“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 14 February 2015 00:00

Venite a sognare con me

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A sipario chiuso si sente come il fischio di un treno, o forse un lamento, misto al cinguettio di uccelli e poi la tela rossa si apre, scoprendo una luce blu davanti ai nostri occhi, un blu irreale, che sa già di sogno, di fiaba. Sul blu del fondale si proiettano le silouhettes di tre vecchie: una sembra la vecchia del Carnevale, con il naso bitorzoluto e la gobba, un’altra sembra una janara con i capelli scarmigliati, la terza ha il naso adunco da strega o da befana. Ma forse sono solo tre vecchie nonne, dalla voce chioccia e cavernosa, che ci prendono per mano e ci fanno entrare nel regno incantato della fiaba. “Ric’ ca ce steva 'na vota ‘o paese d’Arzano 'na femmena, la quale ogne anno scarrecava 'no figlio mascolo...”. La donna si chiama Zeza (come la compagna di Pulcinella in tanti canovacci...) e un anno finalmente riesce a dare alla luce una femmina, cui mette nome Gianna, ma la vecchia vammana (la levatrice) si confonde, mette il segnale sbagliato e i sette fratelli maschi prendono la via e camminano camminano camminano fino ad arrivare a casa di un orco, che viveva in un fitto bosco...

Le parole si proiettano sul fondale sotto forma di disegni animati, fogli di pergamena vergati a mano con le antiche parole. “C’era una volta...”; basta questo incipit per annullare in un momento il tempo e le distanze, l’età, le conoscenze, la semplice reiterazione di questa semplice formula è il motto iniziatico con cui Peppe Barra, vestendo i paramenti dell’affabulatore, ci prende, ci addormenta e ci risveglia nel mondo delle fiabe, nella notte delle fiabe. Un corpo che mostra la solidità ieratica delle rocce, delle montagne, di ciò che è da sempre, eterno come il mito. Un viso che conserva nello scintillio degli occhi e nella piega del sorriso quell’ineffabile tratto di eterna giovinezza del menestrello. L’abito del mago, del sacerdote della parole. L’arancio del sole, il blu della notte, il bianco dell’iniziazione. La seta, i ricami.
I musicisti siedono a destra. Vestiti di sgargianti costumi che culminano in una battagliera testa di gallo e in una imponente testa di papera. Le parole antiche si fondono perfettamente con i suoni moderni e le musiche della tradizione, che Patrizio Trampetti ha saputo far nascere da quelle parole raccontate con la plausibilità del flatus vocis, musica come personaggio/elemento scenico, non decorazione accessoria.
Nella sua apparente semplicità, che nulla ha di ingenuo, la fiaba è trasposizione delle inquietudini più profonde dell’animo umano, del singolo e della collettività. Eppure ciò che necessita ponderosi tomi di ricerca etnografica, di storia delle religioni, di psicologia del profondo, trova d’incanto nella tradizione e poi nell’arte il momento sintetico: vediamo con gli occhi e ascoltiamo con le orecchie, in una parola percepiamo sinesteticamente, ciò che avremmo dovuto studiare e capire. I gesti di Peppe Barra sono ampi e misurati, la sua voce potente, la sua lingua tagliente. Pendiamo dalle sue labbra, come bambini stregati, pronti ad entrare anche nella casa di marzapane della strega, se il prezzo del rischio è un’altra storia.
