“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 04 March 2015 00:00

Nel ventre cupo di Napoli

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Tra gl’Inferi ed un Empireo di scarto. Napoli ventre putrido, Napoli decrepita e fatiscente, specola atemporale di una degradazione che il terremoto mette a nudo, facendo sortir fuori brulichio di ratti che rappresentano l’erosione costante, il rosicchiare indefesso, delle fondamenta stesse di un esistere liminare; la marginalità che sembra appartenere ad un inconscio collettivo e che, come un gerbillo insinuato nelle viscere, sembra corrodere dall’interno l’anima plurima di una collettività.

A un primo sguardo della struttura muraria che occupa la scena, già ci sembra di riconoscere per analogia – impressione poi corroborata dai fatti di scena – quella Napoli infima dei Granili de La città involontaria, uno dei racconti che compongono Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, e che illustra una umanità strisciante e meschina, fatta di esistenze larvali acquartierate in un loculo d’accatto.
Quel che colpisce in questo Scannasurice, macchina perfetta messa a punto da Carlo Cerciello per una Imma Villa che la conduce come meglio non potrebbe, è che ci siano uno ieri ed un oggi percepibili (il terremoto, che colloca temporalmente i fatti ai primi anni Ottanta e la sua proiezione contemporanea e simbolica nello sfacelo odierno), ma manca un domani; nel cupo dell’ombra che domina, interrotta soltanto da tagli di luce che son lamelle che non fendono mai del tutto il buio, quel che si consuma nel rito sciamanico e affabulatorio di una creatura ambigua e disincantata, è la dissoluzione di un ethos, strappato all’oleografia per essere consegnato alla brutalità essenziale del proprio animo putrescente, al proprio contrasto di luci vivide e vicoli infetti.
Un manufatto in muratura accoglie l’azione scenica di cui è protagonista una figura dal tratto femmineo ma dalla mascolinità insolente e repressa; canotta e mutande la tenuta di scena, una rete a cingerne il capo facendolo pronto al parrucco; la sua voce produce un’ininterrotta giaculatoria, in cui mescola leggenda e realtà, metafore e nude verità. Lo spazio in cui si muove è angusto, compresso, vi è quasi del tutto impossibile rimanere in piedi, fatto com’è da scomparti simili a loculi, cellette d’un macabro alveare in cui la creatura solitaria vive col contorno promiscuo dei surici, con cui manifesta familiarità, dei quali racconta le storie chiamandoli per nome, una bottiglia di vino giostrata a supporto, sorseggiata a conforto, accompagna e scandisce la narrazione di una vicenda trasposta in una sorta di realismo magico partenopeo, in cui il terremoto fa da riferimento temporale, ma che l’apparato metaforico traspone in una dimensione atemporale. Munacielli e Belle ‘mbriane sono i retaggi di una tradizione ancestrale, Corradino di Svevia e Luisa Sanfelice gli spettri evocati di una storia truce e remota, i surici sono il presente – astorico, atemporale, ma proprio per questo calzante ad uno ieri come ad un oggi – rappresentando il simbolo di un degrado, di una consunzione in atto, macerie in continua dissoluzione di un contesto che sembra aver espulso la speranza. Anche quando la creatura in scena si trasfigura nell’immagine votiva che evoca una madonna, incorniciata da una corona di lucine e fasciata fa un velo azzurrognolo, non riesce a far altro che auspicare uno sterminio a base di curaro, da inoculare nella cisterna dell’acqua; non c’è altro rimedio, non si preconizza altra soluzione, il male prevarica, i surici imperversano.
La scena è una successione di penombre intervallate dal buio, una discesa agli Inferi, nei precordi oscuri di una Napoli fosca, lurida, abitata da surici che pullulano come api in un alveare.
Sacerdotessa di un macabro rituale, Imma Villa dà corpo, voce ed anima ad un femmeniello che si fa portavoce di tutto l’amaro disincanto di una fotografia verista; l’impianto teatrale per voce sola esalta la presenza scenica dell’attrice, che modula in un ininterrotto flusso la propria voce, variandone agilmente i registri, conducendo dall’inizio alla fine il proprio racconto come un’incantatrice (di surici, di uomini), che colpisce per la capacità di dominare la scena e trasmettere l’apnea del racconto, che diviene l’apnea dell’ascolto: si sta col fiato sospeso, in una tensione drammaturgica che non conosce stasi, che non si concede pause se non gli stacchi di buio da un quadro all’altro, fino all’esiziale epilogo, che uccide la speranza dopo averla svestita.
Se per analogia evocativa all’inizio avevamo citato un racconto della Ortese, altrettanto ci piace accostare l’epilogo disperato ad una condizione metaforica che la stessa Ortese aveva raccontato: dalla Ortese alla Ortese, come in un altro luogo di quello stesso spazio testuale che è Il mare non bagna Napoli, Anna Maria Ortese si domandava – ne Il silenzio della ragione – con un atto d’accusa ed una sommessa, pacata ma ferma invettiva cosa avesse reso muta la “ragione”, cosa avesse infiacchito la vis pugnandi di una classe intellettuale – quella napoletana degli anni Cinquanta – così, trent’anni dopo – e trent’anni dopo ancora, parametrandolo sull’oggi – sembra che la scrittura di Moscato riviva in tutta la sua potenza espressiva conferitale dalla regia di Cerciello e dalla intensità viscerale di una Imma Villa pressoché perfetta, richiamando al sonnecchiare di un’intellighenzia che è testimonio se non muto quantomeno arrochito, se non indifferente quantomeno distratto, di uno sfacelo che viene da lontano, che non conosce argini ma sempre e solo aggiunte successive.
Scannasurice, nella messinscena di Carlo Cerciello, è un afflato civile ed un anelito disperato, è l’amaro disincanto che il teatro mostra verso la realtà, nell’inesausto tentativo di lanciare un messaggio che si faccia ascoltare, un urlo che squarci la tenebra di questo sonno acquiescente in cui pare si sia sprofondati. Concludiamo, ancora con le parole della Ortese, che ci paiono così congrue a quelle di Enzo Moscato: “Pecché nun fa juorno? Che vo’ di’ sta nuttata?”.

 

 

 

 

 

Scannasurice
di Enzo Moscato
regia Carlo Cerciello
con Imma Villa
aiuto regia Aniello Mallardo
assistenti regia Tonia Persico, Serena Mazzei
scene Roberto Crea
disegno luci Cesare Accetta
suono Hubert Westkemper
musiche originali Paolo Coletta
tecnico luci Fabio Faliero
tecnico audio Jack Hakim
costumi Daniela Ciancio
direttore tecnico Marco Perrella
foto di scena Andrea Falasconi, Costantino Mauro
lingua italiano, dialetto napoletano
durata 1h 10'
Mercogliano (AV), Teatro 99 posti, 28 febbraio 2015
in scena 28 febbraio e 1°marzo 2015

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