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Friday, 10 April 2015 00:00

La società (teatrale)

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Premessa
Il demone dell'Io, che si insinua tra Noi e le norme economiche dell'Occidente, il conflitto tra Etica ed Economia, tra le utopie e i bisogni, tra le necessità che appartengono all'anima e quelle indotte da un sistema sociale basato su domanda ed offerta calcolata solo e soltanto in denaro. Tutto ciò è stato scritto da chi ha già recensito La società. Tento, dunque, una lettura diversa e del tutto basata su alcune fortissime suggestioni che lo spettacolo mi ha donato.
Dopo una notte insonne, trascorsa a rivedere mentalmente la messinscena, a risentirne alcune battute, passata a rileggere gli appunti presi in platea e cercando e ricercando un’altra interpretazione possibile, La società per me continua ad essere – ora, a mattino inoltrato – uno spettacolo che parla del teatro: delle sue miserie e dei suoi conflitti, delle sue incertezze e del suo destino, della sua programmazione, delle sue prospettive, della sua propensione alla commerciabilità e del fallimento delle sue illusioni culturali. Continua – La società – a dirmi che questo locale che un nipote e i suoi amici si trovano a dirigere per volontà di uno zio, con aggiunta della badante rumena in “quota di minoranza”, rimanda a un palco con davanti una platea, magari a uno di quegli spazi medio-piccoli in cui l’arte di scena viene messa in pratica da trenta-quarantenni che hanno idee, coraggio e ostinazione ma sanno che idee, coraggio e ostinazione non bastano e che – presto o tardi – verrà il momento di fare i conti con il vuoto della cassa. 

Impiegherò quindi le parole per formare argomenti e, gli argomenti, per cercare di condividere l’idea che lo spettacolo della Compagnia MusellaMazzarelli, pur attraverso una metafora, parla del teatro e lo fa in tre atti, a cui corrispondono altrettante funzioni.

