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Tuesday, 24 February 2015 00:00

Note sparse su "Furie de Sanghe"

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Una donna viene afferrata, piegata, chiusa in un sacco e trascinata in una casa. Il sacco viene aperto e la donna viene spinta, toccata, tastata, interrogata, minacciata e perquisita. Viene unita in matrimonio allo scemo di famiglia. Questa donna viene accusata di ciò che non ha commesso, viene trattata come un fastidio esterno, viene guardata come una tentazione straniera, questa donna subisce un abuso. Eppure questa donna non fugge, non si sottrae, non apre la porta e corre lontano. Questa donna rimane, indossa una veste, accudisce, s’affatica, lava per terra e, quando elabora i propri pensieri, non prende in considerazione l’evasione dal carcere a cui è stata costretta. Mi hanno presa, pizzicata, afferrata, mi hanno acchiappata dice di sé come direbbe di sé chi viene spinto in una cella ma – dalla cella – la donna non si sottrae, non si allontana.

Furie de Sanghe è la rappresentazione di chi nasce, cresce e s’adagia al contesto; di chi tocca, respira, subisce il degrado divenendone parte; di chi è consapevole della propria condizione terribile ma non fa o non riesce o non vuole fare nulla per evitarla, accettandola come si accetta un destino, uno schiaffo, una punizione: giusta o ingiusta che sia. Furie de Sanghe mette in scena l’ammuffimento progressivo di una persona, la sua mancanza di prospettive ulteriori, l’accettazione quasi naturale di ciò che invece è mostruoso.
La donna – questa giovane che ciancica a bocca aperta la gomma, che indossa scarpe fuxia col tacco e che si lascia toccare in cambio di un anello – s’abitua a tutto: alla bava, ai colpi d'ombrello, a ricevere ordini; al tanfo, al sudore, alla sporcizia; all’insulto, alla paura, alla violenza; s’abitua a ciò che c’è di più lurido rendendolo la propria condizione normale. Espressione di un degrado preesistente, questa donna sprofonda in un degrado ulteriore e pur accorgendosene – provando fastidio o ritegno, timore o spavento – s’adegua, si rintana, si adagia. Questa è casa mia, dice, sancendo così l’inevitabilità della propria situazione.
Non è un caso che – in quest’interno immarcito in cui lo zio passa le giornate seduto alla sedia, col telecomando in mano, mentre il nipote spreca la sua paghetta in gratta-e-vinci perdenti – la zia accudisca un capitone come fosse un animale domestico. Il capitone infatti, esemplare femminile dell’anguilla, nasce in acque dolci ma cresce nelle acque salmastre e salate, striscia tra le zolle umide come fosse un serpente, ha il sangue infetto e una capacità di adattamento notevole. Il capitone è la metafora di questa donna che è presa dalle proprie acque e portata in questa vasca/dimora in cui è costretta a muoversi, a girare in tondo, a restare esattamente come capita a questo pesce che dovrebbe essere in mare aperto e che invece, in Furie de Sanghe, si trova tra quattro pareti di vetro, senza alcuna possibilità di uscita, senza alcuna via di libertà.
Scambiata per bestia all’inizio, quando ancora si trova nel sacco, la donna dunque diventa una bestia davvero: chiusa, recintata, serrata nella gabbia o infossata nella tana: qui s’arrende, si placa e lascia che, giorno dopo giorno, si consumi la sua vita.

