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Monday, 13 April 2015 19:56

Appunti su La Ballata dei Lenna

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De La Ballata dei Lenna e del loro Cantare all’amore mi colpì – un anno fa – la caratterizzazione morale, figurale e gestuale dei personaggi, capaci d'essere emblemi e metafore, caricature e figure tuttavia veritiere; mi colpì l’uso dei fari e dei neon, impiegati come strumento di proiezione, sottolineatura visiva del dettato verbale o come mezzo per scavare il volto o parte del volto, realizzando così una continua mascherata carnale; mi colpì la natura ambivalente della trama, intenta ad accentuare il contrasto tra sorella e sorella e, contemporaneamente, a definire una delicatissima storia di attenzione e di affetti. Quella favola, dolce e cattiva ad un tempo, aveva anche limiti di scrittura, certi momenti di composizione che mi parvero troppo facili per ideazione, qualche superficialità momentanea nel fare scena coi luoghi comuni: mancanze riscattate dalla capacità di stare in palco per più di un’ora realizzando un’attenda gestione dello spazio (tra movimenti in sincrono, scene in ribalta e controscene sul fondo, partiture a due con il terzo attore/la terza attrice a fare da spettatore interno). Interessante mi sembrò anche la definizione dell’ambiente di recita: un perimetro rettangolare con delle scalette che servivano a dare la dimensione dell’anfratto interrato, della tana più che di una casa vera e propria.

Comincio da quello spettacolo perché il tentativo, trovatomi adesso al cospetto di REALITalY, è quello non di scrivere una recensione meramente valutativa di uno solo spettacolo ma di ragionare, piuttosto, su questa giovanissima compagnia che – allora – mi diede la sensazione d’avere qualità evidenti (per quanto ancora acerbe) e che adesso queste qualità le conferma, anche se siamo ancora lontani – com’è normale che sia – da una prova perfetta.
Osservare REALITalY e scriverne diventa così un tentativo per cercare di capire quale poetica La Ballata dei Lenna stia cercando di realizzare, sviluppando il proprio percorso di crescita.


REALITalY mi conferma innanzitutto la capacità de La Ballata dei Lenna nel lavorare con le luci. I tre neon posti in ribalta e che, a un certo punto, delimitano la soglia d’ingresso della casa (l’architettura d’alluminio di una struttura da giardino o campeggio); l’uso della lampada da pavimento posta nell’angolo anteriore destro e che definisce il luogo della confessione; il ritmico accendere-spegnere-accendere due fari per accompagnare l’andamento accelerato del dialogo; il tubo di cartone che serve a ridurre l’ampiezza del fascio di luce sul volto di un’attrice; l’uso del piccolo lampadario all’interno della casa; l’alone violaceo ottenuto con l’utilizzo in controluce di una borsa di tela e finanche l’illuminazione della platea, a spettacolo quasi finito, mi dicono quale e quanto lavoro la compagnia svolga per caratterizzare la visività della rappresentazione, provando a fare dell’offerta di parti corporee (riplasmate dall’illuminotecnica) un proprio codice peculiare. Insomma, le luci sono per La Ballata dei Lenna uno specifico linguistico, uno strumento di discorso, un mezzo di comunicazione: non servono solo come accompagnamento dell’azione ma concorrono in maniera decisiva a definirne la configurazione sia sul piano scenico che drammatico, diventando – di fatto – componente essenziale della scrittura e della recitazione.
Non sfugga, tuttavia, un altro aspetto: utilizzando i mezzi di scena in maniera così plateale, facendo dunque entrare nella drammaturgia fisica dello spettacolo i movimenti che servono ad azionare un faro, ad accedere un puntatore o spostare un neon, La Ballata dei Lenna annulla ogni verosimiglianza illusiva dell’immagine, ostenta l’atto teatrale nel suo divenire tecnico, espone agli spettatori una verità artigianale mettendosi così in rapporto diretto con gli spettatori medesimi: si tratta di un primo modo per confermare – ammesso che ve ne fosse bisogno – che l’idea, sempre di più, è di non usare alcuna quarta parete, nessuna fittizia chiusura anteriore.
Se in Cantare all’amore l’apertura del palco alla platea veniva suggerita più che offerta, in REALITalY invece diventa fatto determinante, ragione primaria: non siamo più allo spazio visto ma allo spazio vissuto, senza alcuna demarcazione limitante: è per questo che Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno possono salire e scendere le scale del Teatro Area Nord in piena messinscena; possono assentarsi, far finta di raggiungere il bar e tornarne o possono ripetutamente rivolgersi agli spettatori, in maniera indiretta (“Ci sono loro”) o diretta (“Siete una quarantina di persone”). Lo sfruttamento dell’edificio teatrale – scelta di per sé non innovativa (basti pensare alle avanguardie di primo Novecento) – rappresenta comunque una conquista per la compagnia, che prova ad  intensificare la relazione tra chi osserva e chi viene osservato: “Che cosa vi interessa?”; “Hanno visto tutti: adesso devono sapere”; “Bisognerebbe trovare qualcuno che ci dia una mano” (detta la battuta lo sguardo dei tre viene rivolto al pubblico).


