“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 24 February 2015 00:00

Shakespeare in Sud

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Ha il sapore amabile e generoso d'una dolce pietanza al retrogusto leggermente amaro e screziato d'antica etnia solare e mediterranea, questo Romeo e Giulietta che Tonio De Nitto e la Factory Compagnia Transadriatica hanno messo in scena al Nuovo napoletano: e ascoltarlo rimato e ritmato al punto giusto, coi giochi di parole e calembour che intatto restituiscono il carattere sottile e avvolgente della poesia del Bardo, e ne ricreano l’artificio arguto agile e corposo al tempo stesso, è un piacere ch'accresce il gusto dell'intelligenza della forse più famosa delle tragedie shakespeariane. Più famosa, certo, ma anche più immielata e incrostata d'annosa e pervicace patina romantica ch'intorbida e avvilisce il senso ultimo della storia dell'amore degli adolescenti veronesi, diventati, loro malgrado, simbolo stesso dell'amor lezioso e sospiroso che velava lo sguardo delle signorine dell'Ottocento sentimentale e un po' patetico.

Operazione compiuta in nome e per conto della verità e dell'autenticità delle cose e della storia, dunque, che s'avvale della nuova traduzione in versi di Francesco Niccolini che raccoglie – e vince, ed è bello dirlo – la difficile e impegnativa sfida di riportare all'origine il testo elisabettiano, coi suoi neoplatonici rinascimentali (e, non a caso, italici) riferimenti all'eros universale – strumento di scienza e conoscenza dell'universo – e ai conflitti e opposizioni che ne contraddistinguono l'anima e il divenire nel gioco alchemico delle mescolanze e dei composti: ridare cioè senso e sostanza (che un po' s'era persa nel trafficar dei secoli) di gioco dei contrasti, al gigantesco ossimoro ch'è alla base del Romeo e Giulietta, che nasce e cresce a dismisura – per mostruosa valentia del poeta – nello scherzar contrappunto degli opposti, d'odiato amore, drammatica commedia, elegiaco turpiloquio, violenta tenerezza, morte vivificante, paurosa felicità. Nell'adattamento di Niccolini e nell'accorta e pensosa regia di De Nitto tutto ciò vien restituito alla chiarezza e alla limpidezza, come una gigantesca operazione di portentosa e talentuosa pulizia del testo.
Non basta. Perché Niccolini non solo accortamente traduce (e in versi) il Bardo, ma l'adatta pure – e la regia fa il resto – a una imprecisa simbolica e mediterranea (quasi) contemporaneità che, salvaguardando l'universalità del testo e dell'essenza della storia, ne accentua ancor più il carattere di scontro e conflitto che lo caratterizza, apportando ulteriori motivi e sottolineature: così, la luminaria che costituisce la scena, tramutando di volta in volta in piazza, stanza, chiesa, tomba, a seconda del regolar l'intensità luminosa delle serie di lampadine colorate che la formano, è del tutto identica e omologa – anche nel significato profondo – alle luminarie della festa che gratificano le strade del nostro sud per la festa del santo e che pure restituiscono intatta tutta la tristezza e la desolazione di perduti villaggi abbandonati all'inedia e alla melanconia d'un inavverato domani; e ancora il metateatrale prologo in due parti: la prima dell'accoglienza in platea del pubblico da parte degli attori tra lazzi battute distribuzione di bigliettini elettorali e panni stesi fra le poltrone, la seconda della presentazione dei personaggi e interpreti al suono del valzerino dei Fiori, che tanto m'ha ricordato Pagliacci, sia nel Prologo suo (l'autore ha cercato invece pingere uno squarcio di vita) sia nell'allegria del pubblico sul palco che guarda uno spettacolo teatrale (e son identici guitti d'una compagnia che gira nei paesini del sud ma che tuttavia parlano in rima baciata e alternata); e che dire del contrasto tra vecchi e giovani, padri troppo indaffarati a far soldi e madri dall'attenzione calamitata dagli specchi in cui rimirarsi, che non trovan tempo e voglia d'occuparsi delle giovani figlie: tema questo – dell'incomprensibilità tra figli e genitori, adulti ch'hanno scordato la perduta giovinezza – presente già nelle rime di Shakespeare, ma accentuato dal "suggerimento", da parte del regista, di tener presente, nell'adattamento di Niccolini, anche Il ballo della Némirovsky, autrice più che sensibile al tema del complesso rapporto madri-figlie, per aver vissuto sulla pelle l'indifferenza e la tirannide genitoriale e che trova sostanza ultima nell'accentuar maggiormente l'oppressione di Madonna Capuleti sulla figlia a somiglianza di Rosine che impedisce alla figlia quattordicenne Antoinette di partecipare al primo ballo della sua vita: adolescenti che arrivano a odiare – e se ne vendicano – i genitori in nome del troppo amore.
