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Tuesday, 05 February 2013 08:08

Ecce Mor(t)o

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“Ah, la verità!… sempre in nome della verità dicono loro, sempre per cambiare ancora un po’ le carte in tavola dico io”: la “volontà di verità”, è stato il tipico atteggiamento di coloro (registi come Bellocchio, Baliani, Placido, giornalisti, storici), che nel corso degli anni hanno tentato di ricostruire  la trama dei fatti circa l’affaire Moro, ignari che proprio i fatti non esistono, morti anch’essi insieme ad Aldo Moro.

Non esistono i fatti, esistono solo interpretazioni, e con ciò un superlativo Daniele Timpano, di cui vanno apprezzati  gestualità, silenzi, inflessioni, intonazioni, enfasi con cui ha dato vita al suo testo, non intende affatto fare riferimento a una sorta di relativismo soggettivistico, perché anche il soggetto è il risultato di un’interpretazione, tant’è che a un prima ricerca su Google risulta essere “un’agenzia creativa, dove il talento, la curiosità, la ricerca e una buona dose di leggerezza alimentano progetti di comunicazione…”.
Né la storiografia di destra, né quella di sinistra escono indenni dallo smascheramento, di chi, tramite una ricostruzione genetica individua le contraddizioni, le idiosincrasie, le menzogne di meri punti di vista che hanno l’arroganza di porsi come verità assolute. Aldo morto,  monologo di cui Timpano stesso è autore, intende “brechtianamente” proprio sollecitare l’attenzione e la riflessione critica del pubblico, circa ciò che viene rappresentato, quindi indurlo a leggere tra le righe della tragedia della morte di Aldo Moro.
Nel prologo si elencano subito i dettagli della sua morte, che è la morte in un certo qual senso dello spirito di ribellione di quegli “anni di piombo” il cui slogan potrebbe essere condensato nell’adagio latino “fiat iustitia et pereat mundus” (giustizia in un’Italia democratica, dove, però, parafrasando il Marcuse de L’uomo a una sola dimensione, "La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi"). Ma Timpano ci avverte che “se non è tutto oro quel luccica, non è tutto piombo quello che non luccica”, e infatti i brigatisti, coloro che si sono assunti il compito storico di porre fine al progresso capitalistico, di sviluppare il processo di guerra civile in corso già a partire dal '68 ed impedire con ogni mezzo l’affermarsi delle potenze imperialiste, hanno poi avuto bisogno di rivendicare sempre i propri delitti, di imprimervi il sigillo della loro volontà, esemplificato nella stella a cinque punte, perché “non si è violenti così, per un attimo, a cazzo, senza progetto, senza marketing”.
Un simbolo, quello della stella a cinque punte, che funziona anche se non se ne offre un significato, perché un simbolo è un simbolo, è un brand che funziona. “Bierre-pierre: Geniali”. Coloro che avversavano il capitalismo, paradosso dei paradossi, ricevono poi oggi per i loro libri-best seller, come nel caso di Adriana Faranda, i diritti Siae da quei capitalisti che volevano abbattere, immaginando, a loro tempo, la favola bella di una terza guerra imperialista mondiale.
Nel ricordare,  poi, Aldo Moro, tramite i memoriali dei figli, Timpano tratteggia la figura di un uomo che è il simbolo della pasoliniana ‘italietta del compromesso’, di cui poi lo statista stesso è caduto vittima, vittima cioè della visione solidaristica della politica e dell’avversione per le scelte radicali, poi tradotta nell’atteggiamento di quei sodali (Andreotti, Zaccagnini) che non gli  seppero dare nulla se non una risposta di morte, celata dietro inutili appelli rimasti lettera morta - Libertas, libertas, libertas - mero flatus vocis. Ecco, dunque, che il governo della solidarietà cristiana, di cristiano manteneva solo un mesto riserbo. Cedere ai brigatisti, infatti, e di questo avviso erano anche i comunisti, sarebbe stato come cedere a un ricatto, alle richieste di baratto degli assassini delle brigate rosse. Cedere avrebbe significato far venir meno la certezza del diritto, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
L’uguaglianza, la questione dei diritti, temi questi cari alla sinistra verso cui la Dc si aprì fin dai tempi di Fanfani (per evitare l’ipotesi, prospettatasi con il governo Tramboni, di un governo democristiano appoggiato dall’estrema destra), e di cui il  Pci, con Enrico Berlinguer, seppe cogliere i frutti, già a partire dal '68, dal punto di vista dei brigatisti appaiono, invece, un remake in versione vintage dei temi tipici del marxismo-leninismo, rivisitati alla luce delle mitragliette spargi sangue (e intanto in scena riecheggiano gli stridenti versi della pavoniana “Viva la pappa col pomodoro, perché c’è un popolo a far la rivoluzion").
Ma la riflessione di Timpano non risparmia di muovere una critica serrata anche al concetto di Stato perché, se da un lato il pensiero dei terroristi è aberrante e delirante, se la violenza è terribile - “Passatemi sopra con un carro armato piuttosto ma non costringetemi ad alzare un braccio per colpirvi” - dall’altro sorge davvero il dubbio che il riformismo dello Stato sia un inganno, “che i moderati siano un inganno, che maggioranza e opposizione siano un inganno” che lo sia anche il compromesso di uno Stato etico. E di inganno si tratta, un inganno necessario, indispensabile, di cui ci serviamo per rendere tollerabile e civile la nostra esistenza con gli altri. Il problema sorge, però, sembra volerci dire l’autore, quando l’utopia del rimedio diventa ingenua fede in una verità assoluta.
E’ contro questa che si scaglia il “teatro ardito” firmato Timpano, un teatro che procede per salti logici, analessi, un teatro volto a mettere in luce gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità delle ideologie dominanti, con la speranza di azzerare tutte le interpretazioni e fare emergere quel fanciullino, che placido gioca con la Renault 4,a significare la volontà di non prendere nulla sul serio su quanto è stato detto, neanche di quanto è stato detto da Timpano stesso, perché “i dati certi in questa storia sono pochi ed uno è questo: il corpo”… quello lasciato in via Michelangelo a metà strada tra via delle Botteghe Oscure (sede del PCI) e piazza del Gesù (sede della DC). Un corpo che condensa tutte le contraddizioni di un’epoca, che sono le stesse  di oggi, tant’è che Aldo Moro è morto, “ma non muore, in fondo non invecchia. E’ sempre là… è quelle foto - ve le ricordate? Le foto polaroid, è questa storia rubata a lui, alla sua famiglia, al suo dolore”.
Perché Aldo Moro è immortale.

 

 

 

ALDO MORTO\Tragedia
drammaturgia, regia, interpretazione Daniele Timpano
collaborazione artistica  Elvira Frosini
aiuto regia, aiuto drammaturgia Alessandra Di Lernia
oggetti di scena realizzati da Francesco Givone
disegno luci Dario Aggioli
editing audio Marzio Venuti Mazzi
elaborazioni fotografiche Stefano Cenci
progetto grafico Antonello Santarelli
produzione amnesiA vivacE
Caserta, Teatro Civico 14, 3 febbraio 2013
in scena il 2 e 3 febbraio 2013

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