“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 03 February 2013 15:10

Martyrs o del Male

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Una bambina seminuda e col volto tumefatto corre disperatamente in strada e terrorizzata urla a squarciagola. Uno pseudo documentario della durata dei titoli di testa ci informa che la bambina, di nome Lucie, è stata recuperata ed accolta in un orfanotrofio dove ha fatto amicizia con una sua coetanea, l’amorevole Anna. La piccola Lucie, specificano gli autori del documentario, era tenuta prigioniera in una casa abbandonata, e lì, legata ad una sedia, era stata vittima di torture fisiche e psichiche. Queste le prime sequenze del film Martyrs, pellicola del 2008, opera del regista francese Pascal Laugier e presentato al festival di Cannes quello stesso anno con accoglienze contrastanti. Inizialmente in patria era stato anche vietato ai minori di 18 anni (cosa che in Francia non accadeva da vent’anni), poi il divieto si è abbassato a 16. Il film è appartenente a quel nuovo filone di cinema d’oltralpe denominato horror nouvelle vague. A nostro avviso è estremamente riduttivo etichettare un’opera del genere.

Il lavoro in questione presenta indubbiamente tutti i segni distintivi dell’horror, ma se ne distacca in maniera sorprendente nella seconda parte del film (tanto che la prima e la seconda sembrano due opere distinte e separate), quando vengono abbandonati gli schemi classici della grammatica cinematografica orrorifica per concedersi un ritmo (di una lentezza devastante) che lascia costantemente lo spettatore nudo ed inerme a riflettere su quanto sta vedendo sullo schermo. Questo stacco netto, dicevamo, fa del film un qualcosa di diverso dal classico horror e rende l’opera, dal punto di vista strutturale, molto originale. Le due parti però non sono slegate, la trama è lineare e lo sdoppiamento è dovuto essenzialmente solo al cambio di ritmo e di pathos,  mantenendo invariato lo stile registico.

Ritornando ai fatti filmici, le due bambine crescono insieme, ma Lucie rivive sempre più spesso gli orrori vissuti in quel luogo infernale. Inoltre, un mostruoso fantasma la perseguita tagliuzzandola con un grosso coltello su tutto il corpo (i medici credono sia la stessa Lucie ad autoinfliggersi le ferite). Passano gli anni, Lucie ed Anna sono diventate donne. Sono inseparabili (sembrano una coppia, essenzialmente la relazione rimane però platonica, lasciando solo intendere un eventuale coinvolgimento sentimentale più fisico). Lucie continua a subire le apparizioni di questo orrendo fantasma, e soprattutto continua a portare terribili tagli sul corpo. Un mattino, lontano dalla sorveglianza della dolce Anna, la nostra Lucie fa irruzione in una casa e stermina un’intera famiglia (padre, madre e figli) a colpi di fucile. Telefona ad Anna e la informa che ha trovato i suoi aguzzini e che li ha finalmente giustiziati (aveva visto la foto della donna su di un giornale). Anna, sconvolta, la raggiunge sul luogo. Occulta i cadaveri, Lucie intanto si perde nei suoi continui flashback (nonostante la vendetta compiuta non ha ancora trovato la pace) e scopriamo che il fantasma che la perseguita altri non è che il ricordo di un’altra donna vittima delle torture di quella casa. Durante la fuga di Lucie da quel luogo ebbe l’occasione di liberarla, ma non lo fece per paura di essere acciuffata. Capiamo ora che il mostro che continua a perseguitarla è il rimorso della sua coscienza. Quella stessa notte il fantasma “della colpa” torna a farsi vivo più agguerrito che mai (forse perché Lucie ha finalmente ricordato nei minimi dettagli il momento della sua fuga) e costringe Lucie ad infliggersi dei tagli profondissimi. Anna prova ad intervenire, ma stavolta non può più aiutare la sua amica. Lucie, esausta, si sgozza sotto i suoi occhi. È ovvio che questa sequenza rappresenti già un grosso colpo di scena per lo spettatore. L’eroina è morta, e siamo solo alla metà del film. Ci accorgiamo però subito dopo che la vera protagonista è Anna. È sempre stata lei il cardine della vicenda. La sua compassione, il suo amore, il suo darsi incondizionatamente a Lucie. Un amore ed una devozione che hanno le sembianze del sacro, ne è prova la scena in cui, dopo la morte di Lucie e dopo averla pianta col cuore straziato, accompagna il suo trapasso con la cura del cadavere. Lava il suo corpo, lo copre delicatamente con una tenda bianca e veglia su di lei per tutta la notte, il tutto con una sacralità stupefacente. I colpi di scena, però, non sono finiti. Al mattino, quando ormai è intenta a lasciare quella casa sfortunata, la nostra Anna sente dei rumori provenire dalle pareti. Scopre un interruttore segreto che apre una porta nella libreria e appare una donna scheletrica e con una sorta di maschera di ferro sulla faccia. La donna è ricoperta di tagli (nel complesso estremamente simile alla visione che perseguitava Lucie) e vaga per la casa. Anna, stupefatta, comincia a credere alla versione della sua cara amica morta. A quanto pare, quella semplice famiglia borghese aveva davvero qualcosa di orribile da nascondere. Non ha tempo per pensare oltre, si occupa della nuova vittima con lo stesso zelo che aveva nell’accudire Lucie. Estrae, non senza sforzi, la maschera dal volto della donna scheletrica (gli era stata letteralmente inchiodata) e cura le sue ferite, ma invano. La donna, infatti, le scappa via correndo per la casa e colpendo ripetutamente la testa contro la parete. Poi, in possesso di un coltello trovato in cucina, inizia a tagliarsi per tutto il corpo. Anche lei insomma ha la stessa ossessione autolesionistica di Lucie. Anna è impotente, non riesce ad intervenire, ed in quello stesso istante fa irruzione in casa un gruppo di uomini in divisa di tipo militare che, senza troppi fronzoli, spara alla testa della donna impazzita.

