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Friday, 12 December 2014 00:00

Ettore, Mimma e Mimì

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(la finzione)
Narra la solitudine, Piccolo e squallido carillon metropolitano, costringendo un fratello, una sorella e un altro fratello diventato una sorella a convivere in uno spazio strettissimo, costipato, ricolmo, nel quale il tanfo intasa l’olfatto mentre la vista è ripiena d’oggetti, di mercanzia inutile, di vecchiume: santini, madonne, cristincroce ovunque, in questo scorcio di vicolo, in questa topaia di quartiere in cui – fuori – stridono le urla dei bambini, appuntite "come baionette", mentre − dentro − domina l’odore nauseabondo e stagnante dell’incenso.
Una casa, di una casa una stanza, in questa stanza tre figure che – pur stando assieme – sono dunque lontane l’una dall’altra.

Vi sarebbe materia per farne rappresentazione verista, realismo teatrale, quadro di genere offrendo uno spaccato periferico, facendo ascoltare la sotto-lingua del vicolo, usando macchiettismo e cliché. Davide Sacco invece intuisce che, in teatro, non c’è posto per la realtà e che – al massimo – la realtà può essere allusa, evocata, ricordata vagamente tradendola ovvero traducendola esteticamente, riformulandola attraverso i segni, organizzando una metafora, caricando una visione. Comprende, Davide Sacco, che l’interno-camera non necessita di quinte chiuse, di cartaparati, di polverosa mobilia da salotto e che basta evocarlo il ciarpame – santini, madonne, cristincroce – perché il ciarpame sia presente. Per questo impone a mezzo palco una raggiera bianca, di legno, composta da cinque pannelli rettangolari, aperti, simili a cornici vagamente intarsiate; fa pendere dall’alto un mobiletto e una sedia (iconica mercanzia dell’arredamento teatrale che fu); decora il piccolo spazio di ribalta con una sedia e cinque fiori bianchi: rigorosamente finti. La scenografia è una dichiarazione d’intenti: raccontiamo l’indifferenza, il dolore, la fragilità dei rapporti; raccontiamo "la fame, la sete, il lutto, la solitudine"; raccontiamo il peso dei silenzi e il corso addolorato degli anni; raccontiamo un fratello che rifiuta un fratello, una sorella che (si) nasconde la propria condizione di orfana; raccontiamo un uomo che diventa una donna, una donna che finge di rimanere bambina; raccontiamo un uomo che non riesce a essere un uomo e che fugge, scappa, evita, si allontana, abbandona. Raccontiamo una storia, questa storia abita in periferia, in un buco metropolitano, piccolo e squallido ma – per raccontare questa storia – usiamo una suggestione, generiamo un’immagine, proviamo a offrire una finzione: il carillon.

(il carillon)
È un carillon, dunque, la struttura semicircolare che taglia a metà l’assito, riducendo il perimetro d’azione ulteriormente, costringendo gli interpreti ad accalcarsi, recitandosi addosso in questo spazio che è una scatola, un luogo (semi)chiuso, all’interno del quale possiamo sbirciare soltanto perché vi è la prima luce (il faro perpendicolare alla boccia di vetro) che è segno, simbolo, evocazione d’apertura e d’inizio.
È un carillon e perciò le tre figure entrano ed escono come tirate da molle invisibili, s’alternano in palco (solitarie, a coppia) attraverso un realizzato movimento di scena che prevede un andamento duplice, coordinato, contemporaneo: individualmente lineare poiché gli interpreti effettuano un entra-esci funzionale passando dal retro alla parte anteriore del palco, per poi tornare di nuovo nel retro; collettivamente circolare perché i due fratelli si scambiano di posto, ruotando da sinistra verso destra, prima di tornare nella posizione d’origine.
È un carillon ed è, per questo, basato su una cronometria calcolata, limitata, finita: la storia inizia, si svolge e ha termine come inizia, si svolge e ha termine, il giro del gioco imposto da una carica.
È un carillon e per questo gli interpreti alternano presenza ed assenza ma – l’assenza – è comunque una presenza: fermi, fissi, in penombra e di spalle, non spariscono oltre quinta o fuori scena ma restano come resta il soggetto di un qualsiasi carillon quando non gli tocca (far finta) di vivere.
È un carillon e per questo le tre figure appaiono, compiono la propria recita, dando vita al proprio assolo, prima di zittirsi nuovamente: come non avessero fatto altro che eseguire il proprio dovere, il compito imposto o una necessità inevitabile. Sagome poste su un fondo nero decorato di bianco, Mimì, Ettore e Mimmo/a, dunque parlano e si parlano non riuscendo mai a parlarsi fino in fondo. Un frammento dello spettacolo per far comprendere.
Luce in alto, intensa; Ettore e Mimmo/a sono l’uno contro l’altro stando l’uno di fronte all’altro, l’argomento è il padre: “Io amavo mio padre” dice Mimmo/a ed è la battuta che dà inizio ad un a-parte spasmodico, detto a mezzo tono, che sa di confessione primaria, interiore, dolorosissima: la luce cala d’intensità, il corpo dell’attore è volto verso il pubblico mentre – in un gioco di rispecchiamento uguale e diverso – Ettore farfuglia, altrove, le proprie rancure. Il tempo è sospeso, non ha qui svolgimento: ascoltiamo il monologo segreto che appartiene a un dialogo evidente, poi “Io amavo mio padre”: torna la frase, utile a riprendere il discorso interrotto.
Piccolo e squallido carillon metropolitano è – in questo modo – un intreccio di esistenze parallele, rese in una parallela esistenza di scena. Ci guardiamo, ci sfioriamo, diciamo e ascoltiamo, riusciamo anche ad abbracciarci senza tuttavia comunicare davvero, senza davvero riuscire ad esistere l’uno per l’altro.
Frammenti di una costruzione complessa, apparteniamo alla stesso ingranaggio. Questo è ciò a cui ci siamo ridotti. 

