“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 29 January 2015 00:00

Proverete le nostre emozioni

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Quello che segue è il resoconto di un breve periodo della mia vita. Per il resto si vedrà.
Da principio la luce inondava i miei giorni, poi a tratti ho cominciato a intravedere sullo sfondo schegge di oscurità e da lì ho preso a interrogarmi su cos’è in realtà l’essere umano, ma con scarsi risultati. Tuttavia, quando mi sfiora anche solo il timore di perdermi nel nulla, per me ogni percorso può essere utile… se hai le palle. Così, pur non essendo uno scrittore, ho deciso di far rivivere i primi tentativi della mia ricerca nella forma racconto. Chissà che sforzandomi di scegliere le parole più eloquenti per esprimere il mio stato d’animo a chi potrebbe leggere questo scritto io, di riflesso, non possa trovare le risposte che sto cercando.

Hai venticinque anni appena compiuti, fresco di laurea con centodieci e lode in ingegneria cibernetica. Sei il tipo che si usa dire figo, il che non guasta mai. Tuo padre è industriale del legno, pieno di soldi. Cos’altro ti manca per lanciarti alla conquista della vita?
E poi hai un amico, Simone, tuo coetaneo e compagno delle più eccitanti scorribande giovanili. Lui vuole diventare filosofo, insegnare all’università e magari scrivere saggi di successo. Ha terminato gli studi un anno prima di te e ha in mente di iscriversi a un Master all’estero. Ma se la prende comoda. A suo dire la cultura di massa italiana va somigliando sempre di più a quella americana, quasi a diventare un sottoprodotto dell’intrattenimento televisivo che ci allontana dalle letture che aiutano a crescere. “Per il Master sto pensando a Parigi, qui non ho stimoli" ripete da tempo.
Quel giorno che ha avuto inizio la nostra avventura l’estate era al culmine. Dalla terrazza della villa di Courmayeur, che mio padre aveva acquistato subito dopo essersi divorziato da mia madre (solita storia di libere uscite coniugali), io e Simone ci stavamo facendo un bicchiere di chardonnay scrutando la cima del Monte Bianco sul punto di impallidire.
“Sai, Lorenzo“, mi fa Simone, “viviamo in un paese malato”.
“Lo so”.
“Già, ma non ho molte speranze che possa migliorare. Prendi le opportunità di lavoro per i giovani con buona formazione scolastica: siamo in pieno drenaggio dei cervelli. Chi può se la batte. Sul giornale di oggi si parla di millesettecento tra ricercatori e studiosi in fuga dall’Italia perché gli investimenti in quel settore sono scandalosamente bassi. Guarda il tuo caso: che cazzo pensi di fare da grande, visto che non vuoi entrare nell’azienda di tuo padre?”.
”Boh!".
C’è infatti da dire che dopo il divorzio i miei rapporti con papà si erano raffreddati al punto che la sola idea di lavorare con lui mi urtava: Senza contare che sin dagli anni del liceo ero portato alla bionica, la scienza che mi avrebbe permesso di essere di aiuto alle persone sofferenti grazie alla creazione di congegni tecnologici per rendere la loro vita il più possibile vicina alla normalità; mi bastava pensare ai pace-maker, protesi artificiali e cose così per convincermi che quella era la mia strada.
È finita che al termine della vacanze abbiamo deciso di trasferirci in Francia.
Via da Torino!
Malgrado il nostro legame si fosse affievolito è stato mio padre ad aiutarmi chiedendo a monsieur Levreaux, un suo vecchio amico parigino titolare di una fabbrica di strumenti bionici per la fornitura a ospedali, di assumermi in prova per poi, in caso di buon rendimento, assegnarmi un ruolo di dirigente di settore, quello che interessava a me: le apparecchiature sanitarie per disabilità motorie.
Grazie all’interessamento di Levreaux ho trovato un locale in affitto di pochi metri quadrati ma ben tenuto alla periferia sudest di Parigi: E lì mi sono sistemato con Simone.
Il mio ufficio si trova sul Boulevard Saint-Michel, abbastanza vicino al Collège de France, dove Simone passa gran parte delle giornate tra lezioni di filosofia e consultazioni di testi in biblioteca. Per la pausa pranzo ce ne andiamo alla ricerca di locali frequentati in prevalenza da giovani, i nostri occhi puntano dritti sulle ragazze. Da certi sguardi che ci tornano di rimbalzo abbiamo la sensazione che non sarà difficile trovare compagnia abbastanza presto.