Occorre collocarlo Furie de Sanghe poiché lo spettacolo è del 2010 anche se a Napoli appare soltanto adesso. Viene dopo Mangiami l’anima e poi sputala (2007) e Due (2008); viene prima di Have I None (2011), Dura madre (2011) e Lo splendore dei supplizi (2014). Ho visto tutti questi spettacoli fatta eccezione per Dura madre, mai messo in scena in Campania. Provo dunque a relazionare Furie de Sanghe con ciò che ho già recensito e raccontato in passato e compiendo questo lavoro di ricollocazione, ragionandoci adesso che scrivo, giungo all’idea che rappresenti (forse) la tappa decisiva per quello che – negli anni seguenti – Fibre Parallele ha generato.
Mangiami l’anima e poi sputala e Due, infatti, avevano una forma interna, codificata e frontale, prevedevano ancora frammenti di quarta parete e pur giocando o inscenando già con forza eloquente, vivevano dentro il limite del palco, avevano come soglia la ribalta, s’affacciavano per qualche istante alla platea ma come se la platea ancora non vi fosse. Il Cristo di Mangiami l’anima e poi sputala, che interagiva laicamente con la giovane bizzoca pugliese, non andava mai oltre il piccolo assito del Sancarluccio, lì dove lo vidi scendere dalla croce; l’assassina amorevole e folle di Due, i cui pensieri erano scanditi dal gocciolio delle sacche di sangue, era algidamente incastrata nello spazio minuscolo di Sala Ichòs, a me d’avanti, costipata nell’antro in cui immedesimava senza alcuno smascheramento attoriale la propria pazzia.
In Have I None, invece, e ne Lo splendore dei supplizi il teatro veniva dichiarato teatro, principio che ha influenzato la realizzazione artistica complessiva e ha responsabilizzato l’atto pratico della scena: arredando lo spazio coi mobili-giocattolo, truccandosi a vista stando di lato, fingendo il genere sessuale con un paio di baffi finti su labbra di donna (Have I None) o ponendo in rapporto episodi diversi, scambiando il maschile col femminile, inscenando contrasti sociali attraverso vicende apparentemente individuali (Lo splendore dei supplizi), Fibre Parallele ha così dichiarato l’essenza poetica e la funzione politica del proprio teatro, in grado di raccontare gli umori intestini del presente senza necessariamente trascinarne l’aspetto codificato e più facile sul palco, senza cedere al gusto noioso della lezione civile, senza banalizzare la visione attraverso l’illusione realista ma – piuttosto – marcando i segni distintivi della propria presenza: dialetto sporco, offerto senza italianizzazione all’uditorio; caratterizzazione mimica grottesca; gestualità fasulla, vagamente geometrica, innaturale o deforme; denotazione spaziale per accenni ambientali, senza chiusura tra quinte e fondali; abbattimento definitivo della quarta parete; sguardi diretti verso il pubblico; intenzione né catartica né descrittiva nei riguardi degli spettatori ma piuttosto la definizione di un rapporto finalizzato a provocare una consapevolezza urticante, un senso di fastidio cutaneo, che ti formicola sottopelle e che ti porti a casa rimuginandolo nei pensieri.
Have I None e Lo splendore dei supplizi devono almeno in parte a Furie de Sanghe la fattura visiva, gli devono l’epicità della costruzione, gli devono la caratterizzazione non allusiva o verosimile ma calcata, marchiata, eccessiva giacché – in Furie de Sanghe, a differenza dei due lavori che lo precedono (Mangiami l’anima e poi sputala, Due) – interpretazione e straniamento convivono, convivono recita e dichiarazione di recita, basso materialismo ed esagerazione estetica, localismo e universalità.


Guardo ciò che offre il palco nel Nest e mi soffermo sulla tenda semicircolare che dovrebbe fare da casa ma che rimane palesemente una tenda e allora comincio ad annotare gli elementi che denunciano l’assenza di verismo in Furie de Sanghe: il sipario spinto e legato sulla destra; i tre fari che, a sinistra, illuminano la vasca col capitone; la pedana ai piedi della vasca medesima, che sembra definire uno spazio distinto dal resto dello spazio; l’alternanza di bagliori rossi e bianchi, che generano il seguirsi dei giorni; le orecchie finte del nipote; il naso finto della zia; il sesso finto dello zio; gli stracci e i secchi adagiati per terra ed esposti come mezzi di scena; la veste appesa nell’angolo in fondo a sinistra, già lì perché servirà in un preciso momento dello spettacolo; il lamento sonoro oltre palco, che fa da sottofondo continuo alla vicenda.
Questa offerta materiale definisce l’espressione artistica di Furie de Sanghe che, va detto, ha una costruzione per frammenti, per momenti posti in sequenza, per singole scene distaccate che – dopo brevi porzioni di silenzio – prendono vita generando una continuità spezzettata, fatta di stasi e di ripartenze: gli scatti fotografici, compiuti in ribalta, con l’uso del buio; i fari che illuminano la platea, nel corso di un monologo della donna; il gesto che la donna accenna indicando agli altri la presenza di chi osserva; la chiusura del sipario, compiuta rimanendo in bilico tra dentro-e-fuori il personaggio.
Scelto di non imbrogliare lo spettatore, spacciando la finzione per verità, Fibre Parallele rende dunque questa finzione insolita, fastidiosa: ecco la caratterizzazione abietta d’ogni figura perché – ogni figura – risulti ripugnante: gli abiti neri, le mani nodose, il volto adunco della zia; il pantalone sbottonato, la maglietta bucata e macchiata, il ghigno malefico e ritardato del nipote; l’emicrania, la pancia gonfia, il dente marcio, gli occhi sgranati, la saliva cascante dello zio. Si tratta di un voluto processo di ostentazione, di una resa per assurdo, di una cercata realizzazione dell’inquieto perché – chi assiste – non si limiti alla percezione abituale del consueto ma si confronti piuttosto con la perturbazione dovuta all’osceno, sia esso ridicolo o disgustoso.
Fibre Parallele, insomma, fa caricatura del reale perché – per dire del reale – sul palco il reale non basta. Perciò accumula generando disturbo: il capitone da fellatio, la pappa sul mento, uno sputo nell’aria; lo spumante tracannato dalla bottiglia o versato direttamente in gola, la sessualità morbosa, il cumulo di biglietti grattati. È così che abbassando il livello corporeo (offrendo il brutto), ambientale (offrendo il sozzo) e linguistico (offrendo un dialetto incolto, barbarico, onomatopeico più che significante davvero) rende la bassezza antropologica, sociale e culturale di cui facciamo parte tutti quanti, nostro malgrado, consapevoli o meno.

