“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 15 January 2015 00:00

Ivan Karamazov e il teatro

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Esistono tematiche assolute che costituiscono rovello su cui si lambiccano dalla notte dei tempi le menti degli uomini, santi filosofi o perdigiorno che siano. Ed esistono opere, frutto della sapienza umana, che di queste tematiche assolute – la vita e la morte, l’etica e la metafisica, il bene e il male – hanno offerto filtro allegorico, chiave di lettura, interpretazione personale. Vale ciò ad esempio per l’opera di Fëdor Dostoevskij, che è un concentrato diffuso di trattatistica profonda in forma di romanzo.

Nella fattispecie parliamo de I fratelli Karamazov e, ancor più nello specifico di ciò che da I fratelli Karamazov Alberto Oliva e Mino Manni estrapolano per tradurlo in opera teatrale. Traslazione che avviene – e non potrebbe essere altrimenti – per riduzione, narrativa e tematica, di una parte, di uno spunto, che parte dalla parola scritta dei Karamazov per tradurla in segno teatrale, in scena, in parabola da assito. Teatro "parassita" (termine che non adoperiamo a caso) della letteratura, dunque: se ne serve, ne cava parole temi e sostanza e li rielabora per disegnare la scena; il teatro, come il demone (il "parassita", appunto, come lo chiamerà Ivan) che inzigherà il tarlo del tormento nel turibolo della mente di Ivan, si fa proiezione della letteratura, diviene doppio scenico della pagina scritta.
Seguono una traccia, Alberto Oliva e Mino Manni, e la sviluppano con aderenza ed autonomia ad un tempo, coniugando tematica e visione; la scrittura è il punto di partenza, le tavole del palco il punto d’arrivo in cui la forma compiuta assume le sembianze di una visione originale, quantunque aderente alla testualità estrapolata dall’opera. Nel mezzo, tutto il lavoro di scena, di ideazione, dialogo serrato e marcatamente sbilanciato tra una presenza forte (il diavolo) ed una subalterna (Ivan). Lo spazio scenico in cui si trasla la pagina ha l’angustia scalcinata di una sala da bagno; perimetro romboidale che mantiene aperte le pareti prospicienti la platea, vi siede in centro un Ivan Karamazov in vestaglia, in preda ad un silenzioso tormento; tormento che assumerà ben presto le fattezze del proprio doppio onirico e demoniaco, un demone, che dal fuori dell’allucinazione trasborderà al “dentro” della visione consapevole, ad un “dentro” che è spazio angusto e circoscritto, ambiente unico in cui si svolge la scena, come angusta e circoscritta è la coscienza lancinata di Ivan, in dialogo inesausto col proprio riflesso, in bilico fra inclinazione alla credulità e desiderio di demistificazione, coscienza dilaniata dagli interrogativi insoluti sulle eterne antinomie bene/male, verità/fede. A gettar fascio di luce sul discettare dell’inquieta coscienza è un demone scanzonato, che veste di bianco da capo a piedi, col cilindro calato sulle ventitré ed un paio di escrescenze ossee sui reni a rammentarne la matrice diabolica; ma è un diavolo al grado zero del mefistofelico, bighellone e burlesco, giunge dal di fuori penetrando lo spazio angusto della coscienza di Ivan, sulla quale getta fasci di luce, squarci di coscienza, non lesinando gherminelle e salaci motteggi. Ed è un demone, questo diavolo, che sulla scena si spoglia dei suoi attributi luciferini – in una svestizione che è simbolica e sintomatica dell'umanizzazione dell'angelo precipitato – per mostrare ad Ivan tutta la pragmatica veridicità del sogno allucinatorio. Sulla scena il passaggio dal reale all’onirico è inoltre sancito e scandito dal mutare delle illuminazioni: quando Ivan è solo nel tugurio sudicio che ha le fattezze di una stanza da bagno, la sua coscienza è illuminata dalla debole luce di una lampadina che penzola al soffitto; quando la componente onirica del suo doppio irrompe nel suo spazio interiore, è una serie luminosa e cangiante di fari a prendere il posto della luce reale della lampadina, che di colpo si spegne.