Primo atto (ieri)
Un telo verdognolo fa da parete di fondo, a mezzo palco. Vi pendono una decina di palline di Natale, qualche stella a otto punte, altri decori. Un tavolino di vetro, basso e centrale, su cui sta un piccolo alberello. Tre sedie, frontali. Un appendiabiti, una borsa marrone, pacchetti regalo. Interno casa o meglio: un apparente interno casa in ribalta, forzatamente teatralizzato nella sua resa ambientale. Scorcio da vecchio dramma, con la morte che abita oltre scena e la vita che si mostra schiacciandosi a un passo dagli occhi del pubblico: di là c’è lo zio che biascica, emette lamenti incomprensibili, vittima di una paresi che lo ha tramutato in un essere farfugliante, prossimo a una fine non ancora giunta del tutto mentre qui – al cospetto di chi osserva, approfittando della trasparenza della quarta parete –  si recita l’esistenza: si recitano il dolore, lo strazio, la preoccupazione; la vicinanza e l’ostilità, il rancore e l’affetto, l’alleanza, il riavvicinamento, un’allegria destinata a sparire col cambio di scena.
La società non propone in questo primo atto la premessa di una trama che deve trovare il suo sviluppo nel secondo e nel terzo, seguendo un principio di linearità drammaturgica – come potrebbe sembrare – ma offre piuttosto un campionario di teatralità classica, quasi riprendendo in forma scorciata e accennata certe storie ambientate tra fondali pittati e vecchi praticabili, utili a dare connotazione popolaresca o piccolo-borghese alla visione. Siamo, con questo zio che sta per morire, ancora al teatro pseudo-eduardiano (lo zio altri non sembra che il Cupiello afasico del Natale presepiale) ed infatti è del teatro del tempo eduardiano che nel primo atto si fa sfoggio, campionario e prova attoriale: la recitazione naturalistica, dialettalmente connotata anche quando si esprime in italiano, duttile nel mutare registro alternando il comico al tragico, il sorriso alle lacrime; contraddistinta da accelerazioni verbali, assenza effettiva di dialogo, da caratterizzazioni idiomatiche o mimiche, da qualche silenzio, incroci di sguardi a dire il non-detto e tutto questo all’interno di uno spazio vagamente realistico ma emblematicamente falso nella definizione perimetrale, nella stoffa che fa da parete, nella collocazione funzionale delle sedie, buona per dire a chi sta guardando dalla platea.
È teatro che espone il teatro – e non la vita in forma di teatro – questo primo atto de La società: lo è perché si dice “Adesso arriva anche Ugo” annunciando l’entrata dalle quinte (la chiamata in assito), “Hanno messo anche i festoni di Natale” (sottolineatura scenografica), ”Dopo forse canto” (annuncio d’azione); lo è perché gioca con l’impossibilità del colloquio (“Luba, se non scandisci quando parli non ti capisco”), con l’accorta gestione degli spazi, con l’uso di aneddoti (le chitarre sfasciate) che servono a variare la temperatura del discorso; è teatro quando coniuga il passato al presente (“È stato un gran... è un grand’uomo”) per alludere alla persistenza momentanea di una tradizione che viene appositamente replicata; quando fa commento per sottolineare il valore o la funzione di una battuta (“Questa è brutta, questa è bruttissima”); quando dispensa frasi come “Fin dall’inizio della storia” (principio drammaturgico), “Stammi a sentire” (richiesta d’attenzione allo spettatore interno), “Io sono stato chiaro” o “Non facciamo finta di non vedere le cose” (il rapporto tra apparenza e realtà, su cui si basa il teatro).
Siamo dunque al cospetto di una prima parte che serve a dire del teatro che fu e che rappresenta – piaccia o non piaccia – il punto di partenza del proprio percorso: quella tradizione registico-attoriale a cui si fa inevitabilmente riferimento, fosse anche per tradirla, dimenticarla o smentirla, dandole un calcio. Questa tradizione è un’eredità ed è per questo che La società la tramuta – metaforicamente – nell’eredità di un locale, da gestire tutti insieme, assumendosi la corresponsabilità nelle scelte: cosa volete farne di questa tradizione che si appresta alla fine? Cosa volete che diventi questo passato illustrissimo, bruciato dal tempo? Quale ripartenza immaginate o volete per questa storia giunta a una stasi, a una sua morte momentanea?
In Natale in casa Cupiello il presepio era illusione, svago, mezzo attraverso il quale distrarsi dallo scempio familiare ma era anche metafora del teatro in quanto teatro ed è impossibile – oggi – non vedere nel rapporto tra Eduardo e suo figlio un passaggio di testimone: “Te piace 'o presepio?” ovvero ti piace il teatro, ti piace questo mondo che io, per tutta la vita, ho allestito, Natale dopo Natale, replica dopo replica, e che a te – adesso – tocca allestire al posto mio? Quell’interrogativo torna ne La società, se ne appropriano questi quattro bravissimi attori e nell’appropriarsene mettono in palco un primo atto che rimanda ai bassi chiusi, ingombrati d’oggetti, in cui vive il teatro di mezzo Novecento e anche oltre: con le sedie, il tavolino, l’alberello e i decori ne vengono riproposti i tempi di recita, gli stilemi, lo statico equilibrio nell’occupazione del palco. Il primo atto, dunque, serve a dire da dove si parte, serve a mostrare cosa c’era prima, quali spettacoli venivano allestiti. Il secondo – invece – serve a mettere in discussione il presente: ottenuta l’eredità, avvenuto il passaggio di testimone, cosa vogliamo che accada?

