“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 09 December 2014 00:00

Il teatro degli spiriti

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Roberto Latini fa de I giganti della montagna una partitura scurissima, solitaria, percepibile appena. Innalza tra il palco e la platea un velario sottile, dispone nel piccolo spazio di Sala Ichòs cinque finte zolle di spighe e usufruisce di luci fredde o soffuse, deboli, scarne. Così facendo rende il suo corpo una presenza larvale, mai chiara del tutto, mai davvero definita nella sua dimensione corporea.

Assistiamo allo spettacolo di un attore ma, questo attore, è una buia rifrangenza, un’apparizione chiaroscurale. Sfumano le gambe; le braccia, il petto e le spalle hanno una definizione parziale mentre – del volto – intuiamo talvolta un occhio e una guancia, talaltra una parte della fronte, un orecchio. La voce, assistita da più microfoni, suona differente e distorta: pluritonalità teatralizzata, per cui s’accumulano echi fantasmatici, gravosi accentuazioni di spavento, vocalità roche o stridule, risatine tremende. Nascono, dalla scena, e si diffondono per tutta la sala le presenze dell’opera di Pirandello e non sono manifestazione fisica, ma sono spiriti, fantocci semitrasparenti, evocazioni che appartengono al buio e che restano al buio (o che, al massimo, avanzano facendosi notare in penombra) ma che parlano, respirano, dicono del loro dramma, della loro esistenza.
S’odono in sottofondo gli starnazzi notturni degli uccelli, una luce a mezza sala fa sera lunare, prima che sia nero fitto. In quest’atmosfera la prima frase detta da Roberto Latini: “Io… io… io… io… ho… paura”. Comincia dalla fine, Latini, ovvero comincia dall’ultimo scampolo de I giganti di Pirandello, comprendendo che il sentimento di terrore, tremendo e benefico, è la linfa emotiva dell’opera.
Un carretto d’attori in dissesto, poveri, miseri, senza più alcuna fortuna, giunge in un luogo abitato da strane figure malinconiche, appartate: teatranti al cospetto di giocosi allestitori di spettacoli fatti di lampi, saette e d’anime che prendono forma e fanno racconto. Si tratta – è noto – di una rispecchiamento: la villa di Cotrone è un teatro, il teatro appartiene alla villa di Cotrone e, difatti, “sono dei nostri” dice il Mago riconoscendo, negli attori, lo stesso destino che è degli Scalognati. Latini rende questo progressivo avvicinamento. Lo fa emanando – dall’assito – brevi barbagli, lampi visivi, frammenti di pose momentanee: siede, accucciato, ed è la Contessa, portata sul carretto, mentre – quando staziona a centro palco – diventa l’insieme di figure che abitano la villa tant’è che, la sua maglia verde, è un richiamo cromatico alla “lingua verde sul tetto” ch’essi sferrano al buio. Senza che sia percorso neanche un metro, assistiamo così alla realizzazione di un approdo. Sulla destra di chi guarda pende un lampadario, a otto luci. Sia chiaro: è arneseria d’avanzo, vecchia rimanenza, simbolo, pura attestazione ambientale. Ci dice, illuminato fiocamente, che siano nella villa. Qui comincia l’opera davvero: si fa massa di presenze e dialogo, facendo monologo solitario. S’alternano così pezzi di battute, singole frasi o interi passaggi de I giganti posizionandosi in parti differenti del palco, si passa da un microfono a un altro microfono e – quando è il momento in cui Ilse fa la sua recita – si lascia salire dall’esterno una musica da ballo, tardiva e memoriale: il ricordo torna a farsi sentire, allegro un tempo, oramai dolcemente triste, nostalgico.

