che sa, col poetico disincanto che si fa largo nella sua testa, con una fantasia che resiste, avendo per compagni il rumore del mare ed un cane immaginario.
Resta un figlio cui le assenze concrete tolgono riferimenti, ma che sembrerà capace di camminare da solo; tirata via la carta gommata che il padre gli aveva appiccicato sulle palpebre, la metafora della barca che “’on si guida cu l’uocchi. Si guida cu l’aricchi” sembra preannunciare una capacità diversa di stare al mondo e di continuare a guardarlo con occhi senza luce, ma con uno sguardo senza mende e di affrontarlo tenendo saldo il timone della propria vita nelle proprie mani.
Resta infine la poeticità rarefatta di una metafora da assito, di una storia eccellentemente inscenata, in cui nulla appare superfluo e ogni gesto, ogni rumore, ogni cambio di luce possiede la sua precisa funzione, come precisa è la funzione assolta dal dialetto non tanto nel connotare localmente i parlanti, quanto piuttosto nell’identificare una lingua “paterna”, nel suo senso endemico di trasmissione generazionale, che nella fattispecie rappresenta legame in linea retta tra due generazioni per altri versi fratte e contrapposte.
Una rassicurante carezza ad un cane che non c’è, il rumore del mare ad accompagnarne la quiete, il riposo invocato per l’animale immaginario è il medesimo ricetto in cui s’acquieta un figlio che metabolizza le proprie assenze, che acquisisce consapevolezza del proprio affrancamento da una condizione di dipendenza, l’abbandono come prodromo di nuova vita.
Mentre il rumore del mare si confonde col fragore dell’applauso.

 

 

 


NB.
A corredo le precedenti recensioni di Patres
Guardare, guardarsi (Alessandro Toppi, Soverato, 10/09/2014)
In acque profonde (Grazia Laderchi, Napoli, 03/12/2014)

 

 

GEOgrafie – Teatri della contemporaneità, atto I/La Calabria
Patres
scritto e diretto da
Saverio Tavano
con Dario Natale, Gianluca Vetromilo
disegno luci Saverio Tavano
tecnica Pasquale Truzzolillo
produzione Residenza Teatrale Ligeia, Compagnia Scenari Visibili
lingua dialetto lametino
durata 55’
Salerno, Piccolo Teatro del Giullare, 24 aprile 2015
in scena 24 aprile 2015 (data unica)

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