“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 31 March 2015 00:00

"Troiane": la lezione di Euripide

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Le Troiane ha inizio quando tutto è finito. Troia, la grande capitale dell'Asia, è caduta preconizzando l'archetipo della distruzione e della caduta di un regno. In questo scenario di macerie e morte Euripide si ferma/sofferma sul destino dei vinti per edificare su quelle macerie ancora fumanti il dramma della stasi e del dolore. Quasi quattrocento anni dopo l'Iliade, il nastro viene riavvolto per fermare l'azione omerica calando la cinepresa tra le pene di un intero popolo sconfitto.

Con questo lavoro teatrale, Roberto Tarasco, si serve del mito per riversarlo su di un presente lontanissimo temporalmente ma vicinissimo spiritualmente. Le Troiane sono una lezione e un monito, Euripide ha voluto mostrare ai suoi contemporanei l'altra faccia della vittoria e come un grande popolo – un popolo vincitore – non dovrebbe mai trattare un nemico sconfitto. Il regista estrapola nuove prospettive dall'archetipo dei manifesti pacifisti e all'aspetto politico/umanitario affianca un inedito contenuto scientifico.
Il dramma, infatti, anticipa di qualche millennio gli studi scientifici sulle categorie comportamentali condotti dal biologo, filosofo ed etologo francese Henri Laborit. Ecuba, Cassandra, Andromaca ed Elena sono cavie d'eccellenza che consentono di esaminare le diverse reazioni al dolore.
Sara Bertelà, in una straordinaria prova d'attrice, si cala nei quattro archetipi femminili intervallando la narrazione del mito a 'lezioni' che consentono di ricavare da esso le quattro categorie fondamentali di Laborit: l'accettazione, la forza, l'inibizione e la fuga.
L'assito è circoscritto e armato, decine di pugnali adagiati su aste di microfoni segnano lo spazio vitale dell'attrice che al centro di essi si trova reclusa. La prima a manifestarsi è Ecuba – la regina di Troia rappresenta l'accettazione – e Sara Bertelà abbandona l'asepsi del preludio per discendere nella prostrata regina che giace come una vela ammainata. La sua voce rassegnata è lievemente cantilenante nella consapevolezza dell'immortalità delle sue parole, l'elenco dei morti e delle perdite affettive le smuove i precordi fino alle lacrime, poi il nome di Elena le sovviene e il suo corpo si anima di furore, l'unica consolazione in cui può ancora sperare è la morte dell'infame spartana – il nemico interno, la serpe in seno, origine e causa di tutti i mali di Troia. Quando Ecuba svanisce torna la Bertelà che attraverso Dante e Verdi parla del tempo assoluto in cui abitano i testi antichi.
Il passaggio da una figura femminile alla successiva è segnalato formalmente da un cambio di acconciatura eseguito sul proscenio – gesto meramente simbolico che viene immediatamente assorbito da una metamorfosi spirituale predominante – e da cambi di musica che accompagnano e seguono il diverso approccio alla malasorte delle quattro donne. Così Cassandra balla e si dimena con gioia folle. È una bambina che non contiene l'impazienza di recarsi in luoghi che promettono un gran divertimento. Cassandra rappresenta la forza, e in realtà l'apparentemente assurda energia vitale è un modo per reagire alla sconfitta mediante una vendetta sacrificale, ha lo stesso sguardo invasato di un kamikaze e la sua è la macabra danza di una sposa ferale: "Scenderò nel regno dei morti da vincitrice!".
Quando la rassegnazione perdura per troppo tempo, l'aprassia motoria e mentale si cristallizza e non c'è più possibilità di ripresa di un'azione. Per Laborit, questi sono gli ingredienti dell'inibizione, e Tarasco, individua questi ingredienti nell'etica inibizione di Andromaca e nella sua inutile virtù.
Andromaca ha il capo coperto e parole che rappresentano un'apologia alla rinuncia, preferisce la morte al dolore che l'aspetta e considera coloro che hanno già abbandonato questa terra dei privilegiati toccati da una sorte migliore della sua. Ambisce ad una morte, ma una morte inutile. Il suo pianto è diverso da quello di Ecuba – il pianto di Sara Bertelà è sempre autentico e munifico di lacrime vere – è un'autocommiserazione di sé stessa in quanto vittima e preda condannata dalla propria dichiarata e universalmente riconosciuta virtù.
Alla sua coperta mestizia si oppone – con un netto contrasto visivo – l'ultima figura femminile esaminata da Euripide: Elena, l'emblema della colpa sul cui capo pende un'inappellabile sentenza di morte, appare come una Marilyn primordiale, bamboleggiante e sospirosa. Per nulla preoccupata del funesto destino che le è stato riservato, la moglie fedifraga al cospetto del legittimo marito pretende di parlare, e grazie alla stessa Ecuba questa preziosa opportunità le viene concessa. In un circoscritto banco degli imputati, sul quale si affacciano già le affilate lame di un patibolo, recita la sua parte determinata a far valere la sua bellezza e le sue ragioni, esattamente in quest'ordine. Ripercorrendo tutte le tappe del mito accusa uomini e dèi, Afrodite innanzitutto: Afrodite, Afrodite, la colpa è di Afrodite, incolpate le Dea, "Processate lei!". Il nome della dea viene evocato subdolamente più volte con inequivocabili gemiti erotici, suoni diretti alle orecchie del marito, inviati come soccorritori al recupero di un ricordo coniugale sommerso ma ancora vivo e pulsante: richiami amorosi ai quali neppure un re tradito può sottrarsi. La spartana ha scelto la strategia della fuga, che Laborit definisce vincente perché su tutte è quella che offre maggiori chance di sopravvivenza.
Terminato il processo e ribaltata nei fatti la sentenza, si torna all'analisi del testo. La struttura viene scomposta nel suo evoluire, e alla fase processuale è attribuito il ruolo di 'rincorsa' che l'autore prende per raggiungere con un balzo emotivo il climax: "Se fosse un contemporaneo avrebbe vinto l'oscar". Con la descrizione del corpicino straziato e senza vita del piccolo Astianatte e l'epitaffio ad eterna memoria coniato dalla nonna, muore la memoria genetica di Ettore e la possibilità per le troiane di esistere.
Finisce così il mito di Troia, la cui immortalità non avrebbe nemmeno bisogno di essere spiegata, ma trattandosi di uno spettacolo/lezione, l'estrapolazione di un'attualità che non cessa di rinnovarsi ad ogni nuovo scenario di guerra e violenza, più che opportuna sembra essere necessaria.
I CIE (centri di identificazione ed espulsione), luoghi di confine e confino tra una patria perduta e una nuova terra ostile sono le nostre spiagge troiane – sospese tra l'attesa e il dolore – dove si replica l'afflato epico. In questa vergognosa attualità le parole di Euripide giungono da lontano superando lo spazio e il tempo offrendosi – innanzi ad un immutato dolore – come modello da riattraversare.

 

 

 

 

Troiane: Istruzioni per l'uso
dalla tragedia di Euripide al laboratorio di Henri Laborit
di Roberto Tarasco
con Sara Bertelà
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Galleria Toledo, 28 marzo 2015
in scena dal 24 al 29 marzo 2015

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