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Monday, 22 December 2014 00:00

Il destino di un mimo mancato

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L’aspetto più interessante di Cetriolinì non è la fattura della trama né la sua effettiva resa attoriale: colpisce, piuttosto, la dimensione simbolica dello spettacolo, la sua natura evocativa, la sua funzione memoriale. Non siamo al cospetto d’una storia ma al ricordo di questa stessa storia, già avvenuta e qui richiamata in palcoscenico perché sia vista, conosciuta, ascoltata.

Cosa racconta Cetriolinì? Una comune vicenda di ostinazione e dissipazione artistica. Un giovane che vuol fare il mimo; il suo viaggio di speranza e formazione verso Parigi; le progressive disillusioni lavorative e di palco; il ritorno a Roma, l’ulteriore fallimento, la sparizione. Vi sarebbe materia per fare discorso sulla condizione presente del teatro, sulla costrittiva e ridotta possibilità della nuova generazione di affermarsi come teatranti, sulle ostative condizioni che burocrazia istituzionale e culturale, privatizzazione di spazi pubblici, consorterie varie impongono a chi – quanto meno – vuol mettersi alla prova, al cospetto del pubblico. Preferiamo invece porre attenzione alla scenografia che, in un buio traversato da luci calde, offre – a lato – una costruzione rituale-cimiteriale: un tondo costituito da pezzi di sughero, all’interno del quale troviamo: spazzole e un panno da lustrascarpe, una spugnetta, un cappello, una bottiglia che fa da portacandele. Nell’aria il forte odore dell’incenso. Chi vediamo è – quindi – defunto, morto, sparito; chi vediamo non esiste essendo esistito, avendo provato, essendosi arresto; chi vediamo non appartiene al presente ma al passato e, dal passato, ritorna: per questi cinquanta minuti d’apparizione. Rifrazione fantasmatica, spettrale testimonianza di chi ha già vissuto, ricordo che riassume consistenza corporea, muscolare, forza mimica, voce. Il cerchio, posto a sinistra, è dunque un giaciglio di cianfrusaglie allusive ma funge anche da fonte effettiva della vicenda, che torna così a esistere. Il frammento di una battuta (durante la vendita del lucido da scarpe il protagonista ne dichiara il prezzo: “Ventimila lire”) dà la conferma. Lire, non euro. Dunque anni trascorsi, data lontana, epilogo già avvenuto.
Regia e scenotecnica che ne deriva offrono spunti da annotare: l’uso dei fari, utile ad accompagnare il dettato generando ambienti e interlocutori illusori, con cui l’unica figura in scena si rapporta e confronta; la reiterazione di brevi musiche d’accompagnamento, che  connotano emotivamente il momento, inducendo il pubblico a una partecipazione empatica; i rumori oltre-scena, che servono ad arricchire alcuni passaggi dello spettacolo d’ulteriore ironia o d’amarezza in aggiunta (le pernacchie).
Con pari onestà occorre però scrivere che Cetriolinì – pur nella sua dimensione di “studio” e, quindi, di definizione teatrale ancora incompleta – mostra una trama semplificata in eccesso, priva davvero di consistenza e di caratterizzazione : se è ipotizzabile la scelta di lavorare sul consueto per farne parabola sovraindividuale (una storia talmente basilare da poter appartenere a tutti, da qui il nome “Mario Rossi” del protagonista), è altrettanto vero che i cinquanta minuti che offre sono colmi di luoghi comuni, di associazioni verbali e immaginarie facili, di riferimenti scontati.
È la trama il limite vero di Cetriolinì; lo è nel momento in cui fa muovere il suo personaggio a Parigi spingendolo tra Torre Eiffel, Notre Dame e quartiere di Montmartre, naturalmente dopo aver tentato di acquistare baguette e croissant; lo è quando induce a visualizzare – di Roma – Colosseo, Circo Massimo e Basilica di San Pietro; lo è quando genera brevi sketch (le telefonate, l’incontro/scontro con i piccioni) il cui svolgimento risulta ovvio. Così piace quando – in pieno impegno parigino – rende l’alternanza tra lavoro di sostegno e scuola di mimo con l’alternanza di due pantomime a velocità crescente (rimando all’acquisizione di pratica e all’abitudinarietà quotidiana) mentre delude quando introduce – orpello fine a se stesso – le imitazioni di Eduardo, Celentano e Troisi, di Andreotti, Pulcinella e Totò (segni di vocazione artistica).
