“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 26 April 2015 00:00

Siamo quello che lavoriamo

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C’è un gran movimento sul palco del Théâtre de Poche. È un movimento di corpi, che sono quattro ma che nello spazio ristretto della scena creano scompiglio. È movimento di pensieri vorticosi che si accavallano e ognuno toglie spazio all’altro. Tanto che il palcoscenico sembra un cervello. È tutto molto raccolto, chiuso accogliente, come si potrebbe immaginare lo spazio in cui i pensieri si muovono nella scatola cranica.

Ho pensato a mio padre, quando travolto dagli impegni del lavoro, del sindacato, dalle scadenze delle bollette da pagare, dalle richieste di noi figlie e di mia madre che gli chiedeva con quali soldi andare a fare la spesa, ad un certo punto gridava “m’aggirn 'e cerevelle!”. Perché il cervello effettivamente gira. Come quello di Fage, protagonista del testo di Michel Vinaver, La domanda di impiego, portato in scena da Bruno Tramice in versione 2.0. L’hashtag nel titolo, #lavorover40, per sottolineare un parallelismo tra ieri e oggi. Cambia il sistema aziendale, i contratti, la moneta e il suo valore, cambia la velocità della comunicazione ma non cambia l’animo umano e il suo rapportarsi con la società e quello che pretende da ogni singolo individuo. Bisogna rispondere a certe richieste e avere determinate caratteristiche. Occorre essere in un determinato modo per entrare in un giro che non è più quello del cervello ma è quello del lavoro, della produzione, del sistema economico. È l’unico modo per “guadagnarsi la vita”, come se altrimenti non fosse meritata. Diventiamo quello che lavoriamo altrimenti non siamo.
Fage è un ex dirigente aziendale trovatosi improvvisamente senza lavoro a quarantatré anni, con una moglie e una figlia adolescente da mantenere nella Francia degli anni ’70. Fage è un uomo. Si credeva forte, creativo, intraprendente e si scopre invece debole, troppo arrendevole. In un mondo di venditori, lui che si è sempre occupato di marketing, non sa vendere se stesso. La sua vita si è trasformata in un tempo molto breve. Le sue giornate le trascorre inviando domande di impiego, aspettando le risposte lente delle aziende, incolpando la posta per i ritardi, partecipando a colloqui e interviste. Intanto i risparmi finiscono. La moglie lo incoraggia a non darsi per vinto e, in situazione di crisi, si emancipa e smette di fare solo la moglie che smacchia gli impermeabili per essere donna che lavora. La figlia che non ha alcun interesse per il denaro, comunica ai genitori di essere rimasta incinta e di voler tenere il bambino per un paio d’anni prima di regalarlo a qualche coppia che lo desidera. Fage non ha il controllo sulle cose. Non vorrebbe che la moglie lavorasse, vorrebbe che la figlia abortisse, vorrebbe, forse più di ogni altra cosa, superare il colloquio di lavoro. Ma niente di tutto questo può dipendere da lui, non è più il capo, non è più Fage.
Nella messinscena le preoccupazioni dell’animo di Fage si accavallano. Si veste e intanto risponde alle interviste del selezionatore del personale, parla con la moglie e intanto prova a convincere la bambina ad andare in ospedale mentre nello stesso momento risponde ad un’altra intervista dello stesso selezionatore. I luoghi e il tempo fanno continuamente avanti e indietro e la compagnia utilizza lo spazio disponibile, come quello del foyer che diventa Londra e poi la Svizzera, per creare distanze fisiche ma non mentali per un Fage che resta sempre col pensiero di fronte al selezionatore.
Hashtag a parte, le atmosfere anni ’70 sono ben ricreate nei costumi, nelle acconciature delle donne, nei baffi degli uomini. La scelta delle luci ricorda le vecchie polaroid color seppia. Steven Tyler che canta “bisogna perdere per imparare a vincere, continua a sognare” è la colonna sonora ideale per una storia come questa e si può perdonare agli Aerosmith di averla pubblicata tre anni dopo il 1970, anno in cui Fage ha effettivamente quarantatré anni, essendo nato nel 1927. Il lavoro corale degli attori è preciso e attento, sono loro che rendono la messinscena accogliente, che inglobano lo spettatore nel vortice delle loro parole e dei movimenti. Non siamo mai fuori finché tutto non cessa. E la fine del movimento è quella imposta da Fage, che ritrova il controllo delle cose decidendo di non essere più. Un colpo sparato dietro le quinte, i coriandoli d’argento come per una festa. Che sia ieri o che sia oggi, c’è chi sceglie come Fage di non essersi guadagnato la vita e le loro storie lontane dalle assi dei teatri colorano di rosso le città d’argento e riempiono la bocca dei venditori della tv.

 

 

 

#lavorover40
liberamente tratto da La domanda d’impiego
di Michel Vinaver
regia Bruno Tramice
con Bruno Tramice, Ettore Nigro, Lorena Leone, Clara Bocchino
costumi Alessandra Gaudioso
scene Concetta Caruso Cervera, Francesca Mercurio
disegno luci Ettore Nigro
movimenti coreografici Lorena Leone
regista assistente Rosario D’Angelo
sartoria Il Cascione
produzione Le Pecore Nere Srl
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Théâtre de Poche, 19 aprile 2015
in scena dal 9 al 12 e dal 16 al 19 aprile 2015

 

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