Un’ultima nota da scrivere riguarda questa progressiva centralità acquisita dalla pratica scenica in luogo della testualità. Nato per un progetto chiamato “Esercizi di lingua violenta”, Furie de Sanghe mi fa riflettere sul termine “lingua” e mi fa pensare a quanto i rapporti tradizionali tra drammaturgia, regia e interpretazione − tra parole di partenza e la forma che le parole assumono in palco − stia mutando: pur esistendo una partitura di base, una scrittura cioè riconoscibile nella sua organizzazione affabulatoria, l’impressione che mi dà lo spettacolo è che, sempre di più, ciò che diventa distintivo davvero sia la fattezza assunta dalle immagini, dai personaggi, dai singoli momenti di una scena.
Si tratta perciò di prendere atto che siamo al cospetto di un nuovo codice linguistico con il quale pubblico e critica dovranno sempre più confrontarsi e si tratta di capire che – questo codice linguistico – non è tanto lessicale quanto fisico ed estetico. Così Furie de Sanghe, paradossalmente, potrebbe essere anche uno spettacolo muto, senza una "lingua" parlata eppure forte di una "lingua" dichiarata: ciò che vediamo, infatti, già basterebbe a designarne gli equilibri e i disequilibri tra i personaggi, le assurdità e le sgradevolezze argomentative, i diversi significati dell’opera.
Mostrandosi nel suo aspetto alterato, Furie de Sanghe già parla insomma: parla un alfabeto formato dalla crudeltà dei supplizi, dai gesti morbosi, dalle sopraffazioni corporee; parla un alfabeto formato dalla reiterazione pratica e ossessiva delle fissazioni individuali; parla un alfabeto formato dal modo in cui la zia chiude la mano sinistra, lo zio fa i gargarismi con lo spumante, il nipote si tocca la patta; parla un alfabeto che dice della maniera in cui, questa donna, da estranea diventa familiare e lo dice al pubblico questa stessa donna già solo guardandolo: prima nauseata e implorante; poi spaventata quasi fino alle lacrime; infine docile, umiliata ed arresa.
Così se ne sta seduta in ribalta, simile al capitone che, nel frattempo, s'adagia sul fondo della sua vasca.

 

 

 

 

 

Furie de Sanghe − Emorragia Cerebrale
di Riccardo Spagnulo
regia Licia Lanera
con Sara Bevilacqua, Corrado la Grasta, Licia Lanera, Riccardo Spagnulo
voce del capitone Demetrio Stratos
spazio di scena Licia Lanera
spazio luci Vincent Longuemare
assistente alla regia Rachele Roppo
special art effects Leonardo Cruciano Workshop
produzione Fibre Parallele, Teatro Kismet OperA
con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese, Ente Teatrale Italiano
in collaborazione con Ravenna Teatro/Teatro delle Albe
foto di scena Paola Sarappa
lingua dialetto barese
durata 1h
Napoli, Nest − Napoli Est Teatro, 21 febbraio 2015
in scena 21 e 22 febbraio 2015



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