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Tuesday, 27 January 2015 00:00

Il reale e l'irreale

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Verità e illusione, spazio reale e spazio fittizio, dimensione temporale variabile fra un tempo presente e la sua astrazione: questa la cornice che incastona Lo zoo di vetro di Tennessee Williams nella sua forma scritta; questa anche la forma che assume in assito nell’adattamento che ne ricava Arturo Cirillo. Testo per il quale l’autore intese fornire minuziose note di regia circa l’allestimento, cionondimeno lo stesso Tennessee Williams, nelle medesime note, attribuiva alla libertà registica di chi l’avesse messo in scena una certa qual libertà inventiva, in grado di tradurre, in maniera espressionistica ed antinaturalistica, il dramma di piccole esistenze che scolorano, languono e infine frantumano, confinate in uno spazio meschino che è specchio rifratto di chi vi abita.

V’è da fare una premessa: nella partitura originaria de Lo zoo di vetro, oltre all’articolazione scenografica composita, era previsto uno schermo su cui venissero proiettate immagini e frasi a complemento di quanto avveniva in scena, per dar loro risalto; espediente questo che lo stesso Tennessee Williams scelse poi di non adoperare quando la pièce fu rappresentata a Broadway; in definitiva, anche questo dello schermo è un dettame registico a cui ci si può liberamente attenere o meno, e Arturo Cirillo sceglie di rinunciarvi, puntando su altre sottolineature visuali (ed anche musicali) che gli fanno declinare questo Zoo di vetro in forma personale quantunque non discosta dall’originale: lo spazio, le luci, le musiche sono gli elementi su cui Cirillo lavora, lasciando sostanzialmente intonsa la partitura drammaturgica e complessivamente invariato il registro espressivo classico, per cui ci troviamo dinanzi ad una recitazione asciutta e pulita, da dramma borghese, che rispetta le connotazioni umane e psicologiche dei personaggi di casa Wingfield: Tom (lo stesso Arturo Cirillo), inquieto, insoddisfatto, in abiti marroni che ben s’intonano all’insipienza della propria vita, proiettata al desiderio di fuga surrogato ogni sera nel cinema e nell’alcol; sua sorella Laura (Monica Piseddu), vestita d’un chiarore quasi diafano, cui leggera zoppia ha confinato l’esistenza in difficoltosa introversione, fragile come gli animaletti di vetro della sua collezione; Amanda (Milvia Marigliano), loro madre, ansiogena, apprensiva, sfiorita in un passato che tende a mitizzare, buffa rasentando il ridicolo nel mostrarsi all’ospite in un abito demodé rosa confetto, che sembra consegnarla all’immaginario del pirandelliano sentimento del contrario.
Dicevamo che Arturo Cirillo rinuncia all’espediente del proiettore; è vero però che, se in scena non c’è uno schermo su cui proiettare delle immagini, c’è invece un “proiezionista” che illustra un dramma memoriale, ed è lo stesso Tom, narratore e personaggio al contempo, che entra ed esce dalla scena, offrendosi come legame (uno e non il solo), fra reale ed irreale.
Dramma reale calato in una cornice irreale, fittizia, simbolica, Lo zoo di vetro di Cirillo vive in uno spazio scenico che si offre alla vista come tale, finzione consapevole e manifesta: nuda la scena, nove fotografie giganti in bianco e nero penzolano dal soffitto, come a voler rimarcare l'impianto memoriale della pièce; la pletora d’arredo che occupa casa Wingfield ridotta all’essenziale (un tavolo, un armadio, il divano, uno stereo), a vista il fuori scena, con le sue corde, la sue casse; in un angolo una sedia vuota – destinata a rimanere tale – con una giacca appesa: è il simulacro di un’assenza, posto vuoto d’un padre fuggiasco “innamorato delle distanze”, figura che aleggia senza incombere, sbiadita eppure mai scomparsa. Ed è uno spazio, quello scenico, delimitato da un perimetro