A questo punto inizia un altro film. Fin’ora avevamo assistito ad un horror, anche piuttosto banale, truculento e dal ritmo forsennato. È in questo momento però che l’opera porta lo spettatore nel suo significato profondo, e lo accompagna lentamente, quasi per mano. Anna viene prelevata dagli uomini in divisa ed accompagnata (e noi con lei) nel passaggio segreto che porta ad un enorme luogo sotterraneo. Sulle pareti foto di uomini e donne torturate (le foto sono vere, si tratta di immagini che la storia in tutta la sua bruttura ci ha consegnato). Anna viene accompagnata davanti ad una anziana donna (scopriremo poi essere il capo di questa strana setta) la quale le spiega ciò che sta per accaderle. Da anni sono alla ricerca dell’aldilà, di una possibile prova della sua esistenza ed hanno teorizzato un modo per ottenere queste informazioni. “Le persone si suddividono in vittime e martiri” dice l’anziana signora. I primi reagiscono alla sofferenza subendola, fino ad alimentarla a tal punto da impazzire (il caso di Lucie e la donna scheletrica entrambe intente a pratiche masochiste). I secondi invece la “accettano” abbandonandosi completamente alla natura del male senza opporle resistenza riuscendo quindi a trascendere il proprio corpo al punto da arrivare ad ottenere con l’estasi un contatto con l’altro mondo e rimanendo al confine delle due dimensioni (trasfigurazione). Compito di questa setta è quindi quello di creare martiri, “ma i martiri sono rari” specifica la signora. Le mostra delle foto che rappresentano i torturati al momento della trasfigurazione. Il loro volto appare estraneo al corpo materiale ed intento a contemplare il puro pensiero. In parole povere cercano un testimone (martire, dal greco μάρτυς – testimone) che faccia da tramite tra l’altro mondo e il nostro (una sorta di Ermes moderno). A questo punto possiamo fermarci un attimo ed individuare alcuni collegamenti in modo tale da trarne spunto per una qualche riflessione. Tutta l’opera ruota intorno al significato del dolore, sia fisico che psichico. Il dolore fisico (che poi diventa inevitabilmente psichico) provato dalla piccola Lucie e dalle altre persone torturate dalla setta, il dolore psichico (che poi diventa inesorabilmente fisico) sperimentato sempre dalla stessa Lucie attraverso i soprusi e il senso di colpa per non aver aiutato un altro essere nelle sue stesse condizioni al momento della fuga, e che lo accompagnerà fino alla fine provocandole la morte. L’atto violento, o per meglio dire, il dolore sembra quindi legare indissolubilmente carne e spirito in una morsa irreversibile. Sembra sensato pensare quindi che l’unica soluzione possibile affinché una componente non si ripercuota sull’altra (carne su spirito e viceversa) sia quella di separare le due sostanze. Ma come è possibile ciò? La soluzione proposta dall’anziana signora è l’accettazione del Male. Accettarlo significa far in modo che le conseguenze del trauma fisico non prevalgano sulla mente. Solo in questo modo il pensiero può distaccarsi dal corpo sensibile e contemplare quel che c’è oltre la materia. Ma questa contemplazione è estremamente utilitaristica, gli ideatori di tale progetto infatti vogliono attuarlo per uno scopo ben preciso, sapere se c’è un aldilà e eventualmente conoscerne i segreti. L’intero processo cade quindi interamente nell’insieme dei fenomeni e, per questo motivo, estremamente materiale. Un paradosso, quindi. Servirsi dell’antimateria per trasformarla in materia e per vivere meglio questa stessa materia che è il mondo terreno (è innegabile infatti che conoscere il senso della morte significherebbe semplicemente vivere meglio la vita). La nostra Anna assiste impietrita ai discorsi dell’inquietante signora. Viene poi portata in una stanza e legata mani e piedi ad una sedia. A questo punto la visione del film diventa insostenibile. Anna viene ripetutamente percossa e umiliata (è costretta a defecare ed urinare sul posto, la sedia su cui è seduta presenta un buco al centro sotto il quale vi è un secchio). Di tanto in tanto una donna (della setta) le pulisce le ferite e le regala