Nei vari locali che frequentiamo c’è sempre un televisore che trasmette notizie anche dal nostro Paese: non bastasse il precario andamento dell’economia che potrebbe portarci sull’orlo del collasso e lo squallido scenario di una politica impotente, a completare il quadro dello stato di decadenza in cui ci troviamo non mancano le strazianti riprese dei naufragi quasi quotidiani di barconi stipati da migranti disperati che perdono la loro vita nelle acque delle nostre coste… per non parlare del trattamento antiscabbia al quale vengono sottoposti e persino derisi, costretti a denudarsi nel gelo invernale, presso il centro di prima accoglienza di Lampedusa quelli che hanno avuto la fortuna, si fa per dire, di essere sopravvissuti.
Dopo il Tg Simone scuote la testa fissandomi. Che dire, penso io.
Siamo a Parigi da più di un mese e l’astinenza dall’altro sesso perdura. Troppo, nel nostro caso.
Ho messo gli occhi su Arlette. È la segretaria di Levreaux. Capitava che ci trovassimo alla fotocopiatrice, lei insisteva per darmi la precedenza perché di solito aveva una gran quantità di documenti da riprodurre. Ho sempre declinato l’invito, il che mi dava la possibilità di adocchiarla per bene mentre fotocopiava. Arlette ha due anni più di me, capelli castano scuro raccolti in una spiritosa coda di cavallo, gli occhi di un verde al velluto. Veste rigorosamente magliette nere e pantaloni neri attillatissimi che offrono al mio sguardo una figura fascinosa, perfettamente modellata. Sta di fatto che mi sono bastati pochi giorni per agganciarla. Più avanti mi ha confessato che anche lei ci ha messo del suo per attrarmi, specie quando incrociandoci negli uffici dall’azienda accennava un movimento quasi impercettibile col palmo della mano, un saluto tanto contenuto quanto carico di significato per il mio occhio esperto.
Nel frattempo anche Simone si dava da fare. La sera che si è deciso a dirmelo stavamo cenando nel nostro appartamento: “Lorenzo, mi hai anticipato solo di qualche giorno”.
“Cioè?”.
“Dopo cena esco con una ragazza. Non aspettarmi. Dormirò da lei”.
“Voilà qui est fait!” dico.
“Non è francese, viene da Milano. Vuoi sapere come l’ho conosciuta?”.
“E dài, dimmelo!”.
Il padre di Simone ogni mese fa accreditare sul conto che gli ha aperto presso il Crédit  Lyonnais una congrua somma per mantenersi gli studi e coprire le altre spese. “L’ho incontrata in banca, ma non era lì come cliente o impiegata… era… stavo entrando in agenzia per riscuotere i soldi quando, quasi sulla soglia della porta girevole, mi colpisce una figura femminile che con occhio attento osserva tutti quelli che entrano ed escono. Noto subito che ha un gran bel fisico… nonostante la bardatura”.
“Su Simone, vieni al sodo”.
“Pantaloni blu tendenti al viola infilati sul fondo in stivaletti tipo militare, giubbotto antiproiettile dello stesso colore, sul fianco destro spunta dalla fondina una pistola non saprei dire di che calibro, capelli biondissimi a caschetto in continuo movimento. Quando dopo qualche frazione di secondo si volta verso di me mentre sto per entrare in banca, quasi ci scontriamo. Due occhi grigioazzurri mi trapassano da parte a parte, occhi grandi incastonati in un viso dal profilo dolcissimo, direi rinascimentale per intenderci. Sul davanti, all’altezza del petto, a caratteri grandi quanto basta la scritta FRANCEPOL. È lei la ragazza”.
“Fantastico! Fa la guardia giurata. Solo tu, Simone, potevi trovarne una così”.
“Ti dicevo che stavamo per scontrarci. Ecco che mi scosto e le chiedo scusa, ma in italiano. Troppo confuso da quella visione per rendermi conto che non stavo parlando la lingua del luogo”.
“E poi?”.
“Be’… niente… lei in italiano mi dice non si preoccupi è colpa mia che mi sono girata di scatto. Al che, io cerco di approfittare della situazione. La preda è a portata di mano. Attacco con qualche battuta vagamente criptica mentre lei continua a scrutare l’ambiente a tutto campo, poi le domando come mai conosce così ben la nostra lingua. Scuotendo con quel po’ di malizia il caschetto biondo mi risponde a raffica… "Mi chiamo Francesca… sono di Milano… ho una laurea in lingue… tre per la precisione… Mi trovo a Parigi per specializzarmi in francese… faccio un corso serale alla Sorbonne… Alla sede di Strasburgo del parlamento europeo cercano personale preferibilmente femminile per traduzioni simultanee”.