Irrompe, il demone, dopo essersi mostrato in proiezione dietro ad una parete velata; l’illusorio ed il reale si frammischiano fino a sbiadire in dissolvenza, alimentando un gioco di progressiva consapevolezza, un gioco per cui “chi guarda fuori da una finestra aperta non vede mai tante cose come chi guarda attraverso una finestra chiusa”. È un gioco, una burla, una farsa, una canzonatura perpetrata da un diavolo umano nei confronti di un uomo spaesato (Ivan), un diavolo umano che parafrasa Terenzio adattandolo a sé (“Satana sum, et nihil humanum a me alienum puto”), e che Ivan percepisce come “stupido e volgare”, perché lo ricusa, perché le sue istanze ricalcitrano; perché è l’incarnazione di verità che non vogliono essere udite.
“Parassita” è definito il diavolo (da Ivan nel romanzo come sulla scena), ma in questo ambivalente gioco del doppio che prende vita in ribalta, il gioco di rimbalzo dei ragionamenti sul bene e sul male, sull’amore e sulla sofferenza, che contrappone i due interlocutori, vede sfumare le polarizzazioni fra i due personaggi, fino addirittura a ribaltarle, per cui finiamo per avere un diavolo dichiaratamente fautore del bene, demone suo malgrado, il cui ruolo è maieutico e serve a far sgorgare dall’animo cupo e dalla coscienza chiusa di Ivan un sentimento di umana consapevolezza, aiutandolo a dirimere i propri interrogativi più profondi, a stabilire le proprie risposte ultime ai dubbi più ancestrali. Ed abbiamo un Ivan che, progresivamente, s'arrende all'evidenza veridica dell'allucinazione.
È una riduzione scenica, questa di Alberto Oliva e Mino Manni, che riesce a stemperare le tematiche profonde dostoevskiane in una messinscena capace di leggerezza senza per questo perdere di spessore; il tono grottesco e beffardo di un satanasso saggio e pacioso, canzonatorio e consolatorio ad un tempo, ci restituisce un Ivan Karamazov – che dichiara, a scanso di equivoci, la propria identità in scena – illuminato da ciò che la sua mente proietta e che sulle prime rifiuta.
Realtà e allucinazione si bilanciano fino a fondersi e confondersi, in una partitura scenica che regala alle tavole del palco un Ivan Karamazov iuxta propria principia, alleggerito da eccessi di zavorra libresca, libero di confrontare la propria coscienza col proprio doppio speculare, al quale – e qui si sottolinea la prova attoriale di Mino Manni – si ascrive il merito di aver dato vita ad un demone savio e bonario, capace di stemperare con il suo tono da burla i profondi crucci interiori di un Ivan combattuto tra amore e sofferenza, fra fede e raziocinio; un demone capace di irrompere con squarci luminescenti sui dubbi di Ivan (quelli che si consumano al tenue lume di una lampadina giallognola), illustrandogli con l’evidenza nitida della storia umana la necessità della sofferenza, senza la quale non potrebbe esistere il bene.
Costruzione scenica ben bilanciata, Ivan e il diavolo offre degna versione teatrale di due creature letterarie tratteggiandone ottimamente le istanze di cui sono portatori, strappandole alla storicizzazione del passato in cui presero forma per consegnarle al presente di questo (e di ogni) tempo. Come se, portato in scena, il lerciume connaturato alla storia ed all’animo umano, potesse conoscere, attraverso il rito catartico del teatro di cui si fanno demiurghi due attori, una strada possibile non alla sua purificazione, ma quantomeno alla sua intelligenza e consapevolezza.
Le tematiche assolute, quelle che costituiscono il rovello su cui si lambiccano dalla notte dei tempi le menti degli uomini, santi filosofi o perdigiorno che siano, riprendono forma scevra dalla pretesa di regalare risposte ultime e definitive, perché si tratta di interrogativi insolubili, dei quali, fra gli altri, Dostoevskij ha offerto una chiave di lettura e di visione e dei quali, fra gli altri, Alberto Oliva e Mino Manni hanno offerto una congrua visione teatrale.

 

 

 

 

Ivan e il diavolo
da I fratelli Karamazov
di Fëdor Dostoevskij
progetto e regia
Alberto Oliva, Mino Manni
con Mino Manni, Alberto Oliva
scenografia Serena Zuffo
costumi Marco Ferrara
assistente alla regia Silvia Marcacci
disegno luci Alessandro Tinelli
produzione Associazione I Demoni
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Galleria Toledo, 13 gennaio 2015
in scena dal 13 al 18 gennaio 2015

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