“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 21 January 2015 00:00

Quanto è difficile dire "stupro"?

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(il tema)
Di una violenza Non voltarti indietro racconta non la realizzazione ma le conseguenze. Racconta il silenzio, l’immobilità, l’assenza di reazione; il desiderio di nascondersi, di seppellirsi, di sparire del tutto. Ne racconta – Non voltarti indietro – la difficoltà di vivere la propria condizione di vittima, il rifiuto che ne viene per il mondo, l’incapacità di parlare di ciò che è accaduto. Stupro. Quanto è difficile, ad esempio, dire “stupro”?
Non voltarti indietro racconta di una ragazza che non dorme perché – quando chiude gli occhi – sente l’odore della saliva dell’uomo che l’ha violentata e racconta di un ragazzo che insiste, attende, s’infuria e si placa, aspetta, persevera, penetra in casa e trascina – lentamente, con furbizia e mestiere – questa stessa ragazza di nuovo all’aria aperta, a una vita che sembra la vita anche se ne è soltanto la forma banale che diamo a questa parola.

Racconta – Non voltarti indietro – un tentativo di salvezza, un recupero, un desiderio di non abbandono che tuttavia ha in sé le inevitabili ambiguità d’ogni aiuto che viene imposto quasi a forza e che punta a sviare più che ad affrontare il problema. Dimenticare è davvero ciò che occorre? Davvero quel che serve è tentare la rimozione, l’inganno memoriale, la distrazione dai ricordi? Lavata, una ferita smette forse di essere una ferita? Una cicatrice, se viene coperta, riduce forse il dolore che provoca? E se non dico la parola che mi fa male, forse il male legato a quella parola svanisce? Quindi, tornando al tema dello spettacolo: una donna stuprata torna a vivere semplicemente convincendola a passeggiare, magari al parco, in piena luce, con indosso un vestito nuovo e – sul volto – un sorriso innaturale? È così che si ricomincia? È così che si riparte? È così che si guarisce, ammesso che si possa guarire?