Secondo atto (oggi)
“Un posto in cui dare spazio alla libertà, al coraggio”, in cui “ripartire dall’alfabeto, da come si calcolano i numeri”, un posto nel quale nessuna vetrina è possibile per il superfluo, l’inutile, “la tendenza, la moda”. Un posto che tuttavia – giorno dopo giorno, miseria dopo miseria – diventa un’attività con fini commerciali, intenta perciò ad attirare quanto più pubblico possibile, non curandosi della qualità della proposta ma della quantità del guadagno. Un posto che muta il proprio aspetto, la propria missione, il proprio impegno degradandolo per il soldo, garantendo intrattenimento a una massa di “mostri”, incolti e ignoranti, disposti a spendere per divertirsi per qualche ora. Un posto nel quale si offre la recita che i fruitori si aspettano (“fa scena” si dice del banconista "facendo il piacione" mentre di Vittorio s’afferma che “fa la sua figura” entrando in sala e interpretando “la parte” del padrone). Un posto i cui fondamenti ideali sono traditi, di cui è tradita la funzione originaria, il progetto iniziale. Questo posto è un teatro e rimanda implicitamente al teatro che allestisce i cartelloni coi nomi televisivi, proponendo ciarpame  e spacciandolo per cultura; rimanda al teatro delle pellicce, del trucco pesante, delle anziane ingioiellate come madonne; rimanda al teatro ridotto a stanza delle banalità, della comicità che non fa ridere, del classico ridotto in una mascherata stantia. Questo posto è un teatro incapace oramai di preservare la natura primigenia del teatro – luogo catartico, sociale, collettivo, democratico, nel quale la finzione smaschera la verità e la verità serve a produrre la finzione – questo posto è un teatro che, immiserito dallo scarso seguito, dall’assenza di spettatori e dall’autoreferenzialità delle sue stesse proposte, per rimanere aperto non può che dispensare pantomime approssimative o sguaiate.
“Tu credi che non mi manchino le cose che abbiamo fatto qui dentro?” chiede Ugo a Salvo, mettendo in relazione gli intenti di ieri con la pratica di oggi, aggiungendo poi: “Si tratta di capire come combinare...”. Si tratta di capire, nel secondo atto de La società, se è possibile tenere assieme sogni e fatica, utopie e portafogli, arte e sua vendita; se è possibile fare ancora di questo spazio – nel quale si è posti “di fronte alla nostra libertà” – una zona di salvaguardia di valori vivi ma dimessi e fragili rispetto alla necessità o alla tentazione del denaro. Pensieri, concetti, invenzioni e ideologie, fantasie, concretezze materiali, alta teoria e bassa immediatezza, citazionismo colto (La Bibbia, Gesù, il Grande Inquisitore) e pressappochismo dialogico (“Dentro o fuori? Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo chiudere?”) vengono messi in gioco da quattro attori che hanno ognuno un compito, un proprio ruolo specifico. Vittorio è il commercio: decide il cambio di prospettive, l’afferma, lo rimarca ostentando la crescita degli utili, rivendicando i buoni affari. Salvo – il nipote e dunque la discendenza diretta – rappresenta la petizione di principio, l’Arte per l’Arte, rimanda alle stanze vuote della Ricerca, ai piccoli crogiuoli d’iniziati alla Bellezza, ricorda idealmente tutti gli illusi/ostinati che continuano – nonostante i debiti, il silenzio, il disinteresse – a scegliere autonomamente cosa si mette in scena, a dispetto del disgusto imposto dal mercato. Tra l’uno e l’altro (“Sarebbe bello dicessi da che parte stai”) c'è Ugo: un mediatore ingenuo, credulone o mentitore a se stesso, incapace di fare proposta o chiarezza: vampiro coi vampiri, nostalgico quando risuonano le note della nostalgia. Non è un caso, dunque, che tocchi a lui chiudere il secondo atto, sancendo la distruzione del locale: è il compito che suo malgrado si assume chi oggi è ignavo, assente o peggio ancora complice silente dinnanzi allo sfascio della cultura e alla sua svendita patrimoniale. Infine c’è Luba, figura di secondo piano solo in apparenza: Luba da prostituta (non erano considerate prostitute le attrici? Non erano considerati peccatori gli attori?) sì è fatta badante di uno zio di nome Omero – Omero, Grecia, epica, il principio della teatralità – ed è di questo Omero che cerca di farsi portavoce tardiva, cercando di riaffermarne i dettami inutilmente: finisce sconfitta, zittita, esiliata.
Il secondo atto è dunque la forma-spettacolo del dibattito odierno sulla pratica del teatro, su quali sono le sue prospettive tra idealità, assenza di fondi e desiderio di sopravvivenza. Perché questo dibattito prosegua con la sua metaforizzazione (l’azienda, lo zio, la polizza assicurativa) s’ambienta su tutto l’assito, arredato adesso con librerie a tre piani, grandi e piccole scrivanie, faldoni, un pc, una poltrona di pelle, tre sedie, uno sgabello. Qui si allestisce verbalmente “una guerra”, “uno scontro” tra concezioni opposte (Vittorio: “Quest’attività che gestiamo è commerciale”; Salvo: “Qual è il cuore? Chi sceglie cosa?”) e che risulta impossibile far convivere tanto quanto sembra impossibile far convivere il buon andamento economico con la qualità artistica della proposta. Sul piano estetico il secondo atto de La società si dichiara da sé: “Visione assolutamente paradossale” all’inizio – simile alle dispute ereditarie dei microcosmi familiari – diventa “una scena patetica” e crudele, rancorosa, distruttiva.
Brucia, alla fine, questo posto e ne brucia dunque l’esistenza possibile, potenziale e disattesa. Nell’aria non ne restano che “i fantasmi di un fallimento passato”, che viene ripetuto, ostentato e dichiarato al presente.