“In conclusione?”.
“A quel punto la ragazza mi lancia uno sguardo stringendo un po’ gli occhi. È diffidente, e io sono in difficoltà. Mi basterebbe una ‘chiave d’accesso’, come si usa dire in psicologia. Così le chiedo perché ha scelto quel singolare tipo di lavoro. Domanda forse abbastanza sciocca ma che ha funzionato… "Mi guadagno da vivere così… sembrerà strano ma servono le lingue anche in questo mestiere", risponde. “Già, nel caso tu debba intrattenere un’amena conversazione con qualche cliente straniero malintenzionato”. "Spiritoso! Tu piuttosto chi sei e che ci fai qui?“. "Sono Simone, vengo da Torino. Il resto te lo dirò una di queste sere, quando mi onorerai di accettare un invito a cena. Che ne dici? Conosci qualche buon ristorante… Francesca?”.
Hmm…”.
France 1, telegiornale delle 21: quattro soldati italiani giù in elicottero alla periferia di Kabul. Lo stillicidio. Lancio un’occhiata a Simone che indossa una T-shirt nera, jeans Armani bianchi e calza un paio di Hogan ultimo modello. Esce con Francesca. Si vedono da due mesi e ne è innamoratissimo. Mi saluta con una pacca sulla spalla, senza una parola.
Questa sera mi tocca restare in casa da solo. Arlette è indisposta. Le telefono: “Ciao, come va oggi?”. “È una brutta sinusite, mi succede ogni tanto, ci vorrà qualche giorno prima che possa rientrare in ufficio. Dimmi invece di te, dal tono della voce mi sembri un po’ giù”. ”Che ti devo dire, Arlette, tutti questi conflitti vicini ai nostri Paesi che prima o poi rischiano di coinvolgerci! Senza contare la recessione che dilaga pressoché ovunque. Dimmi tu, come cazzo possiamo sperare noi giovani in un futuro dove garantirci un lavoro stabile e vivere in pace? Rischiamo di invecchiare circondati da ‘guerre di cortile’, per dirla con il vostro Jacques Attali. A proposito, hai letto il suo libro Breve storia del futuro ? Te lo consiglio”. “D’accordo, lo leggerò. Ma intanto tu non farti prendere dallo sconforto. Siamo giovani, godiamoci la nostra vita”.
Simone ci ha fatto conoscere Francesca e ormai siamo diventati inseparabili, noi quattro. Quella di Simone nei confronti di Francesca è una cotta delle sue. Lui è fatto così. Quanto a me e Arlette è una faccenda di reciproca attrazione fisica. Nei fine settimana lei mi fa da guida in giro per i quartieri della città. La sua allegria è contagiosa. Al termine del nostro vagabondare concludiamo il pomeriggio nel letto sempre sfatto del suo monolocale; capita anche che quando la nostra eccitazione è ormai del tutto priva di argini, sfilandoci in qualche modo di dosso gli indumenti finiamo sul pavimento ricoperto di moquette.
Pomeriggio di un sabato qualsiasi.
“Eccola là, sulla sinistra. Non vedete l’insegna?” quasi urla Simone. Osservo Arlette e Francesca che si scambiano sorrisetti d’intesa. Simone accelera il passo, siamo sul Boulevard Saint Germain des Près. Lui è già un paio di metri più avanti. Si gira verso di noi, la voce vagamente alterata: È La Hune, esclama, ‘Il Tempio degli intellettuali’, da qui sono passati i più grandi nomi delle letteratura e del pensiero. Vi risparmio di elencarli tutti quanti perché sarebbe troppo”. Si è comprato subito il saggio Le siècle de Sartre di Bernard-Henri Lévi. “Se penso che è ricorso il ventennale della morte di questo grande filosofo e che molti sedicenti intellettuali, compresi certi poveri cristi italiani, lo ignorano del tutto o fanno a gara nel considerarlo marginale nel panorama culturale del Novecento!” bofonchia scuotendo la testa. Poi per  più di un’ora ci aggiriamo tra i corridoi della libreria, che in questi giorni è stata ripristinata grazie a un accordo tra Dior e Vuitton che l’avevano rilevata qualche anno fa, un caso davvero inconsueto di sinergia tra moda e cultura. Ciascuno di noi sfoglia libri di vario genere, Arlette sceglie un paio di romanzi della sua scrittrice preferita. Io tengo d’occhio Simone. Lo diresti in preda a una sorta di estasi, sembra voler inalare l’aria di quei locali e trattenerla dentro di sé per non disperderla nel vuoto.
