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Thursday, 02 April 2015 00:00

"Orchidee": Sensazioni di una spettatrice del turno A

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Introdurre esaustivamente la versatilità da 'uomo del rinascimento' di Pippo Delbono sarebbe un'impresa troppo lunga – per chi scrive – e tediosa – per chi legge – pertanto mi limiterò a rammentare che ci troviamo di fronte ad un artista che draga orizzontalmente, ma anche verticalmente e diagonalmente – insomma da ogni prospettiva – cinema, teatro, danza, sperimentazione musicale, poesia e giornalismo (non ho approfondito su eventuali esperienze pittoriche ma non mi stupirei se anche lì avesse lasciato una sua impronta avanguardista).

Mi dichiaro da subito una sua fanatica ammiratrice, pertanto, dato che ciò che ne seguirà non potrà in alcun modo essere epurato da una visione fortemente soggettiva e condizionata, preferisco non tentare nemmeno di contrastare questa parzialità, lasciandola invece fluire anomicamente nelle sensazioni più intime e personali. Queste sono, quindi, le impressioni di una spettatrice – assidua – da turno A, e non quelle di un critico – il discorso sul turno A è un po' lungo ma basti sapere che da quando ho scoperto la leggera antipatia di Delbono per gli abbonati della domenica pomeriggio mi prenoto – molto vigliaccamente – sempre per quel giorno, per due valide ragioni: non perdermi le oblique e poco sottili stoccate con cui non manca mai di infilzare le povere vecchine impellicciate, e schermirmi io stessa con le loro pellicce raccontandomi che qualunque atrocità lui possa tirare fuori dal cilindro, si sta rivolgendo agli abbonati, mica a me.
Da quando ho iniziato a guardare, leggere e seguire Pippo Delbono, è cambiata radicalmente la mia idea di 'artista' del cuore. Un tempo avevo una visione holdeniana di questa figura. Gli autori preferiti erano sempre quei rari personaggi con i quali avrei tanto voluto stringere un'amicizia tale da consentirmi di chiamarli al telefono tutte le volte che volevo. Poi è arrivato Delbono e questa equivalenza empatica tra l'opera e l'autore è crollata. Nel senso che sebbene non possa più smettere inseguire le sue metamorfosi, lo faccio sempre da lontano – anche nelle intenzioni – perché la voglia di stingere amicizie 'per la pelle' non ha ancora superato il timore reverenziale per la sua umanità. Non è del tutto chiara la ragione, voglio dire, umanamente è una delle persone più prossime alla santità francescana che camminino su questa terra, la storia di Bobò potrebbe benissimo essere il capitolo più toccante della vita di un santo e il rapporto con l'ex brigatista Giovanni Senzani ha un qualcosa di indiscutibilmente messianico.
La risposta però penso di averla trovata nelle parole di David Foster Wallace a proposito di David Lynch. Wallace, da anni fanatico ammiratore di Lynch, per alcuni giorni era stato ammesso al blindatissimo set di un suo film al fine di scriverne un saggio, e alla domanda "com'è davvero David Lynch?" risponse: "Non ne ho la più pallida idea. Raramente sono arrivato a meno di mezzo metro da lui, e non gli ho mai parlato", e questo non perché il regista si fosse sottratto a Wallace ma perché Wallace aveva voluto sottrarsi al regista: "Non vedevo il motivo di cercare di intervistare Lynch" – ribadisco, era lì per scrivere un saggio su di lui. Ma poi arriva al dunque, il fatto è – dice – che i film di Lynch sono incontestabilmente inquietanti, e ciò che li rende tali è "che sembrano così personali. Una maniera gentile di metterla è, che Lynch sembra una di quelle persone che hanno un'insolita facoltà di accesso al proprio inconscio". In conclusione è proprio quest'intimità psicologica che rende difficile separare quello che provi per i lavori (inquietudine) da quello che provi per l'autore (inquietudine).
