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Friday, 03 April 2015 00:00

L'amore ai tempi della pornosfera

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Per parlare di Sì l’Ammore no bisogna partire dal titolo, da questo titolo che, all’apparenza afferma e nega e che in realtà non spiega, allude, ma non insegna, spogliandosi preventivamente di qualsivoglia intento didascalico. Fotografia con l’effetto seppiato del grottesco, quella a cui la coppia (nella vita, sulla scena) Frosini/Timpano  dà vita è un’istantanea dinamica dell’universo relazionale contemporaneo, così come è venuto sviluppandosi e formandosi, plasmato e viziato, dalle influenze molteplici, variegate e contrastanti con cui il Novecento ha bombardato l’uomo moderno.

Il prodotto (non) finale sono un uomo e una donna, gli abitanti di questo contemporaneo postmoderno, già zombi in pectore, come sembrano preconizzare le due luci verdi che ne illuminano i corpi riversi in scena all’inizio e che rimandano alla Zombitudine che verrà (e che in scena abbiamo già veduto), futuri corpi morti che qui cominciano a snocciolare i grani di un rosario di decomposizione.
Visione binoculare, quella che ci offrono Daniele Timpano ed Elvira Frosini, confezionando uno spettacolo a due fuochi, in cui l’interazione fra i due è paritetica, germinando in due cespiti alternati e sovrapposti che invitano lo sguardo a biforcarsi, come per seguire una partita di tennis. Non c’è infatti nella concezione drammaturgica dell’affiatato duo una figura preponderante ed una accessoria, ma una complementarità speciale – a cui non corrisponde necessariamente un bilanciamento dei personaggi interpretati – un sodalizio artistico, quello tra Elvira Frosini e Daniele Timpano, che ci fa tornare alla mente le parole di Gibran allorquando paragonava gli elementi di una coppia alle corde di un liuto, ciascuna unica benché entrambe vibranti di musica eguale. E vibrano insieme, Daniele ed Elvira, portando in scena i propri nomi, proiettandoli in quest’universo intriso di contraddizioni chiamato coppia, così come si è venuto componendo impregnandosi di stereotipi divenuti predominanti.
E così, se la figura materna diviene l’archetipo proiettivo dell’immaginario maschile, la donna a sua volta appare come il sottoprodotto romantico della cattiva letteratura. Nel focus binoculare che s’instaura sulla scena, i due ruoli a complemento veicolano il susseguirsi di decaloghi e canzonette: il viaggio intorno all’universo della coppia, a bordo di un’Enterprise targata Frosini/Timpano si colora del bianco e  del rosso dei loro abiti, viene filtrato dalla visione distorta dei loro occhialoni a forma di cuore, si anima dei loro movimenti corporei che sembrano rispondere alla logica di un’armonia meccanica (il loro modo di muoversi in palco è sincronico come un orologio), e viene illustrato da immagini rapide e taglienti, come quella che vede lui tenere in braccio lei come si fa con una sposa, traducendo il matrimonio, con la sua ipocrisia dichiarata del “per tutta la vita” nella coreografia di uno sforzo.
Sono gli aspetti deteriori della vita a due ad occupare la scena, a vivere nella dualità di un palco diviso a metà, occupato da ciascuno nel combattere una logorante guerra di posizione (quella dei sessi), tra maschilismo estremo e simbologie grottesche: un piccolo dinosauro in centro di proscenio, illuminato da un fascio di luce rossa, è il simbolo di un possesso morale e fittizio attorno a cui si consuma l’ennesimo scontro per la primazia, il parto degenere di un amore malato e che, nondimeno, un domani potrà perfino uccidere chi gli ha dato la vita, mentre una bambola gonfiabile, altra compagna di scena dei due, diventa l’emblema della trasformazione dell’eros in stanchezza prima ed in violenza poi, scalciata violentemente da lui mentre lei, già non più creatura erotica, giace in terra derelitta. L’amore consuma, deperisce, finisce; finisce anche male, se la sua consunzione avviene all’ombra di una società che consuma, fagocita, mastica e infine sputa.
L’istantanea di un universo non resta circoscritta ad un esercizio da ribalta; è invece volontà di offrirsi alla platea come uno specchio, tant’è che Elvira scende di palco e, microfono alla mano, intervista la platea, mostrando la replicabilità speculare degli interrogativi irrisolti che sottendono alla messinscena, perché se loro dichiarano di “fare l’amore in playback” (metafora evidente della non sostanzialità dei rapporti), dall’altra parte non è affatto detto che si viva l’amore come il bello della diretta; anzi, col loro coacervo di luoghi comuni, stereotipi misogini e cliché declinati secondo quel gusto del grottesco che costituisce la cifra espressiva della loro arte scenica, Elvira e Daniele raccontano come ormai la soglia della pornografia si sia spostata su una linea altra rispetto a quella del pudore e della morale, toccando altresì  ambiti differenti, che sono quelli di una difficoltà relazionale che si traduce in una sostanziale solitudine monadica, che vede uomo e donna triturati in un frullatore di impulsi che li rendono meno capaci di instaurare una relazione orizzontale.
Colpisce – e non è la prima volta – come il duo Frosini/Timpano sappia congegnare drammaturgie compiute coniugando lo spessore dei contenuti con una forma capace di divertire senza strizzatine d’occhio complici ma puntando su un'ironia intelligente e funzionale; dimostrano Daniele Timpano ed Elvira Frosini, che si può fare buon teatro contemporaneo essendo ad un tempo leggeri e densi, senza furbizie e compiacenze.
Alla fine, l’applauso s’accompagna al sorriso.

 

 

 

 

Sì l’Ammore no
drammaturgia e regia Daniele Timpano, Elvira Frosini
assistenza alla regia Alessandra Di Lernia
disegno luci Dario Aggioli
registrazione audio Marco Fumarola, Dario Aggioli, Lorenzo Letizia
produzione Kataklisma, amnesiA vivacE
coproduzione Arti Vive Festival
in collaborazione con Centro di Documentazione Teatro Civile, Armunia, Consorzio Ubusettete
progetto grafico Stefano Cenci
foto di scena Ulisse & Cannone, Jacopo Quaranta, Andrea Chesi
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Sala Ichòs, 29 marzo 2015
in scena dal 27 al 29 marzo 2015

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