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Friday, 10 April 2015 00:00

Paradossi temporali ed altri dèmoni

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Possiede tutto il fascino leggermente esotico e fondamentalmente estraneo – come provenisse da un tempo e uno spazio lontano e velato d'ovattate debolezze – il dipanarsi sincronico di questa pièce che Paolo Coletta con magistrale arte di scomposizione e crossing-over sapientemente trae da alcuni ricombinati frammenti di Fiori giapponesi: origine letteraria già di per sé franta, nel prezioso inanellarsi dei racconti brevi di Raffaele La Capria, ma che ancor più si (ri)mescolano traendo maggior forza proprio dal comporsi rimanendo tuttavia divisi e scissi, come inconfessato peccato originale che non del tutto riesce a lavare e salvare il ritessersi in accennata e rotta narrazione.

Non importa, dunque, al regista e compositore, la ricerca d'evoluzione temporale e spaziale degli eventi lungo una linea logica e consequenziale: molto più delle cause e degli effetti che da quelle scaturiscono, interessano invece i processi e la loro descrizione, la comprensione delle leggi che ne regolano l'esistere e il perpetuarsi, piuttosto che il narrare cronologico dei fatti l'uno articolato all'altro in bella fila come fosser favolette da raccontare la sera ai bimbi buoni. Capita così che il protagonista – ove mai ce ne fosse uno che si fregiasse di tal titolo – si senta rimproverar dalla moglie la sera il ripetuto estraniarsi dall'amore che un tempo li ha uniti e che a questo risponda semplicemente addormentandosi. Comincia così un viaggio in uno stato (un tempo, uno spazio) che forse non è corretto definir sogno, ma che certo molto gli somiglia, che di questo ha il carattere fortemente alogico e appositivo, incollando l'uno accanto all'altro elementi e simboli e figure che in apparenza dovrebbero star distinti e lontani, diaframmando, invece, e a bella posta, ciò che secondo ragion veduta dovrebbe esistere nello stesso spazio e tempo. Li chiamerebbe qualcuno, in un contento e pago divagar di fantascienza, lacerazioni dello spaziotempo: come definire altrimenti quel rimirarsi del protagonista nello specchio oscuro del proprio io ferito e liquido, per occhieggiare in fondo in fondo a quel giovanotto che tanto gli somiglia e che fa l'amore con la figlia (che però a distanza di spazio e di tempo i gesti ripete e l'emozioni riaccende della moglie, lasciata invece in un futuro più vicino a noi che da fuori guardiamo)? Dunque i frammenti di carta che sbocciano in acqua e s'allargano (possono perfino sbocciare) come fiori giapponesi, non son solo lacerti di brani letterari, di diversi e scomposti "pezzi facili" che uno scrittore talentuoso e attento un giorno ha avuto la ventura di creare, ma vanno a ricomporre un puzzle – quantomeno si sforzano di farlo – come una rediviva Mary Shelley andasse a ricucire insieme un Frankenstein capace d'acquistar vita nuova e diversa luce ed energia. Aliena, appunto, nella leggerezza arcana d'un luminoso scherzo che un demone ricompone nel buio.
Così. la forma stessa della scena, distinta e separata in tre vani cubici divisi da pesanti tendaggi neri e, sul fondo, un "sipario" da cui escon mascherati demoni e personaggi dall'ambigua identità di figli e d'alter ego, suggerisce volutamente un "cubismo" teatrale che con quello pittorico ha in comune la decostruzione della prospettiva, il coesistere sullo stesso piano di punti di vista diversi, di esplorazione della quarta dimensione in un passato e in un presente che insieme più o meno pacificamente coabitano e s'interrogano, in un rincorrersi e fondersi in modo inestricabile: lo stesso linguaggio, che è quello originale di La Capria, suona ai nostri orecchi, in tante espressioni, inevitabilmente passato e perduto, così strettamente legato com'è ai tristi anni di piombo, dall'espressività ed aggressività così segnata e inevitabilmente datata: mi son più volte sorpreso a chiedermi qual effetto riuscisse a suscitare nei giovani presenti il gergo così caratteristico di quel tempo smarrito e forse dimenticato, senza potermi dare una risposta se non quella, ancora una volta, d'un potente giocar col tempo, con l'uso e l'abuso di presenti e passati ch'eran attuali e che oggi son trascorsi. E dunque quel rincorrersi di fantasmi d'una cessata angoscia, lungi dal cristallizzare in arcaici automatismi i nostri pensieri, contribuiva invece, così almeno m'è parso, a liberarli, a depurarli, a purificarli, infine, in tensione verso una nuova sintesi. Del resto, lo stesso procedere della messa in scena spingeva ad una percezione che si sostanziava attraverso un tempo (ancora una volta) adatto di lettura delle singole parti e con un lavoro di ricostruzione mentale.
E ancora. La musica. La scelta di inserire, incastonare, inestricabilmente intessere i dialoghi e le situazioni di musica e di canto è una felicissima soluzione che accentua il senso di distaccato straniamento dell'intera pièce: le parole di La Capria vengono cantate – prosa, dunque, non poesia, come addicesi all'opera moderna – intervallate da parti recitate (come invece in un Singspiel od opéra-comique); una conquistata leggerezza che contraddice l'espressività di certi dialoghi per restituire trasognati duetti e prolungati assoli: la musica e il canto riescono di slancio a superar le inevitabili incongruenze delle situazioni e del contesto che il lavorio di sartoria teatrale, nel taglia e cuci letterario, pure inevitabilmente porta con sé. Ne escono bene, gli attori cantanti, dalla prova: se Mercedes Martini e Mario Autore possiedono gran padronanza di scena e convincente verve attoriale, son soprattutto le belle voci di Massimiliano Foà e Daniela Fiorentino a provocar la gradevole sorpresa, il senso di leggerezza e di calore che regge il senso ultimo dell'intera prova: credo che tutti abbian colto questo, manifestando coll'energia di prolungati applausi il proprio star bene e in pace col mondo e con le cose.

 

 

 

 

L’armonia perduta
Fiori giapponesi
liberamente ispirato a Fiori giapponesi
di Raffaele La Capria
musica e regia Paolo Coletta
con Mario Autore, Daniela Fiorentino, Massimiliano Foà, Mercedes Martini
scene Luigi Ferrigno
costumi Zaira de Vincentiis
disegno luci Gigi Saccomandi
produzione Teatro Stabile di Napoli
durata 50’
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 7 aprile 2015
in scena dal 7 al 12 aprile 2015

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