disegnato in terra, offerto in trasparenza, che richiama alla mente – anche per la similitudine cromatica del grigiore diffuso – la delimitazione degli interni ‘aperti’ di Dogville, ma che si differenzia dal film di Von Trier perché, questo spazio perimetrale si attraversa disinvoltamente, come se non esistesse diaframma fra un dentro ed un fuori. Ed in effetti questo ‘dentro’ non è acquartierato in uno spazio fisicamente definibile: Cirillo vi sottrae persino le connotazioni e le indicazioni logistiche e geografiche presenti nel testo, come a voler trasmettere l’idea di un dramma trasversale ai luoghi ed alle epoche.
Illuminano la ribalta luci fioche, prevale spesso una penombra che genera un gioco chiaroscurale, che risalta ed alterna il focus visuale della scena e che troverà il suo culmine nella immagine in cui la luce fatua di un candelabro rischiarerà di triste verità la già immalinconita vita di Laura, confinata nel proprio mondo fragile e grazioso, fatto di animaletti di vetro – che in scena non vedremo mai, se non sotto forma di luminescente chiarore che s’irradia da uno scrigno e che sembra alludere all’unica luce presente nella vita della ragazza – e che costituiscono la metafora ultima della sua esistenza, evocata, desiderata e non già pienamente vissuta.
A complemento della partitura scenica, il ruolo della musica viene affidato alla voce struggente di Luigi Tenco (da Se potessi amore mio a Lontano lontano), commento sonoro che ben s’attaglia alla tristezza, ad un tempo memoriale e presente, che cuce fra loro le vite dei personaggi; personaggi che vivono una stagnazione confinata in un limbo atemporale, in attesa, come preannuncia Tom, personaggio cui è affidato anche il ruolo di narratore, di “quel certo che, sempre rinviato e sempre atteso, per il quale viviamo”. Quel “certo che” farà anche la sua comparsa, avrà le fattezze di Jim (Edoardo Ribatto), il quale incarna e rappresenta l’intrusione del reale in un mondo fittizio e che, con la brutalità con cui la realtà è solita frantumare sogni ed illusioni, fracasserà uno degli animaletti di vetro, e con esso l’illusione, distrutta quand’era appena spuntata, nel cuore mesto di Laura.
Tutto avviene per allusione e per evocazione, in questo Zoo di vetro, fotografia irreale di un reale possibile, che rifugge –  com’è giusto che sia – da una rappresentazione realista per dipingere quadreria d’essenze. Eppure, quest’operazione, per quanto attenta e ben calibrata, interpretata da una compagine attoriale valida, sembra non elevarsi da una certa qual medietà; la stessa regia, che pure, come s’è detto, rielabora in chiave personale la struttura drammaturgica, dà però la sensazione di non sfruttare appieno le potenzialità di un testo che sembra consentire un margine d’azzardo ben maggiore. La fissità levigata di questa messinscena che pare concepita come un unico, ininterrotto piano sequenza possiede la fredda grazia di un quadro manierista, che s’apprezza con moderazione, ma che non genera il sobbalzo interiore, la scossa emotiva propria di ciò che s’imprime nello sguardo per rimanere nella memoria.
Nella sua essenzialità, fatta di scelte registiche sostanzialmente congrue, plausibili e tecnicamente valide, Lo zoo di vetro di Arturo Cirillo non dispiace, ma nemmeno esalta.
Sogno, illusione, fotografia onirica del reale, come un ninnolo di vetro poggiato su una mensola, colpisce lo sguardo quando lo rischiara un fascio di luce, ma svanisce dalla mente al variar del chiarore.

 

 

 

 

 

Lo zoo di vetro
di Tennessee Williams
traduzione Gerardo Guerrieri
regia Arturo Cirillo
con Milvia Marigliano, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto, Arturo Cirillo
produzione Tieffe Teatro
lingua italiano
durata 1h 50’
Bari, Teatro Kismet OperA, 24 gennaio 2015
in scena 24 e 25 gennaio 2015

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