Terzo atto (domani)
“Ma che cos’è questo posto?”
Il tappeto che fa da perimetro si è sollevato nella sua parte posteriore inclinando sedie, tavoli, librerie. Calata l’intensità dei fari domina la penombra. Siamo alle premesse celate della storia che abbiamo appena visto, siamo nel locale che altri hanno distrutto e che è stato acquistato e passato in eredità dallo zio a suo nipote, giacché “per tenere vivo un sogno c’è bisogno di uno spazio”: va liberato dai pensieri di chi non ce l’ha fatta − ammonisce per lettera lo zio − va liberato dagli spettri “dei sogni infranti”, dai fantasmi dei tentativi non riusciti. “Combatti” e "dimostrami che si possono sconfiggere" ammonisce ancora lo zio al nipote, combatti per “ridare vita” a questo luogo. I tre – conosciuta Luba per circostanza solo in apparenza casuale – cantano abbracciandosi, ridono, prendono a occhio le misure (“sarà dieci per dieci”, “dieci per venti”, “di là sarà sei per sette”) e iniziano a fantasticare su quel che potrebbe venire, così diverso da quel che verrà.
È dunque un flashback, la visualizzazione del prima, questo terzo atto? La risposta è sì, se ci si limita a pensare alla singola recita e non all’insieme di repliche che formano l’esistenza effettiva di uno spettacolo. Questo terzo atto, infatti, mi piace pensarlo come il pre-atto che anticipa la replica di domani: non è la fine della messinscena cui sto assistendo stasera ma la ragione fondante di quella che altri vedranno domani sera. Questo terzo atto è il principio dei sogni che domani – stesso palco, altro pubblico – saranno ripassati in consegna, rimessi in discussione, ribruciati ed estinti. Perché è così che funziona il teatro: addobba la propria morte recitandola, continuando in questo modo a sopravvivere.
Dunque La società non termina ma prosegue perché prosegue – nonostante tutto – il teatro: prosegue nonostante la sua commercializzazione banale, l’assenza di spazi, lo scarso respiro della ricerca; prosegue a dispetto delle fazioni, dei contrasti, delle rinunce; prosegue ripartendo dalle fiamme, dalla cenere, dagli avanzi. Sembra un finale amaro, questo, da mogio magone sentimentale ed è invece una dolente  ma fiera offerta di caparbietà, una dichiarazione ostinata, la riaffermazione di un principio. Continua il teatro, ripartendo dal punto esatto in cui termina; continua riprendendo da dove ha smesso la notte precedente (il singolo spettacolo) e continua (come idea, scelta, principio, vocazione) dal punto esatto in cui gli altri si sono fermati, si sono arresi, hanno fallito.
Da Omero al dopo-Eduardo, è la storia che lo dice: di sconfitta in sconfitta, il teatro non muore ma continua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La società. Tre atti di umana commedia
scritto e diretto da Lino Musella, Paolo Mazzarelli
con Fabio Monti, Laura Graziosi, Lino Musella, Paolo Mazzarelli
scene Elisabetta Salvatori
costumi Stefania Cempini
luci Mauro Marasà
fonico Marco Gentili
direttore di produzione Marta Morico
organizzazione Carolina Pedrizzetti
comunicazione Beatrice Giongo
produzione Marche Teatro
in collaborazione con Compagnia MusellaMazzarelli
fonte foto di scena Ufficio Stampa; pagina FB Compagnia MusellaMazzarelli
lingua italiano
durata 1h 30'
Napoli, Piccolo Bellini, 7 aprile 2015
in scena dal 7 al 12 aprile 2015

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