“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 23 April 2015 00:00

Neapel, Naples, Napoli

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Nel caso di Napoli, come in quello di Palermo,
viene prima la città e poi i suoi abitanti. Prima
lei, poi noi.
            
(da un colloquio avuto con Emma Dante)

 
Voi napoletani dite sempre “Napoli, Napoli, Napoli”.
              
(da un colloquio avuto con Pippo Delbono)

 


Occorrerebbero occhi stranieri per comprendere Il velo di Davide Iodice, per capire fino in fondo questo workshop diventato visione e apparso sul palco del Teatro San Ferdinando. Occorrerebbero occhi stranieri ed occorrerebbe non conoscere così bene – come invece conosco – gli odori che abitano le strade di Napoli, occorrerebbe non essere già abituati al sottofondo sonoro che mi accompagna a ogni passo: rumorosità mediterranea che rende le voci dei versi e che fa, dei versi, una continua cantilena sussultante. Occorrerebbe non essere abituato agli occhi degli altri, così prossimi e insistenti da accentuare la mia solitudine; occorrerebbe non essere abituato alla ruggine dei cancelli delle chiese, ai colori sciatti delle mura, alle vecchie finestre di legno scrostato da cui pendono lenzuola o panari e da cui vengono altre voci ancora, nuovi versi in aggiunta.

Occorrerebbe non sapere già quanto luce e ombra convivano a Napoli, quanto si dividano il territorio generando distese di bianco e stretti cunicoli neri, bui, d’umida oscurità. Occorrerebbe non essere nati a Napoli, non aver mai visto Napoli prima ed occorrerebbe non aver letto e riletto le parole che da Napoli, per Napoli, su Napoli, a Napoli, in riferimento a Napoli, pro e contro Napoli sono state già scritte. Occorrerebbe avere pupille innocenti e mente sgombra, mani libere, la possibilità primigenia di sorprendersi: per uno spavento, una stramberia, qualcosa di mai visto e che ora ti appartiene.
Occorrerebbe essere stranieri alla città per capire cosa – a questi stranieri (svedesi) che fanno gli attori – la città ha detto, suggerito, è sembrata. Ma i miei occhi sono napoletani, napoletana è ogni mia abitudine, napoletano è il modo di vivere e di muovermi e cercare posto ogni giorno qui a Napoli anche se, nel momento in cui scrivo, sento che non so definire il senso e il valore di questo aggettivo – “napoletano” – così restrittivo, opprimente e riduttivo ma anche così pieno di respiro, di forza intestina. E allora guardo questi interpreti e vorrei possedere il loro nulla in premessa, nel prendere contatto con Napoli; invidio la loro non appartenenza al luogo di cui stanno facendo messinscena, intima e pubblica assieme; desidero una lontananza che non mi riguarda, una differenza che non mi appartiene, una diversità che non ho. Mi è impossibile, come fa Kristin, pensare “Vorrei avere capelli più scuri / Mi distinguo / Voglio mescolarmi”; mi è impossibile sorprendermi per il fatto che le donne si affaccino “alla finestra della cucina” – metà del corpo verso l’esterno, metà in casa: divise, come sirene, da un davanzale – poiché la mia compagna, mia sorella, mia madre e mia nonna sono o sono state queste donne; mi è impossibile essere contagiato dal ritmo della tammurriata, incontrata a Spaccanapoli tante di quelle volte da non distinguerla più, da non prestarle più ascolto. Per questo, rispetto a Il velo, mi sento come in difetto pensando (a torto o a ragione) che – più che spettatore – sono indiretto argomento dello spettacolo.