Si aggiungano certi riferimenti davvero troppo facili alla degenerazione televisiva da reality (la casa, i confessionali, “mi nominavano sempre”) e alla propensione attoriale ad esporre curriculum fasulli ai provini (Pina Bausch, Cinque du Soleil, Marcel Marceau) e si comprenderà che la scrittura di Cetriolinì sembra, al massimo, assolvere alla funzione di debole pretesto per la realizzazione di smorfie, di vignette, di quadri di genere: la preparazione “contemporanea” di un panino, il numero del muro, l’interpretazione dell’ubriaco, lo spavento al cospetto della polizia.
Partitura esile, fin troppo, conquista davvero attenzione solo quando gioca con l’inverosimile (il cartellino da lavoro che, lanciato, torna indietro come un boomerang), quando propone neologismi (“Marionale”), quando fa uso ironico dei rari oggetti di scena (una suola, una valigia, un guanto, la macchinetta del caffè), quando riesce – nella complessiva monotonalità espressiva – a regalare attimi di poeticità istantanea (il dialogo con la piccola marionetta di stoffa raffigurante Charlie Chaplin, preceduto da un “essere o non essere” che sembra rimandare al rapporto amletico con Yorick, buffone e padre putativo del principe). Meno convince, invece, la parentesi interna stabilita dalla duplice citazione della frase eduardiana “Te piace ‘o Presebbio?” (metaforizzazione, forse, dell’illusione artistica e delle fatiche che, per essa, si devono affrontare) e il generale andamento di uno spettacolo che vive alternando – talora stancamente – sussulti e malinconie, battute e silenzi.
Si muove tastando l’aria, Luchino Lombardi, plasmandola in oggetti invisibili e mancando ripetutamente contatti ed abbracci e – quando parla, confessando la sua aspirazione – non viene compreso: amici, padre, madre, passanti sembrano neanche conoscere questa parola (“Mimo”) per il quale lui spasima, soffre, al quale dedica tempo, sudore, fame e vergogne. Viene in mente Gordon Craig quando afferma: “Forse avresti fatto meglio a dire ‘Voglio volare’, anziché pronunciare queste parole spaventose: ‘Voglio darmi al teatro’” giacché è di una condanna, di un’esperienza infernale e di un’offesa sfiancante, continua, che mortifica fino ad abbattere che stiamo parlando. Così, per metonimia – potremmo aggiungere – Cetriolinì  diventa anche la tentata rappresentazione della lotta e della sconfitta d’ogni sogno abortito, d’ogni proposta rifiutata, d’ogni progetto che muore senza neanche aver potuto tentare davvero.
Se buone sono queste intenzioni, se attualissime quando associate alla situazione presente dello stato dell'Arte, rimane però la sensazione netta che − Cetriolinì − sia ancora un lavoro acerbo, manchevole, che non incide quanto potrebbe: né in termini estetici né in termini contenutistici. Ed è, parere di chi firma l'articolo, soprattutto nel rapporto tra interprete e trama (piuttosto che nella relazione tra trama e regia) che vanno ricercati i miglioramenti: perché, questa vicenda, diventi indimenticabile.
Cala il tono delle luci, il chiarore diventa penombra, più incerto si fa la sagoma dell’attore su scena. Sfumano i contorni, c’è silenzio, dal pubblico non viene respiro. Sfoca, progressivamente, chi abbiamo veduto. Torna l'assoluta oscurità dell'inizio. In questo buio un soffio spegne la candela.
Chi abbiamo conosciuto si disperde, completamente.
Termina così la storia di un mimo, termina così una vita mancata.

 

 

 

 

 

 

Cetriolinì. Favoloso destino di un mimo
di Luchino Lombardi
regia Luca Saccoia
con Luchino Lombardi
produzione Nerosesamo
foto di scena Davide Mennitto
durata 50'
lingua italiano, francese
Napoli, Teatro Start/Interno5, 19 dicembre 2014
in scena dal 19 al 21 dicembre 2014

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