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Friday, 03 April 2015 00:00

Identità (superficiali)

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" Chi sei tu?"
"E questo chi è?"
"Chi sei tu? Di cosa vivi?"
"Ehi tu, lassù, chi sei?"
"Sono io, mi ricordi?".
Il tossico pestato dai poliziotti e il bambino che interroga gli animali (uno scarabeo, un verme, un topo); un uomo che ha perso la propria carta d’identità e una donna che sta per essere uccisa dal marito; l’amico che racconta l’amico, interrogandosi su chi sia diventato, e Baliani che dice di Baliani. Ancora: un bambino ebreo e la sua fuga dalla storia di famiglia, in pieno nazismo; il giovane kamikaze, che si prepara specchiandosi, prima di ridursi in poltiglia; l’Io frantumato nei suoi molti; un rospo e una fanciulla, alle prese col bacio e con una trasformazione che non avviene.

Marco Baliani e Maria Maglietta fanno bazar teatrale di esistenze reali e irreali, possibili, probabili, verosimili o fantastiche per dire del tema identitario, dell’affermazione di sé e della conoscenza dell’altro. Pulviscolare partitura veloce – fatta di quadri posti in sequenza e che hanno una durata variabile ma comunque da calcolare in alcuni minuti – compongono uno spettacolo che cerca, mutando costantemente soggetto/oggetto della narrazione, di rendere la confusa e plurima urbanità contemporanea, fatta di uomini e donne che quotidianamente convivono, si sfiorano, qualche volta si osservano arrivando anche a parlarsi ma senza riconoscersi reciprocamente.
Identità è dunque un crogiuolo di storie, una sorta di carrellata d’apparizioni momentanee affidata alle voci narranti, ad una mimica per accenni (un braccio levato, una mano aperta, il volto reclinato lateralmente), a qualche effetto sonoro oltrepalco e all’assenza voluta di scenografia. In uno spazio vuoto e scuro stanno – di nero vestiti perché abbiano meno carnalità possibile, così da esaltare solo e soltanto l’oralità dell’offerta – Marco Baliani e Maria Maglietta: si alternano, si osservano, si danno il cambio sfiorandosi, prendendo il posto l’uno dell’altra e viceversa: si tratta dell’unico moto condiviso riscontrabile in uno spettacolo che, per il resto, propone il confronto/contrasto tra l’attore/attrice e il faro in ribalta, perché sul fondo si generi l’ombra. L’ombra, ecco la vera protagonista di quest’opera: la sagoma buia che si forma nei riquadri di luce e che diventa l’emblema di chi non ha dignità, tratti distinguibili, possibilità di affermazione personale. Ombre erano gli italiani all’estero, nel primo Novecento, e ombre sono gli immigrati dei centri di detenzione, ombre sono i morti seppelliti nel mare, ombre sono i lavoranti dal volto diverso – ai nostri occhi indistinguibili gli uni dagli altri – che affollano i dormitori di periferia; ombre sono i derelitti che abitano i parchi nelle ore notturne o che trascorrono il giorno seduti di sbieco, su una panchina, a parlare da soli; sono ombre le donne che subiscono violenza dal proprio compagno, tra la cucina e il corridoio, cercando di non urlare perché la vicina non senta ma sono ombre – agli occhi curiosi di un bambino – le scoperte progressive che compie; sono ombre gli amici perduti e ritrovati su una foto, scattata a chissà quanti anni di distanza; sono ombre i martiri-assassini, in tutto e per tutto identici alle vittime del loro stesso martirio. Di questo vuol fare narrazione Baliani, in compagnia della Maglietta, ma di questo invece Baliani e Maglietta fanno puro sfoggio, resa superficiale, campionario. Questo perché Identità – per la sua stessa natura frammentaria e per una resa argomentativa tutt'altro che originale – non approfondisce il tema ma lo diversifica soltanto, generando un’ordinata giostra girevole di micro-vicende che nulla aggiungono in più a ciò che già abbiamo letto, ascoltato o saputo.