Iodice genera una serie di quadri costruendo un montaggio d’esperienze individuali, di frammenti singolari, di monologhi detti (almeno inizialmente) in solitudine. Nella forma che assume Il velo il modo d’intendere e di realizzare la sua ricerca teatrale: la scelta non della composizione di compagnia ma della relazione costruttiva di soggettività, poste nella condizione di esprimere il proprio sguardo, i propri contenuti, le proprie competenze perché – sguardo, contenuti e competenze – diventino poi materia coordinata, messa in comune, funzione collettiva. Iodice, sempre più abituato a portare in scena il fuori-scena o a fare del fuori-scena una scena – rendendo più lievi i confini che separano il palco dal resto urbano del mondo, il teatro dall’extra-teatro – induce all’erranza i suoi interpreti, li spinge a vagare, prendere contatto, osservare, sfiorare, appuntare, rubare in un tour antropo-culturale in città; dissemina quindi donne e uomini in maniera tentacolare (i vasci, Margellina, vico Rotto al Mercato e Montesanto, Piazza Garibaldi, Cappella Sansevero, Scampia) per poi richiamare, riprendere e riportare in assito: luogo dei luoghi, punto di partenza che si fa zona d’approdo, meta, spazio di raccolta dopo la semina. Viene poi la lavorazione, tra formalizzazione estetica e realizzazione di una trama apparentemente labile, che diventa sottotraccia unitaria e capace di tenere assieme le pulsanti schegge personali derivate dai viaggi dei performer. Sono d’accordo con Iodice, pertanto, quando nelle note di regia scrive che Napoli è “una città indicibile perché troppo detta, impossibile da mettere in scena perché infinito teatro di se stessa” se queste parole significano rinunciare ad ogni pretesa d’assolutismo o di completezza mentre sono con lui in disaccordo nel caso significhino che non c’è, comunque, il racconto di una sua Napoli ne Il velo: c’è invece e c’è non soltanto nelle percezioni emotive, sensoriali e materiali degli artisti ma nella drammaturgia che lui stesso compone, facendo un proprio discorso nel porre assieme i discorsi degli altri. Noto questa sua Napoli nella circolarità della trama, nei ritorni delle figure, nella citazione replicata di suggestioni, argomenti ed immagini, nella ripresentazione di certi oggetti (un cranio, un uovo, un’arancia), nell’incontro/incastro tra le vicende e i portatori di queste stesse vicende.
Il velo comincia con il Cristo della Cappella di Sansevero ma questo Cristo è donna, gonfia il ventre e sgrava. Chi sgrava? Una figura scura (ecco la nota cromaticamente simbolica del lavoro di Iodice: il contrasto tra bianco e nero, rimando alla relazione e alla lotta tra gli opposti che determinano le contraddizioni di Partenope); questa figura ha il casco in testa e una pistola nella mano destra. Cosa vuol dire Iodice? Forse che a Napoli la bellezza convive col marcio; forse che la Grande Madre e i suoi figli si appartengono anche se non si corrispondono né si assomigliano; forse che sono due cose diverse e al tempo stesso interdipendenti, in relazione di viscere, cosicché la città mette al mondo chi la deturpa, l’affatica, la sfregia fino a sfiancarla e a farla morire. Termina infatti – Il velo – con questa donna/Cristo in ribalta, in preda agli ultimi spasimi mentre il figlio-bastardo le punta la canna sul volto. Defunta sembra sul punto di risorgere, questa donna/Cristo che è Napoli, però non risorge: destinata, come pare da tempo, a non risorgere mai, a non risorgere più.
C’è dunque nell’apertura/chiusura de Il velo la realizzazione degli argini all’interno dei quali si muove il fiume dei contributi individuali, ma c’è anche un’idea che appartiene a Iodice e che – evidentemente – fa riferimento all’ambivalenza di un luogo in cui carne e sangue sono al tempo stesso vita e morte, nascita e fine, passione e violenza. Dunque c’è la Napoli di Iodice ed è una Napoli genitrice del suo carnefice: chiara, diafana, distesa Lei; scuro, nerboruto e impettito Lui. Nel free style rappato da Robert trovo una conferma di questo mortale e vitale dualismo: “Questa è la terra del bipolarismo / Sono freddo e caldo / Violento e calmo / Con un coltello nel palmo / Sto scrivendo il mio salmo”.