Alla base dello spettacolo c’è il Pentamerone di Giovan Battista Basile, alla base c’è il recupero colto della tradizione napoletana, non della 'napoletanitudine', la ricerca delle origini più profonde, quelle che legano l’arcaico con l’antico, con l’immutabile essenza del tempo. La lingua, seppur mitigata degli arcaismi più ostici, suona comunque straniante e al tempo stesso quasi iniziatica. E in fondo noi, il pubblico, appellati come maghi, sirene e incantatori, partecipiamo di quel rito collettivo e iniziatico che è il teatro. Tre sono le storie raccontate: i sette palombelli, Vardiello e la papera d’oro. Storie di abnegazione e di furbizia, di sciocchezza esibita e fortuna, di generosità e invidia. Elemento comune la presenza del gallinaceo: la papera donata dalla vecchia del bosco a Gianna, la gallina che Vardiello uccide, la papera caca-oro delle due sorelle poverissime. E gallinacei sono anche i musicisti. Altri hanno scritto del valore funerario di tali volatili, il simbolismo psicopompo ad essi legato. E le fiabe, in fondo, sono la forma ritualizzata delle concettualizzazioni arcaiche, la trasposizione mitico/narrativa delle paure umane, la loro esorcizzazione. Ma le parole d’inchiostro restano sulla carta e hanno bisogno di occhi che le leggano. Sul palco tutto si realizzava invece immediatamente, ovvero senza mediazione. Tutto veniva suggerito emozionalmente, in virtù della potenza eterna del simbolo, che agisce su di noi nonostante noi, potremmo forse dire anche a dispetto di noi.
L’altro polo dello spettacolo è Teresa Del Vecchio, che avevamo avuto già il piacere di conoscere nelle inconfondibili vesti di Sarchiapone nella Cantata dei pastori. Lei è Gianna, la sorellina dei sette fratelli. Voce e corpo sono strumenti duttili e versatili: si muove come una marionetta con la sua parrucca di boccoli biondi (come quelli dei suoi fratelli del resto... “Siamo sette fratelli tutti dai riccioli belli”) e la sua vocina da oca giuliva, per recuperare la gestualità umana quando esce dalla tutela della madre e prende la via, per andare a cercare i fratelli. Porta un abito turchino con la gonna a campana e le scarpette argentate e si specchia nel suo doppio, disegnato/proiettato sul fondale del bosco. E all’occorrenza presta la sua voce, contraffatta in maniera diversa per ciascuno dei ruoli, ai fratelli, di cui vediamo solo la rappresentazione disegnata o la silhouette sul fondale animato. Ma è anche Vardiello, lo sciocco ragazzino che recupera per caso una pentola piena di monete d’oro, perché il Cielo, si sa, aiuta i pazzi e i bambini, e in fondo Vardiello partecipa delle due nature. Infine le scenografie. O forse dovrei dire all’inizio. Il fondale, lungi dall’essere  mero sfondo sul quale si stagliano le figure degli attori, è esso stesso personaggio, elemento attivo: le proiezioni animate delle illustrazioni di Irene Servillo partecipano all’azione, ospitano i personaggi interpretati da Teresa Del Vecchio, si animano degli interlocutori cui la stessa dà voce.
Nell’ultimo quadro scenico Peppe Barra e Teresa Del Vecchio leggono detti e proverbi su foglietti colorati che lanciano alle loro spalle, mentre la luna si moltiplica in una pioggia di mille talleri d’oro che scende dal cielo e l’orchestra di gallinacei suona, accompagnandoci alla fine di questo viaggio iniziatico. Stupefatti e incantati.

 

 

 

 

Sogno di una notte incantata
di
Peppe Barra e Fabrizio Bancale
liberamente ispirato a Lo Cunto de Li Cunti
di Giovan Battista Basile
regia Fabrizio Bancale
musiche Patrizio Trampetti
con Peppe Barra, Teresa Del Vecchio
musicisti Luca Orciuoli, Alessandro De Carolis, Ivan La Cagnina, Paolo Del Vecchio
scene Luigi Ferrigno
costumi Annalisa Giacci
assistente ai costumi Antonietta Rendina
disegno luci Megaride
video scenografie Alessandro Papa, Mariano Soria
illustrazioni Irene Servillo
sound Giovanni Marolla
assistente alla regia Antonio Lepre
foto di scena Andrea Falasconi
prodotto da Suoni&Scene Produzioni, Arteteca arte-musica-spettacolo
in collaborazione con Teatro Delle Palme
lingua italiano e napoletano
durata 2h 30’
Napoli, Teatro Delle Palme, 12 febbraio 2015
in scena dal 12 al 22 febbraio 2015

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