S'aggiungano, ancora, i lacerti musicali fantasiosi e leggermente kitsch che s'inseriscono nella vicenda, dalla pizzica alla Carrà con tutto quello che c'è in mezzo, per accentuarne l'attualità – ma, sorprendentemente, anche la generalità – a costituire e montare una crema musicale duttile e metamorfica: la musica parla in tal modo alle orecchie e al cuore di chi ascolta seduto in platea allo stesso modo dei personaggi che vengono rappresentati (e degli attori che quei ruoli interpretano); è come se il linguaggio musicale creasse, a questo punto, e attraverso questa modalità, una sorta di corto circuito, diventando quasi una Stele di Rosetta per la decodifica di emozioni e sentimenti che sono comuni ma che rischiano invece di finir persi nell'incomunicabilità e impermeabilità delle parole. È, infatti, questo dell'incomunicabilità, sicuramente uno dei temi portanti, che più volte ricorre nella pièce: basti ricordare solo il finale, in cui si sovrappongono le parole tardive e contrite – e che sentiamo false e bugiarde – degli adulti, sopravvissuti alla tragedia e rappresentanti del potere (frate Lorenzo, Montecchi, Capuleti e il Principe); parlando tutti insieme, ne vien fuori l'incomprensibile marmellata sonora di frasi fatte cui la televisione ci ha fin troppo abituati. La musica, invece, crea un alogico e immediato contatto (come quando, nella scena del bacio, i protagonisti si passano la cuffia) che supera le difficoltà del linguaggio verbale, troppo spesso menzognero. Il ricorrere, poi, al doppio ruolo per cinque dei sette attori (tutti tranne i ruoli del titolo) in modo da ricoprire alla fine dodici ruoli, compresi due en travesti, è espediente che da un lato accentua la differenza tra i due protagonisti e gli altri, dall'altro rimarca il senso del gioco del teatro nel teatro e del lavoro corale della messa in scena: così, Angela De Gaetano è una convincente Giulietta, una volta tanto non smielata e svenevole, ma persuasiva adolescente nella prima parte (quelle mani che non sai dove mettere e che asciugano il sudore delle palme sulla veste e quegli occhi che smarriti scrutano attenti da dietro la grata delle luminarie) e che diventa improvvisamente donna nel colloquio risolutivo con frate Lorenzo; le fa da contraltare Fabio Tinella, sperduto e svagato Romeo che coltiva lo yoga e la musica, inconsapevole di giovanile ottusità fino alla morte. Accanto a loro Ippolito Chiarello è un Capuleti a volta a volta comprensivo e inesorabile dall'inconsulta violenza verbale, classica e attuale al tempo stesso, e un riuscito Speziale curvo e rauco e oscuro spacciatore della pozione proibita e mortale a Romeo; Lea Barletti impersona Madonna Capuleti, tirannica madre di Giuletta, e – primo dei ruoli en travesti – Montecchi, non camuffandosi da uomo, ma invece indossando una giacca e un cappello maschili sulla gonna e i tacchi a spillo, scommettendo ancor di più sullo scoperto gioco teatrale, divertissement totale e a tutto campo. L'altro ruolo en travesti è di Dario Cadei, la balia, il più schiettamente comico tra tutti i personaggi, interpretato con grande verve dall'attore, che riveste anche i panni del Principe, che dall'alto dei suoi trampoli compare all'inizio e alla fine del dramma, incarnato simbolo di un potere impotente quanto distante dalla vita delle persone. I "giovani dalla testa calda" sono interpretati da Luca Pastore – un Mercuzio che avremmo voluto forse leggermente più mordace e un tantinello meno fisico, e un azzimato educato e inconcludente Conte Paride come da tradizione – e da Filippo Paolasini – che restituisce un Tebaldo tutto fisicità e poco cervello come ha da essere e un frate Lorenzo un po' troppo ieratico e soporoso quanto poco arguto e macchinatore – a completare una rosa attoriale capace e all'altezza di uno spettacolo che molto si regge sulla coralità.

 

 

Fuori Scena
Romeo e Giulietta
di William Shakespeare
adattamento e traduzione Francesco Niccolini
regia Tonio De Nitto
con Lea Barletti, Dario Cadei, Ippolito Chiarello, Angela De Gaetano, Filippo Paolasini, Luca Pastore, Fabio Tinella
scenografie Roberta Dori Puddu
realizzazione scene L.C.D.C. luminarie Cesare De Cagno
costumi Lucia Lapolla (Lapi Lou)
luci Davide Arsenio
assistente alla regia Paola Leone
produzione Factory Compagnia Transadriatica
in collaborazione con Terrammare Teatro, Teatri Abitati
lingua italiano
durata 2h
Napoli, Teatro Nuovo, 21 febbraio 2015
in scena 21 e 22 febbraio 2015

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