REALITalY si presenta come un “docuteatro” ovvero una sorta di reality da palcoscenico messo su per “mostrare la verità”: condizioni abitative, scelte formative, rapporti e stati d’animo. Non siamo – sia chiaro – alla teatralizzazione del modello televisivo ma all’uso ulteriormente paradossale del rapporto vero/falso su cui si basa il teatro: dichiaro la verità e, dichiarandola, mento e tuttavia, esponendo la menzogna, in qualche modo faccio operazione di verità (anche se solo teatrale): “No, perché a qualcuno potrebbe venire in mente che non stiamo vivendo in nessun sottoscala…”. Anche in ciò  va visto un tentativo di crescita, poiché La Ballata dei Lenna passa dalla trama strutturalmente chiusa di Cantare all’amore alla trama apparentemente aperta di REALITalY.
“Signori, noi tre così stiamo messi” è la petizione di principio iniziale: la frase serve ad evidenziare che ciò che è coincide con ciò che si vede. Per questo in assito vengono ricostruite (in maniera volutamente approssimativa) “le condizioni dove viviamo” (un interno da sottoscala, con un secchio al posto del water ed in cui “non ci sono mobili, non ci sono armadi, non ci sono stanze”); vengono confessate le maniere nelle quali ci si arrangia (“Quello che per alcuni è un rifiuto per me è cibo”); vengono recitate le dinamiche relazionali e sentimentali del gruppo (un rapporto d’amore terminato, la scarsa fiducia reciproca, i dubbi di due nei confronti della terza e il disprezzo, l’avvicinamento e la repulsione, il desiderio e la negazione del desiderio, il senso di fastidio, l’odio e il rancore). Questo tentativo di “mostrare come siamo diventati” assume progressivamente un valore generazionale: REALITalY – senza esporre tesi e analisi sociopolitiche, dati o documenti oggettivi, petizioni di principio, inutili toni da comizio – narra la condizione dei trenta-quarantenni italiani e lo fa rendendo o facendo intuire lacerti di vita di una laureata in chimica (“centodieci, senza la lode”) costretta ad accontentarsi degli avanzi di giornata di un ristorante; di un musicista che ha rinunciato a provare agli altri (e a se stesso) la propria presunta o effettiva bravura; di una donna che, abortendo, ha rimandato l’assunzione di responsabilità, la serietà dell’impegno, l’affermazione della propria crescita definitiva (“Ti prometto che quando ci saranno le condizioni…”). Tutto ciò avviene alternando sarcasmo e amarezza latente, ironia e tragicità sottotraccia, grottesco e realismo di maniera e avviene meglio di quanto non avvenisse già in Cantare all’amore poiché – mentre in quel caso si trattava di rimarcare un dissidio, di generare un contrasto tra opposti (bellezza/bruttezza, ricchezza/miseria, ascesa/caduta) – in questo si tratta di lavorare sulla coesistenza giacché potenzialità e fallimento appartengono ad ogni singolo personaggio: ognuno ha, infatti, qualcosa da nascondere, qualcosa in cui è manchevole, qualcosa che genera frustrazione, astio o dolore, un senso di sconfitta.
È proprio in nome di questa coesistenza tra dicibile e indicibile, d’altro canto, che Realitaly afferma a parole ciò che smentisce nei fatti per cui ci si mette la camicia senza mettersela, si rifiuta di belare per poi ritrovarsi a camminare come una pecora, si afferma un dolore alla mano rivelandolo di fatto inesistente, si giura di essersi confessati agli spettatori senza aver confessato nulla o si espone inizialmente il programma di “dire tutto” salvo poi smentirsi da soli: “Neanche io voglio che si parli di questa roba in pubblico”.


