“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 15 February 2015 00:00

La fragilità cristallina di un interno familiare

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Tennessee Williams definì Lo zoo di vetro “un dramma della memoria”, inteso nella duplice lettura realistica della descrizione dei rapporti tra i personaggi e nella dimensione onirica della rappresentazione del tempo della storia. In scena, con la regia di Arturo Cirillo, non solo si è assistito al dramma della memoria, ma alla tragica celebrazione dell’assenza e del vuoto, inteso come una potente carenza affettiva che dilaga dal microcosmo familiare alla società e all’analisi esistenziale. Cirillo, infatti, sceglie una messa in scena calcolata per sottrazione degli elementi scenici, pochi e simbolici, per lasciare spazio alla potenza espressiva del testo, ai dialoghi, ai movimenti, alle entrate ed uscite di scena che si leggono come ingressi ed uscite dal ricordo.

I tre attori protagonisti siedono lungo il perimetro delle quinte e della parete di fondo già prima che inizi la rappresentazione, mentre gli ignari spettatori ancora parlottano tra loro e le luci della platea sono accese. Milvia Marigliano, semplicemente strepitosa nel ruolo di Amanda, la madre ossessiva-possessiva, è seduta sulla destra seminascosta da una serie di bauli teatrali, proprio quelli che si usano per riporvi gli attrezzi del mestiere, che fungono da piani di appoggio come si trovano anche sulla parte opposta del palco, dietro un divano in simil-pelle che si potrebbe definire vintage, di un improbabile color ocra-marroncino, ravvivato, se si può usare questo eufemismo, da due cuscini arancioni. Quasi al centro della parete di fondo vi è un armadio a due ante di un legno stinto. Nuovamente a destra vi è una tavola con delle sedie e, quasi sulla ribalta, un’altra seggiola su cui è poggiata una giacca ed una cravatta. Tutto il resto della scenografia è nero, buio. Si vedono le funi, le carrucole, un palco nudo, un palcoscenico della memoria e della vita. Quando le luci illuminano la parte superiore della scena dove tanti pannelli rimandano ai volti dei protagonisti in bianco e nero, Cirillo-Tom, figlio di Amanda, si alza dalla sua posizione in fondo alla scena e svela nel suo monologo, che funge da prologo, ciò che si accinge a raccontare: ”Io vi do la verità sotto il dramma delle illusioni”. Tom e Laura, sua sorella, sono stati abbandonati insieme alla madre dal padre, fuggito via da quella casa senza un motivo, all’improvviso, chissà dove, a cercare chissà quale altra vita. Tom sa il perché, lo capisce una volta adulto, quando, costretto dalle circostanze, deve lavorare come magazziniere per mantenere la famiglia rinunciando a realizzare la sua inclinazione alla poesia. L’unica via di fuga da questa madre, vittima e carnefice, frustrata e falsamente entusiasta della vita che gli ricorda continuamente i suoi doveri e i suoi obblighi è quando la sera va al cinema, tutte le sere per non impazzire.
Cirillo elimina dal testo di Williams tutti i riferimenti strettamente temporali, cioè agli anni ’40, e alle canzoni americane sostituendole con le malinconiche e struggenti melodie di Luigi Tenco. Mi sono innamorato di te introduce il personaggio di Laura, timida e triste ragazza zoppa che non riesce a sopportare la vita fuori da quelle mura e trova l’unica gioia nel collezionare piccoli animaletti di vetro nei quali finisce per identificarsi. Tom e Laura mostrano un sincero affetto l’uno per l’altra ed insieme si fanno forza per continuare a vivere una vita mediocre e a sopportare Amanda, patetica figura di una madre che vive di ricordi di un passato ricco di promesse e di possibilità andate in frantumi con la fuga del marito. “Lontano, lontano dal tempo…” canta Tenco, mentre i litigi tra Tom e la madre sono sempre più frequenti, “Ho capito che ti amo…” quando la madre confessa che: ”Il passato è un enorme rimpianto” o che “non c’è niente di peggio per una ragazza che abbandonarsi a vuote apparenze”. Il pensiero dominante di Amanda è trovare un marito alla figlia, giacché