(la verità)
Mimì finge l’età bambina. Ha trent’anni e rifiuta la morte materna. Confonde "tema" con "temma", dorme "sotto il letto", vive una "religione da lei propriamente creata" che prevede la reincarnazione di chi non c'è più. S’accovaccia, impone giochi, si lamenta scimmiottando capricci. Quando sta per piangere inumidisce le pupille, senza far scivolare le lacrime. Sembra non comprendere ma comprende, non ascoltare ma ascolta e osserva, nota, reagisce. Blatera emettendo stridori di voce, spezzati da un tono adulto, improvviso, maturo: "Mimì non è scema".
Ettore mostra una compattezza che non gli appartiene: isolato, malinconico, fallimentare, torna per rivendicare ed imporsi. Entra, batte i piedi, avanza deciso un braccio, una mano, urla, comanda, porta ordine finendo per perdere ogni certezza possibile. Viene dal Nord, al Nord è destinato a tornare. "Non sono l'uomo che credi" direbbe a suo padre se, a suo padre, potesse ancora parlare.
Mimmo è Mimma: arde, desidera, spera di vivere dopo avere sopravvissuto. Ha sulla pelle, nello sguardo, nel timbro vocale il peso dei sacrifici, degli insulti, dei rifiuti. Mimma ama Andrea, ne ama la schiena nuda al mattino. Mimma si sveglia alle 5:45, si alza alle 5:48, lavora al supermermercato fino alle 13:20, alle 15:21 esce per il secondo lavoro, torna alle 21:15, alle 23:50 esce di nuovo per lavorare, torna a tarda notte. "Fa questo tutti i giorni" Mimma. Mimma s’agita, nervosamente, ma sono gli spasmi residui di un corpo ormai logoro, stanco. Ligia al dovere, soffre ormai questo dovere come si soffre la galera, una condanna, un destino non desiderato.
“Tiriamo una linea, una piccola linea” si dice, ad un punto, per distinguere il bene dal male, ciò che addolora da ciò che profuma. Ma è davvero possibile separare con nettezza, stabilire giusto e sbagliato, decidere chi ha ragione e chi ha torto? “La verità ci gira intorno” – dice Ettore – “cambiando a ogni giro e noi giriamo e cambiamo assieme a lei”. Qual è la verità di Piccolo e squallido carillon metropolitano? Ed esiste davvero una verità? Quanto affetto e quanto egoismo c’è nel comportamento di Ettore, Mimmo/a e Mimì? Quanta dedizione all’altro e quanto bisogno di alleggerire se stessi? Quanta comprensione e quanta stanchezza? E noi, quanto amiamo e quanto odiamo chi ci è di peso, chi ci sta accanto ammalato, chi fa scelte o ha comportamenti che non comprendiamo?
No, non c’è verità o, almeno, non c’è una verità confessabile e accettabile interamente. Così il carillon di Davide Sacco gira perché muti la consapevolezza di sé e dell’altro: impone lo scambio d’abiti, l’inversione di ruolo e di genere, imponendo l’illusione di una comprensione possibile ma è solo un momento: chi viene da destra, da sinistra e dal centro, è destinato a tornare al suo posto. Spinto a completare il suo vortice – il carillon – fa coincidere (amaramente) la partenza all’arrivo, la fine all’inizio.

