“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 08 April 2015 00:00

L'oblio esemplare di un critico

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(un articolo)
Giorgio Strehler – il divo, il mostro sacro, l’artista che è sempre negli sguardi della gente, al centro del fragore degli applausi e delle polemiche – è un uomo solo e non importa che il teatro sia un lavoro collettivo, che sia un incontro, che sia l’arte corale per eccellenza: egli rimane un uomo solo. “Vivevo nel sotterraneo del Piccolo” – racconta – “fra la platea, a dirigere le prove, e il sottopalco, a dormire a strappi, magari sul rotolo d’un tappeto da scena o sul coperchio d’una cesta per i costumi. Facevamo sette-otto spettacoli per stagione, con venticinque giorni di prova per spettacolo; dunque provavamo sempre, la mattina, il pomeriggio, la notte dopo la chiusura dell’ultimo sipario. Era una vita assurda, tagliata dal mondo, solo artificio, immaginazione e mestiere”.

Mentre Grassi tiene il rapporto col mondo di fuori Strehler – questo Strehler ombratile, confuso tra le quinte o piegato nell’ultima fila della platea, intento a nascondersi alle spalle dei suoi attori al momento dell’applauso o col volto pieno di fermezza durante una conferenza stampa – vive il suo mondo artigianale rimanendo lontano, protetto e distaccato dai rumori molesti, dagli scricchiolii e dai bisbigli dell’esterno. Questa solitudine non è un atteggiamento, un insieme di posture o un’indifferenza al sociale quanto il frutto di una propria coerenza, inevitabile e che si manifesta proprio a teatro, con il teatro, attraverso il teatro. Strehler sceglie alcuni filoni precisi e li approfondisce con accanimento e insistenza, perdendoci il sonno, talvolta la ragione: mentre fuori passano i giorni, i mesi e, talvolta, gli anni. Reinventa, con Marcello Moretti, i modi della Commedia dell’Arte; lavora su Shakespeare portandolo verso l’epicità del Novecento; riapre il discorso su Bertolazzi, rivelando il valore segreto del teatro nazional-popolare; presenta Brecht agli italiani e scopre in Goldoni il senso di un realismo veritiero, oltre le mossettine o la pantomima imposta dal dialetto di Venezia.
Questo per dire della sua attività, condotta con un’intensità assoluta, ossessiva, quasi ammalata, che produce alterne fortune, crolli e trionfi, stagioni esaltanti e lunghe pause di silenzio, d’incertezza, di paura. “Ma ci pensi” – dice al suo confessore prediletto, in realtà per dirlo a se stesso – “che non ho ancora fatto un Amleto. E non ho ancora fatto un Molière. Ho fatto solamente, male, Il misantropo. E non ho mai fatto la Minna di Barnhelm di Lessing; mai la Pentiselea e Il principe di Homburg di Kleist; mai un testo di Schiller. Ti rendi conto che non ho mai fatto il Faust!”. Egli va avanti, prosegue, s’intestardisce e lavora. Senza dare peso alle accuse di essere un regista conservatore, di badare solo ai classici, a ciò che è ingiallito e già morto: come se le pagine ingiallite non conservassero, intatte, il valore delle loro parole; come se gli autori defunti fossero defunti davvero.
Questa ostinazione sui propri motivi, questa fissità visionaria e febbrile, questo attaccamento a un’idea del teatro che – piaccia o non piaccia – gli è chiara e che persegue con ogni forza a disposizione, fa la solitudine di Giorgio Strehler. È una solitudine segreta, che di fuori non appare. Di fuori ci sono il successo, le conferenze, le interviste, la pratica quotidiana, i progetti possibili e quelli falliti, gli interventi ai dibattiti, la candidatura politica e i viaggi per le regie in mezza Europa. Dentro, invece, c’è un rovello continuo, fatto di ritorni su scelte già compiute, fatto di ripensamenti su spettacoli già apparsi e spariti, fatto di nuove idee per rappresentare meglio domani, dopodomani, chissà quando. Parla coi testi, di notte, Giorgio Strehler e parla coi personaggi delle messinscene da fare, parla con le figure destinate ad apparire e con quelle che – la materialità del teatro – non accoglierà mai.
Uomo solitario, anche quando è circondato da una festa di sguardi, Strehler è anche un uomo di addii, di congedi, di spettacoli-testamento. Quante volte mette in scena, senza dichiararlo apertamente, la fine del teatro, il termine di ogni recita? “Il sipario di ferro che stritola la carretta dei comici dopo l’ultima scena dei Giganti della montagna; Prospero che spezza la bacchetta degli incantesimi, chiedendo la liberazione dell’applauso; il Riccardo II, detronizzato e malinconico, vestito con la tunica bianca da pazzo, che si allontana verso il fondo del Lirico facendo un gesto di saluto al pubblico, come a dire: Non mi vedrete più”.
Strehler sancisce, così, la sua solitudine.
“Contestato, acclamato, odiato e idolatrato, il cuore al passato, l’intelligenza al futuro; ricercatore accanito dell’essenziale, perfezionista implacabile; istrione e poeta, estroverso e timido, clamoroso e dimesso; vivo come il suo Brecht e come ogni artista autentico, colmo di contraddizioni interne; un po’ anima buona, un po’ anima cattiva; fisso, fra i tanti tumulti di fuori e di dentro, ai sogni di un teatro in cui l’arte si intrecci dolorosamente alla socialità: questo è Strehler.
L’ipotesi di una sua solitudine invisibile non è poi tanto arrischiata”.
Così, di Strehler, scrisse Roberto De Monticelli in un articolo il 6 ottobre 1979, pubblicato da Il Corriere della Sera.