(il testo)
Il testo di Chiara Boscaro è breve, asciutto, minimale (“Roba estetica, minimalismo” dice a un punto, confessando la propria natura stilistica). Trama di singole scene, forma un copione di momenti posti in sequenza. Leggendolo su Dramma – prima di vedere lo spettacolo – ho la netta sensazione che non voglia fare esposizione di un trauma ma voglia piuttosto discutere di come questo trauma viene analizzato, toccato e vissuto da chi lo subisce e da chi è al fianco di chi lo subisce. È dunque il linguaggio il vero tema di Non voltarti indietro; è la maniera in cui raccontiamo del nostro dolore o ascoltiamo il dolore degli altri; è il modo in cui proviamo a parlare o tacere, confessare o mentire, accettare o rimuovere, affrontare o fuggire. Non importa che in Non voltarti indietro vi sia una ragazza stuprata; non importa perché lo stupro potrebbe essere un tumore, l’amputazione di un arto, un’umiliazione accaduta in pubblico e ogni altro accidente che ci rende vittime al cospetto di tutti e del nostro destino.
Questa Lei di cui seguo le battute, pagina dopo pagina, potrebbe aver subito un qualsiasi altro torto ed essere ugualmente legittimata a non voler più uscire di casa; a non voler più sapere se è mattina, pomeriggio o notte inoltrata; a non voler più chiudere gli occhi, riparare il fornelletto, mangiare, rispondere al telefono, pulire la stanza in cui si trascina da mesi.
Lo stupro è, quindi, solo una metafora: è la metafora dell’affronto subito; dell’ingiustizia che accade e che rende deboli e inermi; è la metafora di un colpo che arriva, fa male e lascia segni evidenti. Il tradimento da parte di chi si ama, che mi destabilizza e mi blocca; il licenziamento improvviso, che mi rende fragile e mi fa provare vergogna; questo malanno così evidente e che, da oggi, mi fa diverso e che mi costringe a starmene qui, rintanato, dove spero che nessuno si ricordi di me, mi raggiunga e tenti di venirmi a riprendere.
“Fammi entrare” dice Lui, voce che viene dall’esterno, oltre porta. “Sono fuori a comprare le sigarette. Torno tra cinque minuti” risponde lei; ovvero: non voglio esistere più, lasciami stare. “Fammi entrare”. “Sono piccola, non posso aprire. La mamma torna tra cinque minuti”. Ti ho detto che non voglio esistere più. Ancora: “Fammi entrare”. Non ho dove farti sedere, sono brutta, non ho le tazzine in cui versare il caffè, non mi lavo da giorni, la casa è sporca, lascia perdere, adesso è tutto diverso, vai via, non dobbiamo necessariamente parlarne, insomma sparisci in modo che anch’io possa sparire. 
Che si tratti di un testo che ha per argomento il linguaggio, ossia lo strumento con cui riusciamo o non riusciamo a comunicare ciò che ci preme, ci assilla, ci sconforta o ci abbatte, lo dimostrano le digressioni tematiche, certi silenzi o certi brevi imbarazzi, le frasi incomplete, i rimandi, i cambi repentini d’argomento e la banalità di alcuni dialoghi, che servono proprio a evidenziare che tendiamo a sprecare fiato, volutamente, per evitare discorsi più seri, complicati.
“Vorrei chiederti come stai ma non te lo chiedo per paura di stare male, o di fare male a te” dice Lui e perciò parla del tempo, dell’arredamento, del frigo da riempire, del colore della stanza; parla di brioche, dei vicini, della televisione e di soldi, di letti e di sedie, parla di quello che potrebbero fare mentre – quando prova invece a dire ciò che dovrebbe dire –  non pronuncia “stupro” ma “problema” e, quando vuol chiederle se ne è rimasta incinta, farfuglia e blatera impropriamente: “Esiste la possibilità che tu…”. Lei, invece, per quanto senta sul petto, alla schiena, ai polsi, sul collo, tra le gambe l’insistente pressione della violenza non la rimarca, non la descrive, non la racconta mai fino in fondo: né a se stessa, né a Lui. Tant’è che io-spettatore cosa so di quel che è avvenuto? Poco o nulla: di notte, Lei passeggiava in un parco, da sola.
Dunque.
Abbiamo un uomo che cerca di portare via una donna dal luogo (e dalla condizione) in cui si trova. Quest’uomo giunge a una soglia, con difficoltà e ostinazione la supera, entra in casa ad occhi chiusi perché Lei non vuole essere guardata. Non la tocca, inducendola comunque ad avvicinarsi a sua volta alla porta, a varcarla, ad uscire. Vi ricorda qualcosa? Ai lettori più attenti non sarà sfuggito che il testo s’organizza e si dà un andamento ispirandosi al mito di Orfeo e di Euridice. L’Ade è la stanza, dentro è la Morte (“Qui è tutto chiuso. C’è puzza di cadavere” dice Lui) mentre fuori è la Vita o ciò che si crede sia la Vita. C’è una differenza, tuttavia: mentre nel mito la proibizione di guardare indietro è imposta dagli dèi degli Inferi all’uomo e porta alla perdita della donna, qui è proprio la proibizione a guardare indietro che viene sollecitata, direttamente dall’uomo alla donna, perché Lei si finga libera dal passato fino ad illudendersi, magari, di esserlo davvero.
Tutto questo com’è reso sul palco?