Le opere di Delbono, soprattuto a teatro, sono prive di quella membrana dermica che separa ciò che è dentro da ciò che sta fuori, tutto accade con una liquidità invasiva, e lo spettatore – anche quello rannicchiato nella poltrona dell'ultima fila – non può sottrarsi a quell'incontinente materia cerebrale ed emotiva. Josette Féral lo ha definito "teatro performativo", quello che attraverso la performance raggiunge il risultato di agire, influenzare e soprattuto colpire il pubblico, e in effetti si tratta di un teatro altamente performativo – anche dal punto di vista dello spettatore – nel senso che si entra in un modo e si esce solo dopo aver raccolto quel che resta degli organi interni duramente colpiti. Il suo è uno sguardo chirurgico e profondo, una lama incandescente che attraversa senza sforzo una burrosa apparenza per arrivare dritto ad una realtà spesso insopportabile "... nel mio paese di merda. Volgare, fascista, razzista. Mascherato da finto  cattolicesimo, finto comunismo, finto pietismo" (Il funerale di Abba, in Dopo la battaglia. Scritti poetico-politici). La sua rabbia urlante – parecchio urlante – è costantemente impegnata a smascherare e mostrare verità deformi e malate; in Barboni' c'è una frase di Aspettando Godot che dice "la gente se la prende con le scarpe, ma il problema è il piede". È questo che fa Delbono, a lui non interessa la scarpa ma il piede, e a quello ci induce a guardare, e un piede deforme è molto più inquietante di una scarpa difettosa. In questo senso il suo teatro può definirsi 'politico', nell'accezione più nobile del termine; Delbono è consapevole che in questo momento di "pace morta" il teatro stia vivendo anch'esso uno stato di morte "perché ha perso il coraggio di porsi in antitesi al potere politico, economico, televisivo, commerciale. Perché non ci parla più con forza del tempo presente. Perché arriva alle solite famiglie culturali. Perché è diventato intrattenimento anche quando non è solo divertente ma serio, impegnato" (Un teatro di resistenza); e la sua politica è quella di sovvertire questo stato di serena morte apparente andando – costantemente – in direzione contraria, 'Contro' tutto, e 'Contro' la menzogna come prima cosa. È un teatro che demolisce le certezze e si rivolge ad un pubblico ideale che non cerca conferme ma al contrario chiede di essere 'messo in crisi' seguendo il suo sguardo in quei luoghi paludosi e stagnanti che spesso alloggiano all'interno – all'interno di noi – luoghi inquietanti.
Nel ricostruite la giornata degli operai della ThyssenKrupp ci lascia davanti a quei corpi bruciati senza vita, consegnandoci una verità che avevamo scordato o che non avevamo mai nemmeno tanto preso in considerazione, con un monito inespresso ma inequivocabile – ce la consegna per farne ciò che crediamo – ma come è stato già detto: "La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te" (David Foster Wallace).