(una lettera, quattro giorni dopo)
"Milano, 10 ottobre, 1979.
Caro Roberto
Ho aspettato chissà perché a scriverti o per quell’enorme pudore che sempre mi trattiene? Per la speranza di saperti dire meglio e più, qualcosa, con un certo distacco?
So soltanto che il tuo è il primo tentativo umano che qualcuno ha fatto, in tanti anni, di leggere dietro alla mia storia di uomo e di teatrante. Ed è una lettura sensibile, tenera e profonda, di un compagno di strada. Le tue parole mi restituiscono un calore al quale non sono abituato.
Vorrei solo dirti, Roberto, che se solitudine c’è, in essa le tue parole mi sono apparse improvvise come un lampo di vicinanza, hanno per qualche attimo spezzato il cerchio. Mi hai fatto molto bene. Mi hai dato più di quello che credi, tanto sono affamato di identità e di affetto.
Roberto, tu riempi un poco il vuoto che la pratica di un mestiere meraviglioso e terribile crea in coloro che vi si votano per una specie di ineluttabilità della quale non sono mai riuscito a capire, fino in fondo, le ragioni.
Anche la gente del teatro più vera sa capire soltanto qualcosa di questo mistero della teatralità, ne intuisce solo il segno e il prezzo, sempre grande e fatalmente ignorato. Tu, che sei nel teatro “dall’altra parte”, tu che hai scelto o sei stato scelto per essere “dall’altra parte” a guardarci e dirci qualcosa, hai pagato la tua scelta-non-scelta e te la porti, anche tu, come una piaga segreta. Questo ha dato l’accento inconfondibile che porta tutto il tuo lavoro di critica, al di là della chiarezza e della così profonda e sottile compiutezza delle tue pagine.
Roberto io so, io sento, che parlando di me hai parlato anche di te e che il mio piccolo inferno somiglia di certo anche al tuo e che la mia solitudine riflette la tua solitudine. Ma Roberto, come faremmo se la storia non ci concedesse, al di là della ribalta, uomini come te che portano avanti il teatro in altro modo e uguale? Posso e voglio allora dirti almeno una cosa che mi angoscia: non lasciare. Non lasciare, Roberto. Non lasciare un solo varco alla stanchezza, alla delusione che sento trapelare nelle tue parole in questi ultimi tempi, tieni duro, inflessibilmente. Tieni il tuo posto nel teatro. Non sentirti, a tua volta, solo anche tu se i fantasmi notturni lasciano come sempre soli, anche se il teatro sfugge tra le dita al primo canto del gallo come lo spettacolo di quell’Amleto che non ho fatto e che forse non farò più. Non togliermi, non toglierci questo tuo punto di riferimento amorevole, nostro, necessario in un mondo in cui il teatro appare così incerto, così percosso, così contraddetto.
Roberto, volevo dirti molto altro e molto di più.
tuo
Giorgio".

