“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 08 February 2015 00:00

Un cuore indaco

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“Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù” .
(Pier Paolo Pasolini – Supplica a mia madre


“La frase d’amore, l’unica, è: hai mangiato?”.
Questa per Elsa Morante era la sola vera frase d’amore che qualcuno potesse dedicare o rivolgere ad un altro. E probabilmente aveva anche ragione, perché è largamente conosciuto il detto secondo il quale “La salute viene al primo posto”. Per voler restringere il campo al tema in oggetto: Hungry Hearts è un film promettente sia tecnicamente che artisticamente, nonostante presenti delle pecche forti, come delle trascuratezze che gli fanno perdere il titolo di capolavoro. Qualcuno potrebbe dire che i capolavori non ci interessano, che non esistono e che se esistono sono noiosi e pedanti, perché la perfezione è uno spettacolo passivo. In questo caso voglio dargli ragione e bearmi del fatto che il film in questione, con tutti i suoi palesi difetti, mi permette di affrontare un argomento molto importante e caro, così particolare che pare non abbia legame con la poeticità eppure ce l’ha eccome. Già il titolo potrebbe sembrare una bella figura retorica per indicare qualcosa di estremamente aleatorio, invece il cuore affamato, in tal caso, è veramente un cuore sottopeso, un organo che necessita di un nutrimento fisiologico per sopravvivere. Qui scatta la dicotomia: perché si, la pellicola affronta diverse istanze inerenti agli stili di vita, porta in scena l’adozione sempre più diffusa di alcune filosofie alimentari, eppure c’è anche la disfunzione di una mente, l’anoressia che colpisce lo spirito e lo smagrisce fino all’osso.
La storia è quella di una semplice famiglia, un uomo e una donna e un bambino. Prima che il matrimonio e la gravidanza entrino in gioco nella loro vita, i due protagonisti si conoscono in un bagno pubblico. La primissima scena è interamente girata in uno stanzino claustrofobico, la porta della toilette si è bloccata ed entrambi rischiano di morire soffocati dalla puzza proveniente dagli escrementi di lui. Lo so, non è il massimo come presentazione, eppure in questa asfissiante putrefazione dello scarico un uomo e una donna si conoscono e, una volta fuori, si amano. La beffa è che non usciranno mai da quel bagno, per tutto il film la sinestesia di odori, visioni e consistenze innerverà la storia e scaraventerà lo spettatore in una partecipazione chimica che lo lascerà smarrito ed esausto, lo affamerà di cibo, ossigeno e amore. 
Ho avuto la fortuna di leggere il romanzo dal quale il film è tratto: Il bambino indaco di Marco Franzoso.
Preferirei parlare esclusivamente della pellicola, però non posso tralasciare la bravura e la delicatezza dell’autore nella stesura di questo bellissimo racconto. Il pudore maschile commuove il lettore che a sua volta si ritrova dentro il ventre impazzito di una madre malata, incapace di reggere il peso di un così grande amore. Nel film la follia di questa donna è espressa più crudelmente, l’immagine è sempre più violenta perché non lascia posto ai pensieri e alle idee che muovono e stemperano l’azione. La sagoma di una madre ossessionata dalla purezza fino al punto di lasciare morire di fame il proprio bambino è gestita magistralmente dall’artificio delle inquadrature. Spesso e volentieri le riprese vengono effettuate dall’alto, l’occhio cinematografico scruta il formicaio, mostra gli uomini e le donne di schiena, li schiaccia, li stringe dentro pochi metri di pelle e stanza, deforma la statura dei soggetti e ne evidenzia grottescamente le ossa trasparenti, il deperimento di una donna in trappola dentro le sue scapole sporgenti. Un uomo alto e prestante si muove nel recinto di questa malattia mortale. L’istinto paterno si dispera di fronte uno materno danneggiato, ma non può nulla, la madre dona la vita e qui si arroga il diritto di sottrarla. La continua narrazione enciclopedica di determinati principi alimentari, l’enumerazione di svariate sostanze biologiche, di tessuti naturali, di bugiardini alternativi, crea un vortice quasi atavico intorno alla storia che quasi ci dimentichiamo il senso e la fitta rete di corrispondenze taciute. Eppure da buon idealisti quali siamo, non tradiamo il nostro sostrato platonico e riusciamo a scorgere con l’aiuto di qualche simbolismo sparso il motivo segreto per cui accade tutto questo. La lotta è primitiva, la psiche può aspettare lo stomaco no, in un’orgia di cibo, odori e tattilità l’uomo preistorico emerge e si impone − come fece il primo giorno sulla soglia rocciosa di una caverna − sulla selettività della ragione e antepone la forza alla raffinatezza dell’amore. In quest’atto primordiale afferma il principio della vita sulla morte, della necessità sulla libertà, dell’essenzialità sull’abbondanza. La nostra mente fine riesce a cogliere questo antico distacco, questa primissima faglia tra l’uomo e la donna, questo ritornello impopolare – a ragione – ma sempre incalzante, ormai famoso dalle nostre parti. Perché il sentimento è un lusso, una lama a doppio taglio che può ucciderti se non sei in grado di controllarla, mentre il richiamo della fame e della sete conosce solo una lama, una punta che è come una freccia, sa sempre dove puntare e quando torna indietro ha in spalla la sopravvivenza. Però nelle divagazioni filosofiche che ci permettiamo non dobbiamo dimenticare che l’amore di cui si parla – perché il fatto che sia tale non venga messo in dubbio – è il più complesso ma anche il più viscerale. Il discorso di poco fa potrebbe essere sovvertito in seno all’anatomia del concepimento e della gestazione. Perciò anche se adesso intravedessimo una contraddizione netta tra il portatore e la portata, Hungry Hearts rimane comunque un film ambiguo sulla questione del gender, tuttavia è abbastanza chiaro il discorso sull’originarietà, solo inutilmente offuscato dall’empatia generale. È verissimo, l’amore è l’epifania della grazia, dell’uomo sopra la volgarità della ridondanza, eppure per quello materno bisognerebbe fare un’eccezione dovuta. Una madre ama il proprio figlio prima del retaggio religioso, prima dell’esperienza, prima della parola stessa, in un utero pieno la carne e il sangue si mischiano, l’idea della vita si aggrappa alla biologia della vita, il Dio e l’uomo si incontrano per l’ultima volta prima del silenzio. Tutto galleggia in un liquido originario in cui affiora la gamma intera delle dualità, in questo dialogo senza bocche e mani la brutalità del bisogno si accorda con la sapienza del sentimento, creando quella perfetta creatura che è l’istinto.
Può avvenire tutto ciò, allora si vince, può fallire, allora si perde.
Prima che tutto finisca la donna guarda il bambino, nel buio, con sguardo adorante, è il suo Gesù bambino che lei – Maria – non ha saputo salvare dai chiodi della croce.







Hungry Hearts
regia Saverio Costanzo
tratto dal romanzo Il bambino Indaco
di Marco Franzoso
sceneggiatura Saverio Costanzo
con Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Jake Weber, Natalie Gold, Victoria Cartagena, David Aaron Baker, Ginger Kearns
casa di produzione Wildside, Rai Cinema
distribuzione 01 Distribution
paese di produzione Italia
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2014
durata 109 min.

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