Tre pannelli (due di lato, uno sul fondo) fanno da schermi per microproiezioni documentaristiche (i vicoli, un quartiere periferico, un campetto di cemento, la statua di Padre Pio, un mercatino rionale, i cumuli di immondizia) o per colorazioni d’ambiente (il turchese, il celeste, l’azzurro ed il rosso, il giallo, il bianco su cui far apparire l’ombra nera); l’assito è vuoto – se si escludono gli strumenti con cui Harriet Ohlsson fa musica dal vivo – e sul pavimento di questo palco s’impongono, di volta in volta, segmenti di luci in verticale o in orizzontale, che si fanno direttrici determinando il moto del singolo interprete, la direzione di una scena. Geometrismo dell’illuminotecnica a cui corrisponde il geometrismo della presenza attoriale (la sirena che, seduta, si trascina sul fondo; lo scippatore che, in piedi, avanza a mezzo palco; il Pulcinella che tira un filo in ribalta), ideale rimando alla topografia di una città che vive d’assi squadrati, di strade parallele, di vie che spaccano l’Urbe con la precisione dell'accetta; da questo geometrismo di base – iconica e segmentata cartina che appare e scompare – sorge la complessità abitativa che ne è derivata, l’accumulo cioè verticistico delle palazzine che si affiancano confusamente (gli squassi di danza, i volteggi, le corse in tondo): Napoli è dunque nei corpi dei performer che, attraverso il moto, riescono a definirne la composizione cementale, compartecipe d’ordine e disordine, di precisione ed eccesso.
Napoli è poi nei racconti che si susseguono e che hanno una natura doppiamente straniante: sono poesie piuttosto che prosa e, quindi, ostentano la loro fattura metricamente artistica; sono in lingua inglese ovvero emettono il suono della differenza, della dislocazione.
“Non c'è distanza / Sono carne e sangue che camminano per strada / Carne e sangue che incontrano la tua carne e il tuo sangue / Nessuna illusione, nessuna maschera, nessuna educazione svedese / Tutto è crudo ed esplicito” dice Kristin, rendendo il corpo che incontra altri corpi venendo toccato, invischiato e acquisito dalla folla; “Dove correrai? / Dove te ne andrai?” si chiede Robert tramutando lo scippo in un vortice nel quale, chi insegue, finisce inseguito; “Questo in Svezia è solo un oggetto clinico per studi anatomici” afferma Peter, per poi aggiungere “Ma qui la morte è viva, niente è scontato e tutto sembra accadere per la prima volta in un continuo presente” e lo dice (sul volto la maschera di Pulcinella ispirata da Bruno Leone) mentre trascina una capa 'e morte che richiama il culto eterno degli assenti, la cura delle anime pezzentelle, la profana religiosità della questua fatta ai teschi ma anche il disinteresse (“Aiuto / Biscotti / Un pezzo di pane”) che i vivi hanno per i vivi: almeno finché rimangono vivi.
Ancora.
“Questa è la terra delle sirene / Venite sorelle, ritorniamo in mare” sono le parole di Caroline che, immersa in un blu da fondale, invita le donne, addomesticate tra le pareti di casa, a prendere il largo varcando una soglia ambientale, comportamentale e morale, mentre Gemma – “Da quando sono arrivata qui c’è un fantasma nella mia stanza / Non qui, non lì / Ogni sera gli porto un’arancia offerta alla sua inquietudine / O forse alla mia” – insegue, manca, sfiora, tocca, afferra una sedia che s’alza volando fino a che non la trascina giù e vi si siede, trovando così la propria pace (e la scena rimanda a ‘o munaciello: alla sua bonaria apparenza fantasmatica, al suo credo popolare e feticistico, alla sua intima insistenza illusoria).
C’è la disgrazia dell’immigrata ucraina di Piazza Garibaldi o della prostituta di Corso Umberto nella solitudine di Kristin; c’è la pluridevozionalità dei santi maschili, a cui si contrappone la monodevozionalità della Vergine, nella Cenerentola derubata della scarpa messa in scena da Caroline; c’è la Filumena Marturano (“La più cara delle mie creature” per Eduardo) nelle citazioni che se ne fanno e che la rendono metafora verbale di una Napoli-donna “rabbiosa, di corsa, strisciante”, che perde speranza mentre gioca alla tombola; ci sono le ostentazioni gestuali della mimica partenopea (che si fanno coreografia collettiva), i vestiti a fiori e le ciabatte delle casalinghe dei vicoli, l’andamento cadenzato dei madonnari in processione, la voce salmodiante dell’ecclesia popolare; ci sono insomma le Napoli che Gemma Carbone, Kristin Falksten, Peter Jägbring, Caroline Sehm, Robert Södeberg e Linda Wardal hanno intravisto, di sbieco e parzialmente; sono le Napoli in alcuni casi consuete, già dette o già viste, fin troppo note e quindi per nulla sorprendenti per chi di Napoli è figlio natio e cittadino quotidiano, ma a cui occorre prestare attenzione perché si tratta di scorci resi da chi è invece a Napoli per un momento, qualche giorno o soltanto di passaggio: in preda all'estasi o nell'attesa di fuggirne.
Il tutto appartiene a una composizione d’assemblaggio, in cui approcci, narrazioni e figure diverse determinano una pittura unitaria. Non c’è la linearità classica della trama ne Il velo ma la continuità della sequenza percettiva mentre aggiungono specificità i campionamenti musicali, l’entra-ed-esci laterale delle figure, la funzione di servo di scena assunto dagli interpreti (penso al momento della sedia che vola) e i fari accesi sulla platea, in un finale compartecipato – prima ancora che sul piano emotivo – in termini specificatamente fisico-teatrali: una trentina di allievi di Iodice, seduti tra gli spettatori, lasciano la poltrona e salgono sul palco, così rispondendo a un appello alla compattezza civile, morale e sociale ("Aiuto") che fa da speranza, da ultima immagine, prima che la penombra diventi buio assoluto.