(una citazione)
"Io trovo che il critico debba porsi di fronte a una manifestazione d'arte − quando arte ci sia − in una posizione di umiltà, che debba quindi chiarire, prima di tutto a se stesso e ai lettori, quello che l'artista ha inteso fare senza pretendere d'insegnare all'artista. Perché diversamente questo critico − può sembrare una battuta, ma in realtà non lo è − avrebbe veramente sbagliato mestiere, avrebbe equivocato sulla propria vocazione e avrebbe dovuto passare dalla sua poltrona di osservatore-testimone alla ribalta, al lavoro di palcoscenico insomma".
(Roberto De Monticelli)

(un critico)
Roberto De Monticelli è un uomo apparentemente solo. Fugge dai crocicchi del dopo spettacolo, si avvia in albergo o torna subito a casa, quasi senta l’urgenza di conservare gelosamente l’impressione di ciò che ha visto e che deve recensire. Cammina in silenzio, nel freddo notturno, riscaldandosi coi propri pensieri: in testa rivede lo spettacolo, si mormora in gola le battute mentre stringe tra le mani il taccuino, gli appunti, la penna. Per quanto possa apparire amorevole lo scambio con Giorgio Strehler egli rifiuta – quando possibile – ogni contatto diretto. Gli scrive un giorno il regista: “Di te c’è solo da temere il tuo carattere così schivo e quasi ombrosamente preoccupato di essere libero, di non essere frainteso o tanto peggio, di non apparire indipendente”. Per averne conferma si pensi a quando – nel pieno di un dibattito sulla critica, avvenuto in una calda serata d’aprile – Ruggero Jacobbi pronuncia queste parole: “Figuriamoci se non sono sensibile a queste cose, le capisco benissimo, anche perché qui nessuno fa il critico puro. Tutti siamo più o meno coinvolti in operazioni teatrali”. I partecipanti annuiscono, soddisfatti d’una così diretta ammissione mentre il pubblico tace. De Monticelli invece scuote la testa, quasi impercettibilmente, poi alza la mano e con una malcelata timidezza, fatto un lungo respiro, precisa: “No, io faccio solo il critico, se Dio vuole...”.
Roberto De Monticelli si schermisce ai complimenti che gli rivolgono gli artisti e i lettori sapendo quanto siano volubili, momentanei ed incerti; spesso riduce la propria bravura, la nega, la piega e la rimpicciolisce come per mettersela in tasca. Prova fastidio agli sguardi – lui che ha scelto la riservatezza buia della platea – non si riconosce i meriti che gli altri gli impongono. Gli sembra di compiere il suo dovere, con semplicità inevitabile ma con assoluta coerenza: nulla di più. Nonostante questa evidente propensione al distacco, alla giusta distanza, gli arrivano inviti ogni giorno e, quasi ogni giorno, lettere e richieste di pareri e consigli. Lo stesso Strehler non riesce a limitarsi e gli scrive più volte: “Caro Roberto, e continua la mia serie di lettere a te. Io non so perché ma ogni tanto, appena leggo un tuo articolo, mi viene voglia di parlarti e poiché parlarti è difficile, ti scrivo”. “Io non sono un grafomane,” – continua Strehler – “queste cose non le ho mai fatte. Dunque, la ragione è nuova e sottile. Io penso che sia dovuto allo stimolo che tu metti nei tuoi articoli e alla mia certezza che tu sei l’interlocutore più sensibile e attento, il più ricettivo”.
Naturalmente Roberto De Monticelli sente anche i fastidi, le cattive parole, i giudizi impietosi che gli rivolgono; legge l’ostilità che la sua indipendenza di giudizio gli procura, conosce i nomi di chi si diverte a ridurne il valore ed immagina facilmente discorsi e argomenti che, alle sue spalle, gli rivolgono i detrattori eppure rimane sereno, reso tale – per dirla con Franco Quadri – dall'unico impegno cui sente di doversi dedicare e che è quello di “vivere, come un attore, solo in funzione dello spettacolo, che non reciti, ma che vivi; calandotici dentro prima, attraverso la lettura del testo, continuando a viverne dopo, ripassando lo spettacolo visto sugli appunti e ancora sul testo, sulle note di regia, senza pace, fino a essere riuscito a fermare in qualche modo sulla pagina la rappresentazione; e, rodendoti, poi, nell’angoscia di non aver dato peso allo spettacolo in prospettiva, rispetto agli altri spettacoli, in un tormento infinito di dubbi”. 
Roberto de Monticelli scrive, quasi ogni mattina, dopo aver visto: quasi ogni sera. Di lui oggi non resta alcuna immagine, se si fa ricerca al computer; in certi depositi di vecchi libri in offerta si trovano ancora alcune copie del suo romanzo – L’educazione teatrale – che fu l’unica scrittura non critica cui diede vita: giacciono in un angolo queste copie, le copertine ormai sbiadite e le pagine interne macchiate dal tempo, essendo destinate a rimanere invendute. I suoi articoli invece appartengono al silenzio dell’emeroteche (le sezioni meno frequentate delle già poco frequentate biblioteche italiane) e i volumi in cui Bulzoni li ha raccolti – e che formano il corpus intitolato Le mille notti del critico – sono quasi introvabili: destinati a invecchiare ulteriormente sugli scaffali di quattro o cinque librerie antiquarie; confusi nei lunghi elenchi di certi cataloghi di libri costosissimi che nessuno acquisterà mai o diventati cartastraccia, pattume, avanzo senza valore e di cui disfarsi per i figli o i nipoti di vecchi lettori ora morti e che, un tempo, tenevano a cuore la critica teatrale di questo grandissimo testimone al punto da collezionarla.
Di Roberto De Monticelli oggi non si ricorda quasi più nessuno: assolto il dovere accademico del ricordo con qualche convegno, fissato il suo nome di fondatore dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro come si fissa una data nella memoria, il suo esempio langue, si stinge nella pratica quotidiana di un esercizio d'attenzione, di osservazione e di scrittura, che il tempo ha mutato e che – non di rado – hanno mutato le condizioni economiche delle redazioni, la de-qualificazione professionale, l'incertezza contrattuale ma anche la nuova deontologia giornalistica e l'adattabilità individuale al compromesso, all’opacità, alla convergenza d’interessi. Punto di riferimento per chi lo ha letto; fantasma per chi ne ignora l’esistenza. Sparito, ai più, come spariscono ai più certi spettacoli straordinari: finendo nel silenzio, cedendo all'oblio.