Lo spettacolo
Orchidee è un titolo dalle odorose e variopinte risonanze floreali che staglia nell'omogeneità del bouquet dei titoli scelti in passato dal regista come una premonizione di novità. L'orchidea è un fiore bellissimo e malvagio che concilia in sé il bene e il male "perché non riconosci quello che è vero da quello che è finto", e Orchidee sono i tempi in cui viviamo dove non è possibile discernere il vero dal falso. Uno spettacolo che racchiude le antinomie disseminate in un mondo indecifrabile ordito dall'uomo e per questo sempre più alieno, recuperandone i vasti frammenti di colori, suoni e sensazioni tattili. L'apertura all'universale inizia con un dolore personale: il vuoto lasciato dalla madre, i ricordi di una vita e un senso di abbandono che tenta di ritrovare quell'amore nell'essenza dell'universo. Dalla faretra estrae i testi da lui rielaborati ed interpretati: Kerouac, i Deep Purple, Avitabile, Shakespeare, Čechov, Sant'Agostino, da essi attinge i tasselli di un puzzle che, attraverso interventi 'performativi', riescono a ri-crearne un qualcosa di completamente diverso. Un'opera di atomizzazione e di isolamento degli elementi utilizzati, al termine della quale non sono gli elementi a determinare l'insieme ma l'inverso. George Perec diceva a proposito dell'arte del puzzle: "La conoscenza del tutto e delle sue leggi, dell'insieme e della sua struttura, non è deducibile dalla conoscenza delle singole parti che lo compongono"; e le difficoltà che hanno preceduto l'accostamento e l'incastro – al termine – svaniscono del tutto lasciando solo la levigata evidenza di una nuova, altissima, bellezza. L'alchimia di Delbono è accostabile ad un parto complesso e travagliato, dove le fasi che si presentano in successione in tutta la loro individuale crucialità nell'attimo stesso in cui sono portate a termine perdono quell'individualità che le aveva caratterizzate poc'anzi per prendere il proprio posto in quell'insieme miracoloso dell'atto generatore. Il critico tornando indietro potrà tentare di isolare i singoli frammenti, individuare un Romeo e Giulietta, un Amleto, una poesia di Pasolini o un pezzo di Čechov, ma gli sarà davvero difficile restituire il miracolo di quell'insieme, dato che è proprio la forza di quell'entropia turbinosa prevista, voluta e premeditata, a restare nei luoghi dell'anima dove non ha accesso la parola.
E poi c'è la dimensione corporea – anche quella non ricostruibile attraverso la parola – la muta eloquenza dei corpi, veri e innocenti come prima della cacciata dal paradiso, corpi che trascendono il comune concetto di bellezza e che danzano – senza darlo a vedere – e sono agili come gatti – senza darlo a vedere – e sono bellissimi – senza darlo a vedere. Ogni gesto sembra sempre inconsapevole e frutto di una grazia naturale, giureresti che tanta disinvoltura non possa essere studiata né tanto meno replicata, e questo fa sentire lo spettatore testimone di un qualcosa di unico e destinato a svanire con la fine di quella rappresentazione.
Delbono assedia il teatro con la sua voce e la sua corporalità, draga la platea col suo sguardo implacabile che raggiunge gli spazi più remoti, perquisisce i corridoi laterali, sente il polso del pubblico e ne fiuta la paura, a volte incalza, altre volte – consapevole della potenza dirompente – rallenta il passo, dolcemente, per far riprendere fiato – a noi – e come un padre compassionevole racconta che è successo a tutti, non siamo i primi a provare quello che stiamo provando, altri spettatori, altri teatri, hanno vissuto la stessa esperienza e sono sopravvissuti; quindi, riprende a passo marziale.
Tutto si sovrappone in modo turbinoso, la narrazione alla musica – e viceversa – i corpi alle immagini – e viceversa – è l'incontro di quattro fiumi che rinunciano alla propria individualità per andare nella medesima direzione moltiplicando le loro forze.
Quando tutto termina si ha la sensazione di aver assistito ad una ierofania; ci vuole qualche giorno per metabolizzare e rimettersi in sesto; il tempo di un'influenza stagionale, passata la quale però potreste anche cominciare a sentirvi delle persone migliori.

 

 

 

Orchidee
di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
immagini e film Pippo Delbono
luci Robert John Resteghini
musiche Enzo Avitabile, Deep Purple, Miles Davis, Philip Glass, Victor Démé, Joan Baez, Nino Rota, Angélique Ionatos, Wim Mertens, Pietro Mascagni
direzione tecnica Fabio Sajiz
suono Matteo Ciardi
luci e video Orlando Bolognesi
elaborazione costumi Elena Giampaoli
foto di scena Karine de Villers, Mario Brenta
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Nuova Scena, Arena del Sole – Teatro Stabile di Bologna, Théâtre du Rond Point –  Parigi, Maison de la Culture d’Amiens – Centre de Création et de Production
lingua italiano
durata 1h 55’
Napoli, Teatro Bellini, 29 marzo 2015
in scena dal 24 al 29 marzo 2015

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