Ho iniziato l’articolo pensando a un bisogno impossibile: avere altri occhi, non appartenere a Napoli né sentire che Napoli mi appartiene, non subire (stasera, al San Ferdinando) questa coincidenza parziale con la città da cui derivo: possedere cioè una distanza che mi avrebbe permesso di apprezzare maggiormente lo scarto, la frattura e l'innocenza rispetto a Napoli; scarto, frattura e innocenza che mi sembrano gli elementi costitutivi de Il velo, spettacolo in cui è significativo ciò che si dice (una città) ma ancora di più chi lo dice (i performer svedesi).
Paradossalmente potrei aggiungere che Il velo ovunque può e deve andare in scena tranne che a Napoli; tranne che al cospetto di uomini e donne assuefatti al racconto di sé e di quest'altro sé primigenio da cui dipendono e che è la città di cui sono parte (una città − tra l'altro − che ha culturalmente il vizio dell'autoreferenzialità, del parlarsi addosso, del ripetere ossessivamente il proprio nome). Il velo è insomma destinato a coloro per i quali "Napoli" è un suono, una vaga indicazione geografica, un indirizzo verso Sud, una curiosità da colmare, uno spavento preventivo, un pregiudizio, un'idea non ancora ideata del tutto.
Quanto a me.
In un colloquio risalente a un paio di mesi fa Emma Dante mi disse che Napoli – come Palermo – è città/femmina ed è città/madre e che è generatrice dei suoi figli: che i figli lo vogliano o meno. “Viene prima Palermo, poi vengo io” aggiunse, con sguardo sereno e deciso assieme. “Questo non vale per Bergamo o Brescia” affermò sorridendo, intendendo dire che non vale per quei luoghi che non partoriscono coloro che li abitano ma che, coloro che li abitano, li ospitano soltanto. E allora, al cospetto de Il velo, mi sento come chi ha sentito descrivere sua madre: una descrizione anche visivamente poetica, fatta d'istantanee e ricordi, talora facili e immediati, talaltra ombratili, in parte rimossi. Ma una madre non si descrive, né forse si riesce serenamente ad accettare che te la descrivano gli altri; una madre si è costretti solo a viverla: lo sa Iodice, che di questa madre ha deciso di non fare un ritratto illusivo; lo so io ora, prendendo coscienza di quel che ho veduto nel momento stesso in cui smetto di scrivere.

 

 

 

 

 

 

Il velo/The Veil
workshop diretto da Davide Iodice
con Gemma Carbone, Kristin Falksten, Peter Jägbring, Caroline Sehm, Robert Södeberg e Linda Wardal
e con gli Attori e allievi attori della Scuola Elementare di Teatro dell'Ex-Asilo Filangieri
e con i Tirocinanti del Corso di Lingua Svedese dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"
musiche originali Harriet Ohlsson
assistenza e training Alessandra Fabbri
collaborazione al progetto Michele Vitolini
disegno luci Angelo Grieco
foto Alessandra Fabbri, Luigi Maffettone, Mara Merullo, Michele Vitolini
in collaborazione con il Corso di Lingua Svedese dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"
e con la Scuola Elementare di Teatro dell'Ex-Asilo Filangieri
produzione Teatro Stabile di Napoli
in collaborazione con Folkteatern Göteborg
nell'ambito del progetto Città in scena/City on Stage
lingua italiano, inglese, dialetto napoletano
durata 1h 30'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 19 aprile 2015
in scena 19 aprile 2015 (data unica)

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