Intendiamoci, c’è qualità letteraria nei testi di partenza (“La luce gialla dell’ultimo sole illuminava i campi”); c’è questa cronometria risicata per cui ogni singola figura-racconto appare e scompare celermente e che è un rimando, forse, alla provvisorietà dell’incontro superficiale, istantaneo, che avviene di sfuggita; c’è mestiere nel calibrare in scena il ritmo verbale (tra narrazione piana, sospensioni e accelerazioni sul finale) e c’è un’indubbia bravura di partenza, una bravura fatta d’esperienza nel reggere il palco pur avendo poco o nulla da dire giacché questo è il vero problema di Identità: che non dice nulla che non sia stato già detto e in forma migliore da altri. Articolando il proprio discorso con il montaggio di discorsi molteplici Identità fa dunque cronaca (“Il Secco aveva portato a pisciare il cane”, a “un orario un po’ del cazzo” quando giungono i poliziotti, stanchi di “spalare merda in posti in cui tutti cagano fuori”) ma senza avere la forza partecipativa e coinvolgente della cronaca; fa metafora favolistica senza rendere la complessità dei significati della favola; fa rimando al terrorismo frammentario e individualizzato dei nostri tempi non riuscendo a dire nulla di chi il terrorismo lo alimenta, né di chi lo realizza o di chi lo subisce; quando poi Identità dice dei migranti di oggi (le donne ucraine o russe o polacche che si ritrovano, la domenica, alla stazione o in una piazza) dicendo dei migranti di ieri (gli italiani ladri, pericolosi, che si ammassano in periferia, che si moltiplicano come topi, dispensando odori malevoli, gli italiani che fanno la questua, chiedono l’elemosina, che suonano la fisarmonica, che lavorano per pochi spiccioli – citando un documento dell’Ispettorato dell’immigrazione del Congresso Americano del 1912) è come se mi trovassi al cospetto di una pagina de L’orda di Gian Antonio Stella; quando dispensa parole sulla “folla di persone che Io sono stato”, sulla “molteplicità dell’Io” per cui “non c’è nessun Io” e piuttosto “dovremmo dire Noi” il pensiero va immediatamente a Svevo e Pirandello, ad uno qualunque dei fantasmi identitari di Tabucchi, ad uno qualsiasi degli eteronomi di Fernando Pessoa; quando infine Baliani ricorda che siamo abitati da batteri minuscoli, che siamo una congregazione d’esseri invisibili, che milioni di frammentucoli viventi ci abbraccia, che siamo ben altro che una distinta singolarità netta, distinguibile nella sua liscia unità non scalfibile, penso a quando ho letto le stesse cose – ma con ben altra qualità narrativa – in Gadda o, per rimanere al contemporaneo, ne La vita in tempo di pace di Permunian: “Il parassitismo è vita che abita altra vita, è la modalità maggioritaria con cui si manifesta la bio-sfera, eppure la più segreta ai nostri occhi” scrive Permunian, prima di rendere i “milioni, miliardi di parassiti di ogni genere e specie, di ogni insidiosità e capacità patogena” che conducono l’esistenza aggrappandosi a noi.
Identità è, dunque, uno spettacolo non nuovo per argomento, non nuovo per il modo in cui questo argomento è di volta in volta declinato testualmente, non nuovo nella forma teatrale (insieme di isolamento e montaggio, singolarizzazione monologante, verbalità diretta alla platea) e – non a caso – genera un improvviso e sincero applauso del pubblico, che così interrompe per un attimo l’andare della messinscena, solo quando Baliani racconta di sé, quando dice di Zagarolo, di Acilia, di Ostia o di Roma, della madre che impara a cucinare con l’olio (“aveva sempre cucinato col burro”), dei “ragazzetti” con cui si azzuffava e delle “pischelle”, cui cercava di vedere sotto la gonna; quando dice del “senso di onestà e di risparmio” dei suoi genitori, avvertibile nella loro stessa magrezza; quando dice della “gente sradicata, che faticava a sentirsi italiana” e che è la gente con la quale è cresciuto; quando ancora dice del “tradimento di un amico o della ragazza, che ha preferito uno più grande”. Ecco il Baliani che commuove, così permettendo al suo fiato di farsi davvero strumento di condivisione, di contatto e di vicinanza. Ma tutto questo dura troppo poco, giusto il tempo per ammirare un uomo che parla di uomo e della sua storia: poi Identità torna ad essere giostra di figure sbiadite, offerta di sagome in controluce, volteggio di singolarità puramente accennate. È così che lo spettacolo, dal suo inizio, giunge alla fine.

 

 

 

 

Identità
di e con Marco Baliani e Maria Maglietta
regia Marco Baliani
aiuto regia Barbara Roganti
disegno luci Emiliano Curà
fonica e luci Dario Alberici
consulenza musicale Mirto Baliani
consulenza scientifica Enrico Febbo
produzione Casa degli Alfieri
con il sostegno di Teatro delle Briciole
lingua italiano, dialetto romano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Nuovo, 29 marzo 2015
in scena 28 e 29 marzo 2015

 

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