Poco dopo siamo seduti sulla terrazza di un bistrot. Ordiniamo un improbabile caffè all’italiana, dal tavolo dove ci troviamo si scorge all’interno, di fianco alla cassa, il televisore acceso. È sintonizzato fu France1. Nessuno di noi è interessato ad ascoltare. “La Hune…” sta per dire Simone, ma s’interrompe di colpo. Il cassiere ha alzato il volume, si ode con chiarezza una scarna frase dell’annunciatore: “Nuove minacce all’Italia se non si ritirerà al più presto dall’Afganistan”. Alle ragazze quelle parole sono sfuggite. Io e Simone siamo seduti l’uno di fronte all’altro, i nostri sguardi si cercano e per un istante s’incrociano. Ma Simone si riprende subito richiamando la nostra attenzione con gesti delle mani: “La Hune, volevo dirvi, è un’icona del pensiero scritto, ecco perché mi sono emozionato visitandola. Lo capite adesso o no?”.
Dopo il caffè Arlette ci organizza la serata: “Questa sera ce ne andiamo in una cave a Montparnasse, che ne dite? Si esibiscono complessi musicali di ottima qualità, spero che voi tre sappiate ballare”. Facciamo cenno di sì.
Le ragazze vanno a casa a farsi una doccia e cambiarsi d’abito. L’appuntamento è per le nove. Simone non se la sente di passare prima a casa e mi trascina in un bistrot dove ci facciamo un paio di cognac senza scambiarci una parola. Non escludo che stiamo pensando alle stesse cose.
Arriviamo a Montparnasse su di giri. Mentre stiamo per varcare la soglia della cave dove ci aspettano le ragazze, Simone quasi mi arpiona un braccio e dice: “Sono preoccupato per Francesca: col mestiere che fa potrebbe capitarle qualcosa di brutto. Ieri in un centro commerciale c’è stata una rapina e la guardia ci ha rimesso la pelle”.
“Dài sta’ tranquillo, Francesca sa cavarsela benissimo, vedrai che non le succederà niente. E poi ne avrà ancora per poco, tra sei mesi avrà terminato il corso alla Sorbonne, potrà sbarazzarsi di quella divisa e fare la traduttrice”.
“Si vedrà… si vedrà. Voglio chiederle di sposarmi”.
“Ma che bella notizia! E il tuo corso qui a Parigi? Non sei nemmeno alla metà del primo anno. E i progetti di Francesca a Strasburgo? Mi pare ci tenga molto, o sbaglio?”.
“Fanculo a tutto quanto! Io voglio lei, ce la farò puoi starne certo. Poi mi metterò a scrivere il mio primo saggio filosofico. Quanto a Francesca, con la cultura che ha può trovarsi un lavoro alla sua altezza piuttosto che fare la traduzione simultanea per certi politici ignoranti come capre”. Sta un attimo in silenzio e riprende: “Ma se vogliamo, Lorenzo, c’è un’altra ragione per riflettere sul da farsi… una ragione che forse dovrebbe riguardare anche te”. “E qual è?”. “Noi due, io e te dico, siamo dei disertori. Di questi tempi nel nostro Paese le cose stanno andando a puttane, serve una nuova classe dirigente, c’è bisogno di sangue fresco e noi invece che abbiamo fatto? Siamo scappati via… come conigli”. “Forse non hai torto, Simone”.  
Usciamo dalla cave che è quasi l’alba. A fatica ci infiliamo nella Peugeot 306 di seconda mano che Simone ha comprato per pochi soldi. Simone è al posto di guida con Francesca al fianco, si gira verso di me che siedo dietro con Arlette. È bastato un nulla per capirci, senza dire una parola. Lui estrae le chiave dal volante. Siamo parcheggiati in uno slargo, di qui non passa nessuno. Pochi attimi e sui sedili si forma un intreccio di corpi… mani che si cercano, si insinuano… L’abitacolo si fa saturo di intimi afrori femminili.
Avevamo bevuto troppo, tutti quanti.
Dove abbiamo dormito? Di quella notte ho ricordi nebulosi: in qualche anfratto della mia memoria c’è solo una voce femminile che rivolgendosi a non so chi sussurra Amore mio, la prossima volta ce ne andiamo a respirare un po’ d’aria impressionista dove Manet ha dipinto Le déjeuner sur l’herbe, ma noi due, noi due soltanto.