 

P.S. "Caro Roberto, avrei voluto scrivere meglio di te, meglio. Meritavi molto, non so quanto hai avuto da una vita tutta dedicata al teatro. Penso che, in fondo, non te ne sia importato molto. Hai fatto il tuo dovere teatrale, la tua missione teatrale l'hai compiuta con umiltà e senza cedimenti. Questo conta veramente, assai più degli applausi reali o metaforici che diventeranno sempre più fiochi e, poi, non si sentono più". (Giorgio Strehler)

 

 

 

 

 

N.B. Le fotografie de La tempesta di Giorgio Strelher sono di Luciano Damiani. L'immagine di copertina è tratta dal DVD 394. Trilogia nel mondo, regia di Massimiliano Pacifico

 

Roberto De Monticelli
L'attore
Milano, Garzanti, 1988
pp. 484


Giorgio Strehler

Lettere sul teatro
a cura di Stella Casiraghi
prefazione di Giovanni Raboni
Milano, Archinto, 2008 (2000)
pp. 194


AA.VV.

Per Roberto De Monticelli, per il teatro. Atti del convegno promosso dall'Associazione Nazionale Critici di Teatro e dalla Regione Lombardia (2-3 dicembre 1996)
Milano, Lupetti, 1997
pp. 231


AA.VV.

Sporcarsi le mani: cinque serate con i critici di teatro
a cura di Maricla Boggio
Roma, Bulzoni, 1974
pp. 198

Roberto De Monticelli
L'educazione teatrale
Milano, Garzanti, 1986
pp. 344

Roberto De Monticelli
Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti da uno spettatore di professione (4 volumi)
a cura di Guido De Monticelli, Roberta Arcelloni, Lyde Galli Martinelli
Roma, Bulzoni, 1996-1998
pp. 2976

Roberto De Monticelli
Inviato speciale. Cronache dalla Milano in bianco e nero
a cura di Stella Casiraghi
Milano, Melampo, 2008
pp. 206

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