Il lavoro di Latini va visto, inutile raccontarlo. Assunto l’impegno critico di scriverne conviene sottolinearne piuttosto la capacità di comprendere pienamente il testo di riferimento e di trascinarne in palcoscenico i motivi fondanti, pur trasfigurando l’opera sul piano visivo. Ciò che sembra davvero abbia colto è la ragione stessa de I giganti di Pirandello. L’opera, si narra, nasce come mito teatrale ed è (anche) dovuta alla sventurata sera del primo dicembre del 1927, quando la compagnia di Pirandello è costretta a recitare I sei personaggi al cospetto d’un pubblico di braccianti, che nulla coglie della messinscena, che niente comprende delle parole. “Fummo costretti a uscire di nuovo sul palco e a dire ‘guardate che è finito’, perché tutti rimasero pietrificati e non si muovevano” racconta Rina Franchetti. In virtù dell’episodio – effettivamente alla base del capolavoro – troppo spesso s’è messo in palco I giganti come una riflessione sul rapporto tra il Teatro ed il pubblico, tra il Teatro e la società che ripudia l’Arte dei guitti, dimenticando che I giganti ha subito un’evoluzione profonda e che, il copione, ha assunto ben altri significati.
Diviene – per Luigi Pirandello – l’occasione di una vera e propria pacificazione col Teatro in quanto Teatro, inteso non più come “vignetta animata” che svilisce il lavoro degli autori attraverso la propria natura posticcia, ma come vera e propria esperienza chimerica, riservata a un pubblico di iniziati che ha il privilegio – avendo scelto di sedere in platea – di assistere al mostrarsi delle ombre, delle figure, dei personaggi.
L’evento infelice che Pirandello vive, recitando ai contadini, sparisce mentre prende posto una riflessione sull’Arte di scena intesa, dunque, come insieme di prodigio e d’astuzia, d’inganno e di tecnica, di fantasia e di mestiere. Così, quando Cotrone dice “Siamo qua come agli orli della vita” la parola fondamentale della frase è “orli” giacché segnala che il teatro appare al confine, sul margine, lì dove la vita non è quasi più vita mentre già si presta a diventare diceria ricreativa, incerta sostanza metaforica. E quando – sempre Cotrone – continua dicendo che “gli orli si distaccano”, che “entra l’invisibile”, che “vaporano i fantasmi” descrive esattamente la concezione teatrale dell’ultimo Pirandello e – di rimando – anche la concezione del lavoro di Roberto Latini, che fa de I giganti un teatrale sortilegio dell’invisibile: come chiamandoli, ad uno ad uno, dal fondo del palco, lascia che si presentino in ribalta le figure fantastiche generate dall’autore, mostrandole nella loro dimensione ombratile, pestilenziale e incantevole: reali e irreali, false e veritiere, eteree e carnali, sono sembianze vedibili ma soltanto per la breve porzione di tempo che loro spetta.
D’altronde è ancora Cotrone a spiegare che i prodigi della villa (e del teatro) avvengono “perché a noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé” e che – quando un’opera scritta trova il suo compimento – è perché i personaggi possono apparire così come appaiono nella fantasia dell’autore, “senza che ci siano corporalmente”.
Dopo aver battagliato lungamente con gli attori, amati e odiati perché inclini a tradire il dettato drammaturgico, Pirandello pensa quindi all’attore come ad un tramite alchemico, come ad uno strumento d’apparizione. Sempre meno muscolare, l’ultimo attore pirandelliano è egli stesso un essere differente, capace di abitare quella sottilissima membrana di mezzo che separa ciò che è vero da ciò che vero lo sembra soltanto. Uomini (o donne) che “non appartengono alla realtà quotidiana” ma che – almeno per il tempo dello spettacolo – “sono del mondo superiore dell’arte”. E così si regola Roberto Latini facendo perdere peso al proprio stesso corpo: nudo nell’ombra o di nero vestito, se intorno domina il nero. E quando deve farci intuire l’Angelo centouno della Sgricia si slarga sul volto una maglia bianchissima, perché il suo viso prenda il colore sbiadito degli spettri e poi, con una fascia-calza color carne, fa perdere nettezza ai suoi connotati. È un momento-chiave perché, con esso, si ottiene la certezza che Latini abbia davvero capito la natura ambigua e tenebrosa de I giganti, la sua labilità scenica, la sua stranezza sfuggente.
Per questo fa scivolare polvere dalle mani; per questo – postosi controluce, togliendosi la maglietta – lascia evaporare pulviscolo; per questo una pioggia di bolle discende dall’alto morendo sul palco: perché cos’altro sono se non polvere, pulviscolo e bolle, i personaggi di teatro e le loro vicende, che appaiono per il tempo che serve a farsi notare, prima di sparire al battito degli applausi?