ella è incapace di trovare un lavoro, che possa provvedere a lei e anche a loro, magari, perciò chiede a Tom di invitare qualche suo amico a cena. Tom accetta con riluttanza e si presenta una sera con Jim, suo collega ed amico dei tempi del liceo. Per lui, Laura da ragazza aveva preso una cotta, ma ovviamente lui non se ne era mai accorto. I preparativi degli abiti delle due donne che escono dal mondo rutilante del passato custoditi nell’armadio altrettanto rutilante (pieno di specchi e di sfere di luccicanti come quelli delle discoteche), sono il momento più ironico della storia perché Amanda riesce a trasformarsi nella parodia di quello che era da giovane, allestendo una messa in scena improbabile per catturare il “pretendente”.
Jim, che Tom nel prologo aveva anticipato essere l’unico elemento della realtà che irromperà nelle loro vite, concreto e positivo, nonostante tutte le resistenze di Laura, riuscirà a creare con lei un momento di autentica e sincera intimità in cui lui scoprirà la delicatezza e la sensibilità della giovane che consiste nella sua straordinarietà, spronandola a superare quel senso di inferiorità che la imprigiona, che la chiude in quello zoo di vetro perché, lì fuori, le persone non sono assolutamente migliori di lei, anzi. Jim, però, pur affascinato da Laura, non può mantenere alcun legame con lei perché sta per sposarsi con una donna che ama. Tutto questo Tom lo ignorava. Augurandole ogni bene con affetto, Jim esce dalle loro vite così come era entrato, ma Amanda non perdonerà Tom di averla presa in giro, ed incurante delle sue giustificazioni, hanno un ennesimo litigio. L’evocazione del dramma della memoria finisce qui, perché Tom, avvicinandosi alla platea, nel monologo finale racconta di aver preso il coraggio che gli era sempre mancato e abbandonerà il lavoro e le due donne al loro destino, come fece il padre. Viaggerà molto e farà ogni tipo di esperienza convinto di star vivendo la vita che cercava fin quando, un giorno, davanti ad una vetrina che esponeva oggetti di vetro, dirà addio nel cuore a sua sorella e il rimpianto si impadronirà di lui: “Spegni le tue candele, Laura e addio” dopo aver realizzato che aveva cercato “nello spazio quello che nel tempo era perduto”.
La regia di Cirillo è poetica e cinica al tempo stesso nel fissare delle coordinate spazio-temporali precise che chiudono la storia di Tom, di Laura e di Amanda in una gabbia esistenziale asfissiante in cui la memoria è precisa e millimetrica nel misurare un rimpianto che non avrà mai fine. Lo stesso Cirillo attore risulta spesso fastidioso con il suo tono canzonatorio o da narratore annoiato, ma probabilmente la sua scelta è dettata dal fatto di essere volutamente respingente, di non volere creare empatia tra il pubblico ed i personaggi per non far cadere il dramma nello stucchevole o nell’ovvio. Cirillo, del resto, ha legato la drammaturgia di Tennessee Williams con quella di Annibale Ruccello nel modo in cui i legami familiari si risolvono in rapporti ossessivi, malati, spesso patologici come accade in Improvvisamente l’estate scorsa di Williams. Le donne protagoniste dei testi dei due drammaturghi sono spesso fragili, ma non deboli, ricche di unicità e portatrici di mondi così speciali da trasformare le vite di chi le incrocia, come per Anna Cappelli o Notturno di donna con ospiti di Ruccello. Sarà per questo che il protagonismo di Cirillo questa volta sul palco viene messo un poco in disparte per dare spazio alle due splendide e terribili figure femminili rese sulla scena da due attrici straordinarie come Monica Piseddu e Milvia Marigliano, di gran lunga una spanna più in su di Arturo Cirillo e Edoardo Ribatto, seppur bravissimi.

 

 

 

Lo zoo di vetro
di Tennessee Williams
traduzione Gerardo Guerrieri
regia Arturo Cirillo
con Arturo Cirillo, Milvia Marigliano, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Mario Loprevite
produzione Tieffe Teatro
lingua italiano
durata 1h 40'
Napoli, Teatro Nuovo, 11 febbraio 2015
in scena dall’11 al 15 febbraio 2015

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