(un dubbio)
C'è un dubbio, su carillon, che riguarda la tenuta meccanica della costruzione. Appurato che si fa metafora, che la messinscena è un marchingegno, che ciò che si offre è una scatola-gioco con le sue figure (indotte a girare su se stesse, a muoversi innaturalmente, a pigolare un sussulto) va anche notato che – in alcuni momenti – l’impressione è che questo bel costruttivismo ceda alla recitazione del pàthos e del contenuto emotivo. Se la strada scelta dalla regia è quella della trasfigurazione allora non v’è spazio per la psicologia del personaggio, per la riviviscenza dell’angustia giacché – ogni dato personaggio – non è che uno strumento con traiettorie d’automa, privo perciò di tensioni drammatiche e di sincerità d’anima. Benissimo quando Orazio Cerino (Mimmo/a), ad esempio, accelera il battito della mano al volto truccandosi, accompagnando con pari tensione gestuale la tensione verbale: ne viene il rispetto dell’idea di partenza, velocizzando progressivamente il braccio destro. Meno funzionano, invece, i frammenti in cui – uno qualsiasi dei tre attori – deve generare compatimento in chi osserva. La tortuosa rete degli affetti è qui un sotto-trama, fondamentale sì, ma che si è deciso di traslare in un dramma strutturato artificialmente. Nessuno spazio, quindi, per la verosimiglianza delle passioni.
Questa sensazione si ha quando il dettato s’appesantisce, quando s’allunga, quando – invece d’essere scarno e immediato – insiste aggiungendo parole a parole. Ornamento estetico, asciuttezza del dialogo, manierismo mimico, assoluta precisione nei moti, propensione agli scatti, alla destrezza di manovra e straniamento del tema, perché ne emerga la verità testimoniale, sono le caratteristiche necessarie perché il carillon – per quanto allusivo d'un interno periferico contemporaneo – sia davvero un carillon.
Si apprezza la ripetizione ritmica di una frase (“Lui? Lui è Fefè. Sta dormendo”; “Facciamo un gioco?”) e la ripresa contenutistica con variazione tematica (“Che cos’è la malinconia?”, “Che cos’è la gioia?”, “Che cos’è la normalità?”); si apprezzano l’uso accorto dei fari (i tre monologhi a centro palco, con luce a strapiombo), certo incedere elencatorio (“Mammà morta, papà morto, fratello ricchione, Fefè dorme e… fratello sconosciuto”) e l’utilizzo di non-sense verbali o mimici (il nascondersi di Mimì dietro la boccia di vetro) così come si apprezzano la meticolosità dello scambio di ruolo/posizione/vestiti (il cappotto, la vestaglia) e gli incontri calibrati tra i personaggi, certe battute sfumate, alcuni brevi silenzi intensissimi mentre rallenta – questo carillon – quando costringe gli attori a tirate eccessive o all’articolazione di frasi vagamente barocche, ridondanti (“Bestie vestite da uomini che pregano dio”).
Si tratta di un dubbio che appartiene a chi firma l’articolo, al cospetto di uno spettacolo che merita: che merita di essere visto, che merita il confronto e l’analisi, che merita d’apparire su scena proprio perché possa così perfezionarsi.
In un sistema teatrale decente Piccolo e squallido carillon metropolitano avrebbe le sue repliche, la sua turnazione d’assito, le sue possibilità di mostrarsi incontrando favori e confrontandosi – nel caso – anche con i suoi limiti. Ma il panorama d’intorno è sclerotizzato, simile al “carillon rotto” e immobile cui accenna Ettore/Giovanni Merano, ed è costretto perciò ad apparire raramente, quando capita, quando ci si ricorda.
Sono questi i pensieri di chi scrive, mentre cominciano – in sala – gli applausi.

 

 

 

 

 

Piccolo e squallido carillon metropolitano
di Davide Sacco
regia Davide Sacco
con Orazio Cerino, Giovanni Merano, Eva Sabelli
scene Luigi Sacco
costumi Silvia Tagliaferri
luci Francesco Bàrbera
Napoli, Nuovo Teatro Sancarluccio, 9 dicembre 2014
in scena 9 e 10 dicembre 2014

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