Il nostro sodalizio a quattro si rafforza di giorno in giorno. E c’è qualche novità: Simone e Francesca hanno deciso di sposarsi appena lei avrà terminato il corso alla Sorbonne, dopodiché cercherà un lavoro temporaneo qui a Parigi in attesa che Simone completi il primo anno del Master. A quel punto prenderanno una decisione sull’eventuale rientro in Italia. In ogni caso lei ha definitivamente rinunciato a Strasburgo.
Tra me e Arlette le cose filano lisce, nessuno dei due cerca di spingere il nostro rapporto al di là della sincera amicizia e del sesso. Ma da qualche giorno Arlette mi ha chiesto di trasferirmi per un po’ di tempo da lei. “Mi sembri davvero giù” mi ha ripetuto.
Comincio a interrogarmi su come andrà a finire.
Oggi è la prima domenica di aprile. Per tutto il giorno sarà un brulicare di turisti, meglio andarsene fuori città. Telefono a Simone: “Che ne dici se facciamo un salto a Batignolles?”. “Ok, chiamo subito Francesca, troviamoci al Café de la Paix, alle dieci, ma qual è il programma?”. “Be’ un giro nei dintorni e il resto in un buon ristorante… con camere da letto”.
Lasciamo Parigi alle spalle. Il paesaggio è tutto luce e colori dai riflessi cangianti. Gli alberi dei boschi che fanno da cornice alla strada sono un armonioso intreccio di verde e marrone che passa dal chiaro allo scuro con una giustapposizione che sembrerebbe studiata. Non ci vuol molto a capire perché più di cento anni fa i principali pittori impressionisti si radunavano da questa parti per dipingere en plein air.
Simone guida rilassato. Dietro, le ragazze cinguettano allegramente. Le osservo dallo specchietto retrovisore, i loro occhi accesi da guizzi di luce. Avverto un caldo nodo alla gola.
A sua volta Simone mi sbircia. “Che c’è da sorridere in quel modo?” mi chiede.
“Niente”.
Di colpo, sorprendendo un po’ tutti, chiedo a Simone di fermarsi. “Dài, facciamo quattro passi. Un bagno di natura non può che farci bene”. Ci inoltriamo tra gli alberi di un bosco in mezzo al quale scorre lento un ruscello dalle acque incredibilmente trasparenti, e ci sediamo sul ciglio dove il corso d’acqua si allarga formando un’ansa ombreggiata dai lunghi rami che quasi sfiorano le nostre teste. Nessuno parla, ma di sicuro tra noi c’è chi sta pensando a quel dipinto.
Poco dopo risaliamo in macchina, il garni dove abbiamo prenotato il pranzo è dotato di pochi tavoli, la clientela abbastanza esclusiva. Ce ne stiamo a tavola per almeno due ore, tutto è stato all’altezza delle nostre attese, compresi i grandi vini di quella zona e un cognac di prim’ordine. Unica nota stonata, la presenza petulante della televisione. Chiediamo al proprietario se è possibile abbassare il volume. Lo fa scusandosi. Nello stesso istante i nostri sguardi vengono come catturati dallo schermo dove stanno scorrendo i titoli di coda delle principali notizie del giorno, e ce n’è una che non ci sfugge: Gravi disordini in Val di Susa, numerosi i feriti tra dimostranti No-Tav e forze dell’ordine. Quattro antagonisti portati in questura per essere interrogati.
Terminato il pranzo ce ne andiamo al piano di sopra dove l’oste ci aveva fatto capire che due stanze molto accoglienti erano a nostra disposizione.
Rientriamo a Parigi in piena heure bleu. Al ritorno guido io, Simone sonnecchia quel poco, prima di chiudersi in un totale mutismo. Ancora sbirciando dallo specchietto, di tanto in tanto osservo le ragazze che si scambiano qualche parola a voce bassissima, gli occhi questa volta socchiusi. Arrivati a Parigi lascio la guida a Simone che accompagna me e Arlette a casa di lei. Francesca resta in macchina con lui e finirà per andare a dormire nel letto che di solito occupo io.
