“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 20 February 2015 00:00

“Amleto” nelle mani di Amleto

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Un attore, sette sedie, un bucale con dei fiori; sette sedie tinteggiate di bianco, sul retro di ciascuna delle quali tinto di rosso è impresso un nome; su una sola di esse è poggiato un cuscino, stigmate del potere regale dell’usurpatore Claudio; in centro di scena un Amleto vestito da Amleto, consapevole d’essere Amleto e di essere lì a raccontare la tragedia di Amleto: la Danimarca non è tanto una prigione, quanto invece una ribalta; attore/regista/narratore – in una sorta di onniscienza postuma – è quest’Amleto vestito da Amleto, cerone bianco e rossetto rosso (pendant con le sedie che di volta in volta andrà ad occupare), a marcarne le evidenze di teatralità, uno stereo evidentemente acceso a giostrare musiche ed effetti sonori in scena dallo stesso Principe di Danimarca, che non ha alcuna intenzione di dissimulare l’anacronismo tecnologico.

È solo in scena, Amleto, e snocciola un sunto di scena della propria tragedia, trasformandosi in puparo senza pupi, in regista senza attori, in demiurgo che insuffla vita di scena ad una compagnia di spettri, che vivono attraverso la sua voce camuffata e all’occorrenza deformata parlando nel bucale in cui erano i fiori. Spettri tutti, a cominciare dal più spettro di tutti, ovvero suo padre, muta essenza presente in scena nella metonimia di un piccolo vaso di fiori, fiori che diverranno simbolo e corona di consumata vendetta.
Amleto rivisitato da Michele Sinisi si trasforma così in una giocoleria da palco, in una rivisitazione intrisa di metateatralità: clownesco per trucco, recita uno spartito in cui fa continuo riferimento al sé ed al ruolo; reitera, nell’interpretare Claudio o Polonio occupandone la seduta, degli incisi in cui, quando si fa riferimento ad Amleto, soggiunge un “cioè io” che rimarca a più riprese sia la propria identità di scena che la propria parte oltre le parti; ripete più volte un “tocca a te” rivolto ai diversi personaggi chiamati all’interlocuzione, si guarda una mano come se vi fossero impresse le parole da recitare a mo’ di promemoria; e ancora, caratterizza il gestire subdolo del re fratricida afferrandosi una mano con quell’altra, come a voler simboleggiare il maneggiare nell’ombra che dà origine a tutta la tragedia, qui interpretata come tragedia delle ombre, delle cose che sembrano e che in quanto tali si possono recitare. E, in questa recita per voce sola che si fa polifona, questo Amleto che fa rivivere gli spettri, che dà loro voce, che sembra essere sopravvissuto a tutti loro e a se stesso, pare essere animato dall’inesausto desiderio di sovvertire una storia già nota: vorrebbe Ofelia in convento e vorrebbe che Claudio imparasse a dire la verità; pare anche essere capace di sottrarsi al proprio destino tragico, facendosi grottesco ri-sceneggiatore di se stesso che, in quanto consapevole e postumo alla propria tragedia, può anche farsi beffe delle mene omicide ordite da Claudio nei suoi confronti, motteggiando apotropaico.
Ri-sceneggiandosi, Amleto compie quasi per intero il proprio destino, concludendo che “il resto è da venire”, sottraendosi alla propria fine, secondaria rispetto a quella degli altri personaggi, cui viene somministrata la morte in scena; soprattutto Claudio – e la sedia che lo rappresenta – fa in scena per mano d’Amleto la fine cruenta di una seggiola sfasciata. Clown e becchino – come clown sono i becchini che dissotterrano il teschio di Yorick mentre seppelliscono Ofelia – l’Amleto di Michele Sinisi gioca ad essere Amleto e tutti gli altri, è un Amleto che gioca coi personaggi dell’Amleto come fossero tessere d’un domino gigante, come fossero balocchi nelle mani d’un padrone assoluto, che su di essi detiene potestà totale. Amleto gioca ad essere Amleto, gioca con la lingua, che assume un’intonazione particolare, un timbro quasi chioccio, gioca col testo, infarcendolo di qualche inserto caricaturale in dialetto pugliese, gioca col personaggio dell’attore (una delle sedie) portato a spasso per la scena e gioca – anche violentemente – con le sedie stesse che “interpretano” i vari personaggi. Ma è un gioco che non è mero divertissement di scena, né che voglia essere pantomima caricaturale di un Amleto dimezzato; è piuttosto un Amleto preso dall’angolazione della propria solitudine, di coscienza prim’ancora che fisica in scena, unico savio e ragionevole nella sordida corte di Danimarca e perciò ritenuto folle; è un Amleto ribelle al proprio destino, che tenta di sovvertirlo, che tenta di far giustizia, che urla perentorio, che sopravvive a se stesso per il tempo finto della finzione, per la durata di questa recita, fino al prossimo atto, fino al prossimo Amleto.
È un Amleto, questo di Michele Sinisi, che si offre prima di tutto come un attore, nella forma magistrale della sua interpretazione, che resta vivo sulla scena per restare vivo, come un Amleto diverso, nella memoria di chi lo guarda, nello sguardo di chi lo applaude.
Per una volta, per un Amleto, “il resto è da venire”, ma potrebbe tranquillamente fermarsi anche qui, nella sua compiutezza, nella sua clownerie, nel suo soliloquio per voce plurima – o dialogo per voce sola – nel suo essere comunque Amleto a prescindere dall’Amleto.
Cortesemente prelevato dalla penna del Bardo, Amleto viene messo da Sinisi nelle mani di Amleto per diventare il gioco che Amleto avrebbe voluto, per diventare il teatro che Michele Sinisi ha ricreato: un Amleto, un gioco, una visione possibile, un teatro auspicabile.

 

 

 

 

Amleto
da William Shakespeare
di e con Michele Sinisi
collaborazione alla scrittura Michele Santeramo
produzione Fondazione Pontedera Teatro, Teatro Minimo
lingua italiano
durata 45’
Napoli, Start Teatro – Interno5, 15 febbraio 2015
in scena 15 febbraio 2015 (data unica)

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