“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 13 March 2015 00:00

Sperma e pittura

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Piscio e sperma.
Lenzuola sporche.
Dita nei bicchieri altrui.
Mani che lavano umori dalle coperte dove altri si sono amati.
È una vita da eterna spettatrice, quella di Séraphine de Senlis, persino quando il ruolo da protagonista sarebbe dovuto spettare a lei.

Nata povera da genitori poveri, potrebbe essere definita l'idiot savant della pittura naïve della prima metà del secolo scorso. Scoperta casualmente dal collezionista e critico Wilhelm Uhde, questi prova un interesse ossessivo per la donna umile e di poche parole, gretta e sporca che gli prepara il the e gli lava la biancheria. Non per lei, sia chiaro, ma per i suoi dipinti, la cui cera viene depositata su umili pannelli di legno.
A raccontare la storia di questa insolita artista, anima innocente emersa tra le scapole da donnone, tratto pieno, mosso da mani spaccate e sporche delle vite d'altri, è la pellicola di Martin Provost Séraphine, che tenta di scrostare via la ruggine dal cimelio di guerra che è la memoria dell'esistenza di questa donna.
Sì, perché Séraphine è esistita. Di nascosto, in una piccola stanza in affitto dove ammucchiava tele e preghiere. Dove gli occhi venivano crocifissi ogni giorno all'immagine votiva della Vergine, accarezzata con cupido amore nella chiesetta di Senlis, quando terminava di mendicare lavori.
La pellicola di Provost ha uno strano incedere, dove il tempo sembra fluttuare, inchiodato ad una vita che ha ali per decollare, ma le tiene chiuse bene nelle pieghe delle scapole. Il tempo che non decolla diventa, nel tempo del racconto, riempito della frenesia dei gesti. Del grande silenzio che accompagna le giornate di una donna nata povera e morta povera, che ha pulito lenzuola e latrine per pochi centesimi e ha speso tutti i suoi pochi averi per acquistare vernici.
C'è una grande dicotomia cromatica che separa, divide gli spazi, quelli del cuore da quelli del macinacaffè dei giorni. Colori scuri per disegnare spazi più o meno angusti, tinte smorte, grigie per accompagnare una routine che fa degli esseri umani formiche impazzite, che lavorano per quei pochi che hanno il lusso di poter spendere il proprio tempo per sé stessi.
Ci si affanna per i ricchi, per i signori, per gli artisti.
Gli scrittori hanno tutto il rispetto della società quando si ritirano in un paese piccolo e lontano da Parigi come Senlis, come il critico Uhde. Tedesco e omosessuale, rifugiatosi in Francia, viene poi costretto dagli orrori della guerra ad espatriare e ad abbandonare il suo "genio", la sua Séraphine dalle magiche dita con le unghie incrostate di cera e lordura.
Colori brillanti fiottano da una mente orfana, dove angeli e madonne hanno posto il loro presidio affettivo – fantasie di un'investitura sacra, perché sono gli angeli a comandarle la pittura, crede. Altrettanto vivide e brillanti le scene in cui vince l'abbandono alla natura: il rapporto di Séraphine con gli alberi, il vento, le foglie e i fiori ruba la sua innocenza allo stupro della realtà cui è ancorata. Quasi non mangia per dipingere. Quasi mendica, conserva avanzi di avanzi per sostentarsi e si addormenta sporca su un pavimento lercio guarnito da tele e moccoli rubati alla Chiesa.
È sola, Séraphine, anche se alcuni cercano di salvarla dal suo isolamento, barriera ed estasi, placenta che non comunica con l'esterno, che impone il nutrimento di chi l'abita, ma la sua morte al di fuori d'essa.
Come oasi.
È in quest'oasi, in questa placenta isolana che invita i vicini, gli increduli, i maligni presso il suo altare, per cambiare qualcosa nei loro sguardi. Una ierofania che spaventa, con candelabri d'argento per cornice. D'argento perché, da povera, il suo angelo dell'abbandono, che le si avvicina, si accanisce, le promette per poi lasciarla – pur non volendo – di nuovo sola, le concede un piccolo vitalizio. Un privilegio da vera artista.
Séraphine delira, si innalza, spinta sempre più nel fondo della sua placenta-guscio, mentre i rami degli alberi che dipinge diventano il cordone ombelicale che – anziché nutrirla – si sposta sul collo come un boa constrictor, per soffocarla.
Isolata, autoemarginata, vive la sua vita invisibile, spendendo in gioielli che non poteva acquistare, contenuti in barattoli anonimi: colori.
Digitalici, affamati, pregni di vita, in attesa di esplodere del loro succo, ondeggiano le propaggini di fusti, pomi, foglie vulnerate che versano linfa ai bordi della tela. I rossi, i blu, i viola, i verdi, ottenuti un tempo da cera liquida rubata alle candele della chiesa, sangue di bue e misture improvvisate diventano i silenti padroni del tuo tempo. Signoreggiano, da un trono metafisico, quello che resta al margine della sua condizione di anfibio costretto all'oceano.
Trova spazio, a cancellare quel sopruso amato, il bianco.
Questo non-colore accompagnerà, dapprima come una preveggenza, poi come un destino, la tela della non-vita di Séraphine.
Nel lungometraggio, Provost lascia che Séraphine si aggiri per le vie di Senlis, di bianco vestita, sposa della sua alienazione, mentre deposita alle porte dei concittadini gli oggetti preziosi che ha accumulato grazie al suo status di "artista".
"Prendetene tutti", mormora, vagando con due fagotti. Rinunciando a cose che aveva ardentemente desiderato per una vita intera, mossa dalla povertà, cui adesso fa ritorno. Bianca, immacolata, vergine nel cuore e nello spirito, si spoglia. Viene fatta spogliare e dona il bianco delle sue vesti alle pareti del nosocomio che le farà da prigione fino agli anni della morte. Lo stesso bianco delle vestaglie, degli abiti delle suore, dei camici dei dottori e, infine, della tela, che non riuscirà più a riempire con l'esondare dei suoi colori.
Un destino, una tela, una storia. Finita nella fossa comune.
Finita, grazie all'ossessione del suo mentore-angelo sfortunato, tra i nomi dei più grandi "Pittori Primitivi" della storia, senza che lei potesse saperlo.
Con un sudario, bianco come il tempo cancellato dalla Storia, che ricopre la bellezza delle sue tele.
Bianco, come i fogli che non sono stati ancora scritti su di lei.

 

 

 

Retrovisioni
Séraphine
regia
Martin Provost
sceneggiatura Marc Abdelnour, Martin Provost
con Yolande Moreau, Ulrich Tukur, Anne Bennent, Geneviève Mnich, Nico Rogner, Adelaide Leroux, Serge Larivière
musiche Michael Galasso
produzione TS Productions, Climax
paese Francia, Belgio
lingua originale francese
colore a colori
anno 2008
durata 125 min.

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