Per circa un mese dopo Batignolles ho lavorato sodo sull’ideazione di un congegno innovativo di robotica sanitaria che potrebbe essere di grande aiuto per certe disabilità. In questo momento sono seduto a un tavolino di un café. Sto aspettando Arlette che è andata dal medico per una imprecisata visita di controllo. Eccola là in fondo al Jardin du Luxembourg. Non è sola, sta camminando a braccetto di una donna; il caschetto biondo di Francesca è riconoscibile anche a distanza. Vedo Francesca staccarsi di scatto, si salutano con un bacio. Poi Arlette si avvia con passo deciso verso di me.
“Ciao” mi dice con un sorriso languido.
“Ciao”. La invito a sedersi. “Cosa ordiniamo?”.
“Per me niente, grazie”.
“Come mai?”
“Così… un po’ di nausea”.
“Non stai bene?”.
“No. Anzi, sto benissimo. La nausea passerà…”.
“Dio, quanto sei bella oggi!”.
“Davvero?”.
“Sbaglio o eri con Francesca poco fa?”.
“Sì, mi ha accompagnato dal medico”.
“Dunque, non stai bene”.
“No. Semplicemente sono incinta”. Mi fissa negli occhi per qualche secondo. A me è parsa un’eternità.
“Sei… ".
“Ti ricordi di Batignolles?”.
“Certo”.
“Quel giorno avevo dimenticato a casa il mio diaframma”.
“Ah”.
Due giorni dopo l’incontro al Luxembourg mi sono preso una settimana di ferie. Avevo bisogno di riflettere.
Ora me ne sto a letto quasi tutto il giorno pensando che in questo modo possa essermi più facile decidere su come uscire da questo tunnel. Lei, Arlette, va regolarmente in ufficio. Mi dà l’impressione di non voler forzare la situazione e non manca di dirmi vedrai che tutto andrà a posto.
Il trillo del cellulare mi sveglia dal torpore, è Simone: “Mi hanno chiamato da Torino, mio padre ha avuto un malore… è in rianimazione alle Molinette, devo tornare subito. Lascio le chiavi di casa al custode, nel caso tu voglia rientrare. Ti farò sapere. Salutami Arlette. Ciao”. Mi dice anche che sta andando in taxi alla Gare del Lyon. Non vuole prendere l’aereo: “Di questi tempi non si sa mai… le minacce di certi terroristi…”.
Decido di rientrare nel nostro appartamento, chiamo Arlette in ufficio per informarla di Simone e le dico che questa sera andremo a cena al ristorante così potremo parlare della nostra situazione.
Tre ore dopo. Senza Simone la casa è vuota. Comincio ad avere fame, l’unico piatto che so cucinare è la solita omelette. Con una mano rompo le uova, l’altra accende la tele. L’annunciatrice è graziosa, ma l’espressione è molto seria. ”Disastro ferroviario in Italia. Il treno partito da Parigi alle undici e trenta diretto a Torino è deragliato, ribaltandosi nei pressi di Domodossola. Si contano almeno cinque morti, numerosi i feriti. Da una prima rilevazione della polizia ferroviaria sembrerebbe che le rotaie siano state manomesse a metà galleria. Il fumo sviluppatosi subito dopo il deragliamento rende difficoltosa l’identificazione delle vittime e l’evacuazione dei sopravissuti. Già avviate le indagini, non si esclude l’ipotesi di un atto di sabotaggio”. 
Lo sfrigolio nel tegame, e verso le uova. “Merda, ma quello era il treno di Simone!”. Telefono subito a Francesca. Non può muoversi da Parigi, oggi è di turno in banca, e non c’è nessuno in grado di sostituirla. Vuole mettersi in contatto appena possibile con la direzione delle ferrovie. Sembra tranquilla. Dopo avere chiamato Arlette in ufficio decido di partire. Un aereo acciuffato per un soffio al De Gaulle e un auto noleggiata in tutta fretta a Torino mi portano a Domodossola.
Adesso qui in ospedale è quasi mezzanotte. Simone figura nell’elenco dei feriti. Mi dicono che è in sala operatoria. Sono semisdraiato su una malconcia poltrona in fondo al corridoio del reparto e sfoglio un giornale che scrive dei soliti casini in varie parti del mondo. Sto per addormentarmi.
Ti senti come fluttuare tra una visione onirica e la realtà fattuale… le irresistibili suggestioni di Parigi, noi quattro gioiosamente insieme… Arlette che dopo l’amore si addormenta di colpo tra le mie braccia… il delizioso caschetto di Francesca con la pistola al fianco… e lui, Simone.
Odo passi che si dirigono lenti versi di me. Ho la sensazione di essere stato risvegliato da sordi rumori provenienti da non so dove.
Prendo il telefono dalla tasca e chiamo Arlette.

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