“Il tuo coraggio qual è? Chiuderti in queste quattro mura, con loro, e far vedere le cose tue?”
Questa capacità di alludere alla generazione cui si appartiene in REALITalY viene, inoltre, elevata alla seconda: se, infatti, le figure della laureata in chimica, del musicista e della madre mancata sono la dimensione-personaggio della trama, c’è una dimensione-attoriale esposta esplicitamente che racconta delle condizioni della nuova teatralità italiana. Ascoltare frasi come “Prima facciamo lo spettacolo poi ci danno il resto dell’incasso”, “Io senza soldi non comincio, non proseguo e non finisco”, “Io preferisco essere pagata dopo aver fatto un lavoro, mi fa dare di più” fa pensare alle – spesso miserrime – condizioni contrattuali che gli artisti sono costretti ad accettare pur di avere date, distribuzione e tournée; “Sono meno di trenta euro a testa” svela quanto effettivamente possa guadagnare una compagnia in trasferta; “Abbiamo provato a fare anche quello che ci piaceva” dice dell’ostinazione alla scena; “Dopo la replica di domani torneremo lì” racconta dell’effimera natura della presenza sul palco; “Questo è l’unico modo onesto per tirare avanti” afferma la convinta scelta di una vocazione artistica; “La realtà è che noi non abbiamo niente da dire” accenna all’autoreferenzialità della ricerca, suggerisce il pericolo sempre incombente del fallimento o dell’assenza di contenuti effettivi da produrre e proporre; “Perché dobbiamo fare sempre queste cose sperimentali?” interroga la natura del proprio percorso, tra superamento della tradizione e difficoltà di generare qualcosa di nuovo, che sia valido e comprensibile per forma (“Ti rendi conto che quello che dici non significa niente?”) e per sostanza (“Questa porcheria non ha niente a che fare con l’arte”).
REALITalY realizza dunque questo duplice racconto del presente: con i personaggi rimanda al complessivo contesto sociale italiano (ecco il senso della bandiera tricolore, usata come separè interno alla casa) mentre con gli attori rimanda all’ambito specificatamente teatrale: “L’importante è che ci sono le persone, altrimenti sarebbe tutto inutile”; “Dobbiamo fare qualcosa, altrimenti siamo solo pupazzi”; “Siamo diventati animali addestrati, che fanno il saluto anche quando il pubblico non c’è”.


Proprio perché la capacità de La Ballata dei Lenna è quella di indurre per rimando alla riflessione, trovo poco pertinente la scelta del finale di REALITalY. Non mi riferisco all’improvvisa invenzione/apparizione di una sostanza – l’“Eutropia russa gigante” – capace di “attivare i ricettori buoni” di chiunque la inspiri, una non-droga che non produce utili, non genera dipendenza, non è distruttiva e che è capace di mutare la percezione della realtà generando “il passaggio dal modo di vedere le cose ad un altro”: mi sembra si tratti di una metafora del teatro in quanto teatro che, col suo manifestarsi, migliora chi vi prende parte o vi assiste (metaforizzazione che sarebbe confermata dal fiato che viene usato per dirigere i vapori della sostanza dal palco verso la platea); piuttosto non mi convince il monologo del pupazzo Kenny, lasciato solo in assito e che si ascolta attraverso un registrato fuori scena: come se La Ballata dei Lenna cedesse senza ragione alla pratica dell’esplicitazione del messaggio chiamando gli spettatori a “rifare la realtà”: “cominciate anche voi, buona serata, musica maestro”. Mi sembra poco coerente – quest’ultimo momento di REALITalY – proprio rispetto allo stile teatrale della compagnia che – fedele a un inciso del testo: “Ci sono delle cose che devono sembrare stupide” – è votata a dire usando invece apparenti leggerezze argomentative, immagini contro-stereotipate, contenuti farseschi. Un lavoro, inoltre, è ancora da svolgere sui tempi complessivi dello spettacolo, che talora rallenta dilatando eccessivamente il suo vuoto o il suo silenzio per poi scattare con nuove scene come dal nulla: quasi che la trama sia stata costituita per montaggio o per messa in sequenza, generando così una cronometria di stasi e di sussulti meritevole di un maggior equilibrio.
Si tratta del lavoro ancora da compiere e che determinerà la crescita che ancora attende La Ballata dei Lenna; si tratta di quel percorso di cambiamento e di perfezionamento (nelle possibilità interpretative, nell'ampiezza e nella variabilità tonale e tematica della scrittura, nelle capacità di transfigurazione del reale sul palco) a cui questa compagnia mi sembra destinata e che avviene nel tempo, che si deve anche alla salvifica inevitabilità di errori o mancanze e che permette la progressiva formazione/affermazione di una poetica riconoscibile, coerente, propria fino in fondo.

 

In appendice
REALITalY, Michele Di Donato, Il Pickwick (4 settembre 2014)
Cantare all’amore, Alessandro Toppi, Il Pickwick (12 febbraio 2014) 

 

NB. Le foto a corredo dell'articolo fanno riferimento alla messinscena avvenuta al Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria

 

 

 

 

REALITalY
di La Ballata dei Lenna
supervisione al testo Michele Santeramo
con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno
produzione La Ballata dei Lenna
foto di scena Francesco Confalone, Bruno Calza
lingua italiano
durata 1h 30’
Napoli, Teatro Area Nord, 11 maggio 2015
in scena l'11 e 12 maggio 2015

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