“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 04 February 2015 00:00

Congiurare stanca

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Nera la scena, nera la storia; ambientata in un nero periodo, è nero il torbido gorgo che sottende alla vicenda: una congiura, quella che battezza lo spartito drammaturgico, ordita nell’ombra fosca del Ventennio, espunta però di connotazioni tragiche, quelle che per solito informano le trame architettate in segreto e che, sempre secondo consuetudine, comportano truci tranelli ed efferati lavacri di sangue.

Nuda la scena, nuda la storia; asciutta, essenziale, senza fronzoli e orpelli che la dilatino oltre il necessario; tre scene in successione logica e narrativa per istoriare un affresco siculo di primo Novecento, di quando c’erano il podestà, il federale e la milizia fascista ed i valori propalati s’ammantavano d’un’aura sacrale e retorica carica di marziale patriottismo.
Storie buie, quelle consumate nella penombra dei piccoli borghi, come quello immaginario di Vigata, che non esiste e non esistendo si fa simbolo di tutte le Vigata possibili, e che s’offre come pretesto d’ambientazione storica, per confinare una vicenda di ordinari livori, di macchinazioni subdole tramate a danno di chi è inviso, in un contesto preciso, ma al contempo estraibile e sovrapponibile nei dove e nei quando.
Nero il fondale, nere le quinte, neri gli abiti che ciascuno indossa, vesti, sottovesti e maglie, nera persino la tela che ricopre il tavolino in centro di scena, sul quale inchiostro (che nero possiamo solo immaginare) verga regesto di questa congiura, macchinazione ordita ai danni di una donna, indotta a credere vero l’inverosimile e così facendo, consegnarsi alla destituzione dal proprio ruolo di prestigio e comando. Il tutto in tre rapidi quadri: macchinazione, tranello, compimento. C’è chi briga e chi inganna, chi abbocca ed è ingannato, chi delibera e condanna; nel mezzo, un personaggio mai visto e sempre citato, un rappresentante di moda, evocato come brutto e deforme, che funge da strumento di scena su cui innervare la congiura, il deforme che deforma il reale e smentisce l'opinione comune e che, così facendo, innesca il meccanismo perverso della calunnia, suo malgrado insinuando il germe di un sospetto che disonorerebbe la mascolinità fascista degli uomini del paese, resi ‘becchi’ da questo botolo, insospettabile “oggetto libidico”.
Architettano il tutto le donne del paese, ne paga le spese la donna che detiene un ruolo di comando e che a quelle suscita acribia; adescata, abbocca al tranello. Ascolta e stupisce, monologa e reagisce; sconfitta, patisce.
Parabola che prende forma in tre quadri, La congiura occupa la scena compiendosi con rapida cadenza, strutturandosi rarefatta eppure compiuta; scrittura salda, regia attenta a non eccedere.
Quel che ne sortisce è un meccanismo teatrale preciso e compatto, un’architettura corale che connota col sovratono caricaturale tutti i ruoli (meno quello della vittima della congiura); così, nel modo di dire una battuta, in un gesto o in un cenno, i toni si stemperano in direzione di un alleggerimento grottesco della vicenda: una delle donne congiuranti carica il proprio dire, un’altra rallenta e cadenza la propria loquela, si parafrasa Cesare Pavese sentenziando che “Congiurare stanca”, il federale assume pose e toni tipicamente mussoliniani; e ancora, il gesto grossolano (lo scrivano che registra gli atti del processo si soffia rumorosamente il naso), il motteggio salace (“che ti combina una bomba sul Carso”). Unica figura 'realistica' in questo contesto farsesco è proprio Tanina Buccé, la vittima inconsapevole, vulnerabile nella fierezza ingenua della sua sottoveste, che vede dapprima scalfito l’orgoglio della propria femminilità, dipoi detronizzato il prestigio del proprio ruolo di capo delle donne fasciste del paese.
Lineare e fluido, l’impianto drammaturgico – e la regia che sulla scena lo traduce – congegna una sorta di apologo didascalico, la cui partitura s’affida a pochi tocchi essenziali, attenti, dosati e che, attraverso una storia iperbolica, racconta fasciandoli in un velo casualmente tinto di nero gli umani meccanismi dell’invidia e del livore.
Nera la storia, più ampio il raggio della sua scia, La congiura è lavoro agile e compatto, che piace per la sua semplicità essenziale.

 

 

 

La congiura
liberamente tratto da un racconto di Andrea Camilleri
testo Tonia Aprea, Marinetta De Falco
regia Tonia Aprea
con Rosa Anastasio, Marinetta De Falco, Valeria Impagliazzo, Salvatore Bottino, Vincenzo Liguori
luci e audio Marco Zampella
produzione Compagnia Da Riggi
lingua italiano
durata 35’
Castellammare di Stabia (NA), Teatro C.A.T. – Sala Ciro Madonna, 1° febbraio 2015
in scena 1° febbraio 2015 (data unica)
 

 

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