(la scena)
Marco Di Stefano perimetra una stanza vuota, semibuia e quadrata, distendendo in assito un tappeto bianco. Negli angoli, in ribalta, sul fondo e a mezzopalco sistema gruppi di caffettiere: una, d’ogni gruppo, è rovesciata, rendendo così il collasso della donna, la sua posizione d’abbandono, la sua deriva inerziale. La stanza, senza pareti, è dichiaratamente uno spazio teatrale. L’arredo si riduce a una porta, in fondo sulla destra. A sinistra, sempre sul fondo, una sedia pieghevole, di legno, adagiata per terra. Il corpo di Lei nel mezzo della scena. S’inizia. Una voce fuoricampo ne rende i pensieri: “Che poi non è che tu ne abbia bisogno…”.
“Che poi”: continuazione di un discorso già in essere prima che mi sedessi in platea, prima che s’accendesse la luce, che cominciasse lo spettacolo. Ovvero: qualcosa è già avvenuto ed è – questo qualcosa –  la fonte, il motivo, la ragione di quello che vedo.
Mi incuriosiscono le lampadine che pendono, spoglie, dall’alto. Le conto: otto. Sono un segno teatrale: a ogni lampadina corrisponde una porzione del testo e, infatti, l’illuminazione progressiva delle stesse sottolinea l’avanzamento drammaturgico e funge – allusivamente – anche da richiamo al percorso dalla morte alla vita, dall’inferno al mondo, dalla notte al giorno, dall'interno all'esterno che Lei ha da compiere. Prima scena, primo passo verso l’uscita, prima lampadina che si accende.
Ancora.
Di Stefano produce una contrapposizione cromatica: veste Lei di bianco e Lui di rosso, secondo fonti e iconografia pittorica. Questa contrapposizione serve a visualizzare e caratterizzare ulteriormente la trama. Maggiore è la presenza di Lui nella casa di Lei, maggiore è il numero di oggetti rossi che progressivamente finiscono per arredarla: il pacchetto con le brioche, una sedia, due tazzine, un cucchiaino e la zuccheriera per il caffè, una scatola, una coperta, un cuscino a forma di cuore, un secchio, uno straccio, un paio di scarpe e un vestito. Evidenziazione del livello penetrativo di Lui, abile nel riavvicinarsi, convincere e riconquistare Lei. Abbiamo quindi un’occupazione dello spazio che rimanda alla capacità d’influenza dell'altrui volontà. Lui s’accosta, avanza, sfiora, circonda ed occupa pensieri e intenzioni di Lei come e quanto il rosso s’accosta, avanza, sfiora, circonda ed occupa il bianco dello spazio di scena.
Inoltre.
Il movimento su palco è regolato da un geometrismo evidente (esempio: lui sul fondo, a sinistra; lei in ribalta, sulla destra), fatto di pesi e contrappesi, e che serve a rappresentare il bilanciamento precario tra ansie e patimenti, incertezze e disturbi, forzature e concessioni. Il corpo di Lui presso la porta, il corpo di Lei in pieno palco; i due corpi sulla stessa linea, a destra e sinistra; i due corpi vicini; il corpo di Lei presso la porta, il corpo di Lui oltre soglia, nell’angolo più lontano. I rari oggetti di scena hanno la stessa funzione, come dimostrano – ad esempio – le sedie: unite da Lui, separate da Lei; riposte, poi riunite da Lei in attesa di Lui.
Osservo quindi una partitura basata su simmetria, doppio e rispecchiamento, possibile grazie a due attori che – disciplinatamente – eseguono traiettorie prestabilite, rigorose. Nessuna possibilità di fortuito, di improvviso o di accidentale, in Non voltarti indietro; al contrario: una voluta tensione all’esattezza che asciuga la visione, cercando di renderla coerente con le caratteristiche lessicali del testo.
Sterilità.
Asetticità.
Neutralità.
Sono i presupposti perché una trama che dovrebbe essere piena di pàthos diventi – piuttosto – un discorso proprio sull’assenza di pàthos, di sincera compartecipazione emotiva, di affettività. Come rendo la difficoltà a prendere contatto col male che ci appartiene? Come rendo una storia in cui Lei e Lui non comunicano anche se si parlano per tutto il tempo? Come rendo l’assenza di attenzione reciproca anche se si guardano e dividono lo stesso spazio per un’ora? Come rendo la freddezza che si cela dietro il calore che viene dalle urla, dalle dichiarazioni di desiderio o dalle richieste di rispetto? Inserendo l’interazione in un ambiente astratto, puramente allusivo, e facendo – di questa Lei e di questo Lui – due corpi formali, buoni non per affermare ciò che dicono ma per contraddirlo, smentirlo, sbugiardarlo. “Mi hai detto che mi volevi bene”, “Ti amo”, “I Love You”. Petizioni di principio; frasi fatte, scontate; vuota retorica dichiarativa.
Parole prive di peso e valore; chiacchiere tra le altre chiacchiere.

(nel complesso)
Non voltarti indietro mi sembra un buon lavoro. Mi colpisce l’orientamento alla sottrazione, il vago simbolismo metaforico, lo sforzo quasi astrattivo su cui è possibile, in futuro, insistere ulteriormente. Talora (in un movimento di scena, nella posa di un interprete, in certa meccanicità d’azione e reazione) mi sembra di notare tutta la giovinezza della compagnia, che dà adito a momenti acerbi, a piccole incertezze estetiche. Ma è interessante la capacità di re-inventare il mito, di fare di una storia sulla violenza fisica un ragionamento sulla capacità che abbiamo di condividere e di comprendere l’altro e mi conquista l’ambiguità della trama. Alcune battute, infatti, sembrano alludere a uno stupro privato, piuttosto che esterno e straniero; sembrano concentrare violazione e perdono all’interno della coppia; sembrano adombrare una crudele oscurità − non del tutto percepibile (com’è giusto che sia)− in questo Orfeo sorridente, un po’ impacciato, bonario e indeciso, che è capace tuttavia di picchiare con furia alla porta, di alzare aggressivamente il tono di voce e d’imporsi con modi che sono blandi solo in apparenza.
E così che, mentre ancora m’interrogo sulla doppiezza di Lui, intanto cominciano gli applausi degli altri spettatori.

 

 

 


Non voltarti indietro

di Chiara Boscaro
regia Marco Di Stefano
con Valeria Sara Costantin, Diego Runko
progetto La Confraternita del Chianti
produzione Teatro-in-folio
progetto grafico Mara Boscaro
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Sala Ichòs, 18 gennaio 2015
in scena dal 16 al 18 gennaio 2015


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