“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 25 March 2015 00:00

Secondo grado di giudizio

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L’ancella, abituata a mantenere le bestie, tiene con tutta la sua forza il possente uomo sdraiato sul suo giaciglio e ormai ubriaco. Giuditta, la padrona, gli taglia la testa stando attenta a non sporcarsi col sangue il bel vestito. Così Artemisia Gentileschi ritrae la storia di Giuditta e Oloferne. Due donne per uccidere un uomo. All’interno della rassegna dedicata alle donne dal Nuovo Teatro Sancarluccio, Artemisia Gentileschi è sotto processo, nello spettacolo di Mirko Di Martino.

Ormai è anziana, sola nella sua casa di Napoli, abbandonata dal marito e dalla figlia. La pittrice romana, tra le prime donne a dedicarsi alla pittura, la prima a lavorare a bottega da un maestro uomo, la prima donna ad essere accettata all’accademia delle arti del disegno di Firenze, ci rende giudici della sua vita, di donna e di pittrice. Un secondo grado di giudizio perché Artemisia ha già subito un processo, da giovane, quando ha accusato il pittore Agostino Tassi di averla stuprata. Ascoltiamo le sue parole pretese a voce alta da un uomo che lei non ricorda di conoscere e che recita in latino le parole del precedente processo, più vecchio di quattrocento anni e già vinto da lei. Ah, la lentezza della giustizia italiana! Artemisia racconta, ci spiega e ci mostra la sua vita attraverso i suoi dipinti. Alcuni sono sistemati sulla scena, a testimonianza delle sue parole. Uno, quello di Giuditta, è coperto per metà e sarà svelato solo in un secondo momento. Parla di se stessa Artemisia e di Agostino che le aveva promesso di sposarla e che dopo una lunga relazione le aveva rivelato di essere già sposato.
Non è una vita ordinaria quella di Artemisia. Figlia di un famoso pittore, Orazio Gentileschi, ha più talento dei fratelli, lavora già da bambina col padre alla bottega. Impara da lui le tecniche e da Caravaggio l’espressione dello spirito attraverso la realtà del corpo. Artemisia difficilmente si lascia imprigionare nella casa del padre come conviene ad una donna. Vuole affrontare il mondo e dipingere. Si ritrae dando il suo corpo alle eroine della Bibbia come Giuditta, Giaele o Susanna. Artemisia sfida il mondo in modo provocatorio. Le sue donne hanno la meglio sugli uomini anche quando, come Susanna, ne sentono addosso il peso. Ogni dipinto di Artemisia ha riferimenti biografici, per questo motivo testimoniano della sua vita.
Lo spettacolo è costruito con continui flash-back. Il magistrato chiede all’anziana Artemisia spiegazioni su certi avvenimenti ed essi si materializzano ad un passo dal tavolino intorno al quale stanno parlando. L’uomo diventa un altro uomo: è il padre Orazio che impone ad Artemisia la compagnia di una donna, Tuzia, e che vuole difendere l’onore della figlia; è Agostino Tassi che si difende dall’accusa gettando la colpa su Artemisia e sul suo atteggiamento libertino e al contempo sul padre che avrebbe voluto fare con la figlia quello che faceva con la moglie. Come i dipinti di Artemisia, l’aspetto visivo della messinscena è realistico. I costumi sono cuciti secondo la moda del tempo e le tele sembrano degli originali. Meno realistico il viaggio sulla linea del tempo e la situazione stessa del giudizio finale, prima dell’esalazione dell’ultimo respiro. Gli attori, bravi a cambiare le intenzioni, passando da un personaggio all’altro lui e dall’età giovane alla maturità lei, non terminano la rappresentazione senza sbavature: un incidente con le tele in scena, qualche parola che inciampa prima di essere pronunciata. Gli errori rompono il momento magico del rapimento, ricordando a tutti di stare seduti su una poltroncina di una sala teatrale ed è bello ricordarsene solo al momento degli applausi. Per questa Artemisia sono stati tanti, per l’argomento interessante, per il fascino di una donna artista forte quanto le eroine che dipingeva, per l’idea del processo estremo, che chiama in causa ogni spettatore rendendolo giudice.
Ancora ci si interroga sulla verità di quel processo, anche se il Tassi fu condannato e Artemisia Gentileschi acconsentì a confermare le proprie accuse sotto tortura, mediante lo schiacciamento dei pollici. Qualcuno ancora si chiede cosa significasse lo stupro nel Seicento, poiché era indicato come stupro anche l’avere una relazione con una donna senza poi sposarla. Ci si chiede se  una donna avrebbe mai potuto portare avanti una relazione con un uomo che le avesse fatto violenza. Mirko Di Martino ci offre entrambi i punti di vista e nello spettacolo si fa in modo di analizzare i dipinti sia con la prospettiva di una donna che si difende dalle violenze subite sia con quella della donna che risana la propria onorabilità e si vendica dell’uomo che prima l’ha corteggiata e poi non l’ha voluta né potuta sposare. In ogni caso, io sto con Artemisia.

 

 

 

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Artemisia
drammaturgia e regia Mirko Di Martino
con Titti Nuzzolese, Antonio D’Avino
costumi Annalisa Ciaramella
aiuto regia Laura Cuomo
produzione Teatro dell'Osso
Napoli, Nuovo Teatro Sancarluccio, 21 marzo 2015
in scena 21 e 22 marzo 2015

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