Sale sui trampoli, ad un punto, Roberto Latini, chiamando in altezza i giganti del titolo, che sono dell’opera l’incombente pericolo, lo sventurato futuro. In realtà si tratta di un’ulteriore deformazione corporea, di un’ulteriore dimostrazione che – tutto ciò cui assistiamo – ha la stessa consistenza di un sogno, abitato da “larve evanescenti”. Piace ricordare – a chi non lo sapesse – che I giganti ebbero prima un altro titolo, quando apparve nel 1931 come atto unico, su Nuova Antologia: si chiamava I fantasmi. Ecco, Latini sembra aver scoperto I fantasmi celati nell’arsenale de I giganti, sembra aver perlustrato l’opera come si perlustra la villa, attirandoli in scena. “Attirare” è il verbo esatto. Perché queste sostanze teatrali già esistono ma vanno spinte e costrette a farsi vedere. E riprendendone i gesti, ripetendone le parole, innescando un processo di materializzazione timbrica ch’essi tornano facendo del palcoscenico – da luogo vuoto – un luogo pieno.
C’è un’immagine di Pirandello, dovuta al nipote Andrea, che ce lo descrive intento alla lettura di un testo: egli legge il suo lavoro e si resta affascinati “dalla sua trasformazione in tante figure e voci diverse e dalla tensione intorno, come all’assistere a un rito arcano”. A questa va unita la testimonianza di chi lo vede, sul palco spoglio del Valle, presentare agli attori i Sei personaggi: ci dice Dario Niccodemi che Pirandello diventa un tripudio energico “di parole, di suoni, di urli”, che il suo volto si tramuta demoniacamente, che la fronte lascia intravedere “strani fulminei corrugamenti” mentre la voce s’aggrava per far entrare, certe espressioni, nella mente di chi ascolta. Prende tutte le sembianze, Pirandello, recita tutti i ruoli – “fa da uomo e da donna” per citare I giganti – esattamente come fa Roberto Latini a Sala Ichòs, collegandosi idealmente alla pratica originaria del Maestro: tralasciando, invece, le tante recite che, in quasi un secolo, di quest’opera sono state fatte.

C’è l’ultimo momento su cui occorre sostare un attimo. Il gigante/Latini s’appende a un lungo ceppo di legname, al lungo ramo d’albero che gli fa da bastone. È, di fatto, l’ultimo segno dello spettacolo. Si tratta del ramo d’ulivo che Pirandello immagina di voler far sorgere nel centro di scena, per chiudere I giganti che, si sa, è opera priva di finale. Con il rantolo che gli rimane confessa l’idea al figlio Stefano, mentre poggia la testa al cuscino, con la Morte che lo attende a un metro per portarselo via. Riflettendo, oltre lo spettacolo di Latini, piace pensare che l’albero che Pirandello desidera far nascere ne I giganti sia un richiamo all’ulivo saraceno sotto cui nasce – nella piana del Kaos – quando la madre fugge dall’epidemia di colera che devasta Girgenti. Pirandello unisce così l’ultima scena dell’ultima opera sua al suo stesso venire al mondo, chiudendo il cerchio: “C’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”.
Tornando a Latini ed al suo I giganti, la scelta del ramo diventa perciò l’ulteriore suggestione del legame che l’attore/regista ha saputo stringere con l’autore siciliano. Sia pure una forzatura del critico ma ci sembra che, con questo ramo, sia giunto fino alla fonte, Latini: nel grande bosco di querce e d’ulivi, nel “vuscu de Causu”, dove Pirandello inizia il suo involontario soggiorno sulla Terra. Un luogo simile, quasi identico, a questa vallata erbosa, a questo spiazzo nel quale sorge, solitaria e decaduta, la villa di Cotrone.
Lì è giunto Latini, intuendo che – nello stesso punto in cui tutto ha avuto inizio – tutto è destinato a finire.
Così pensa Pirandello, così capita ne I giganti della montagna.
Così accade a teatro: ogni notte, ad ogni replica.

 

 

 

 

 

NB. Le immagini a corredo dell'articolo sono di Lucia Baldini

 

 

 

I giganti della montagna, atto primo, radio edit
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
produzione Fortebraccio Teatro
lingua italiano
durata 50'
Napoli, Sala Ichòs, 7 dicembre 2014
in scena dal 5 al 7 dicembre 2014


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