qualche parola di dolcezza, non per compassione, ma per non saturarla al dolore e mantenere vivo in lei il contrasto tra Bene e Male. Quel che raccapriccia infatti è l’impressionante sistematicità e metodicità delle torture. Il martirio quindi non come atto di fede, ma esperimento scientifico, un prodotto da laboratorio. In questo senso il film risulta estremamente blasfemo. Il martire infatti, secondo la fede cristiana e musulmana, è colui che fa apostolato della sua fede a costo di subire persecuzioni fisiche, fino alla morte. In tal senso, l’ascesi non risulta essere uno strumento di contatto con l’aldilà per farne testimonianza “al di qua”, ma una capacità di distacco mente-corpo che metta in contatto lo spirito, attraverso la preghiera, con il divino. Il film sembra quindi prendere nettamente le distanze dal concetto religioso del martirio, concentrandosi più specificamente sull’uomo e la sua relazione col Male. Lo spettatore stesso deve misurarsi, durante la visione, con il suo grado di sopportazione. Sia ben chiaro, le scene mostrate non sono violentissime, il “più” è fuori campo, sicuramente avevamo assistito ad una violenza visiva superiore nella prima parte del film. Ma era una violenza già nota. Siamo assuefatti a teste che esplodono e sangue che schizza dalle carni. La seconda parte del film invece ci mostra una violenza tutta nuova, perlopiù concettuale. A rafforzare il senso di disagio dello spettatore è il fatto che a subirla sia la protagonista. Una donna che ci ha empatizzati nella sua vicenda di ragazza tutto cuore, e che ora, inerme e indifesa, subisce ogni sopruso. Siamo impotenti quanto lei, eppure speriamo che da un momento all’altro arrivi qualcuno, qualcosa, qualsiasi cosa, a salvarla. Anna intanto si sta abbandonando. Il suo volto è sempre più assente. Viene picchiata e non grida nemmeno più. Intanto, nei momenti di tregua una voce incomincia ad insinuarsi nel buio della stanza nella sua mente. Non è la voce di Dio. Sta iniziando a trascendere la povera Anna, ma è solo la sua voce che le parla. Una voce dolce, che la aiuta ancora di più ad accettare, a patire indifferente. I suoi aguzzini (impressionante anche la loro semplicità nel compiere quel che fanno, sembrano quasi impiegati d’ufficio che vanno al lavoro ogni giorno senza fare una piega) avvisano l’anziana signora che forse Anna è quasi pronta per l’ultima prova. Anna sembra ormai un’altra persona, il suo volto ci appare diverso (davvero notevole la prova di Morjana  Alaoui) e noi ancora a sperare che succeda qualcosa. Del resto i minuti scorrono, il film è già durato abbastanza e sappiamo che sta per finire. Dev’esserci un colpo di scena (che poi sarebbe, lo ammettiamo, banalissimo), non possiamo accettare che il film si concluda in modo così atroce. Niente. L’opera va verso il finale in maniera sempre più impietosa (e con una lentezza che fa malissimo). Anna si prepara all’ultima prova: essere scuoiata viva! L’intera operazione non è mostrata. Lo spettatore non assiste a questo scempio dal vivo, del resto anche Anna forse non c’è più. Immaginiamo infatti che durante l’ultima terribile prova la sua mente trascenda ed anche lei, come noi, non assista del tutto all’operazione. Anna viene appesa come un pezzo di carne a dissanguare, poi accomodata su di un lettino ormai in estasi totale. Qualcuno dice all’anziana signora “è pronta”. La vecchia si avvicina al volto di Anna (unica parte del corpo non scuoiata) che le sussurra qualcosa all’orecchio.

Poco dopo delle grosse e lussuose macchinone assediano la villa della signora. La casa all’interno è strapiena di uomini e donne in abito elegante, tutti in attesa della rivelazione del “testimone”. Intanto, in un’altra camera l’anziana signora si aggiusta i capelli. Un uomo entra e le chiede: “cosa le ha detto?” e la donna risponde: “saprebbe immaginare cosa c’è dopo la morte? No? Rimanga nel dubbio”, poi si introduce in bocca una pistola che aveva precedentemente preso dal cassetto e spara.

Il finale, come tutto il film, è leggibile in varie interpretazioni. Una parafrasi possibile delle scene conclusive potrebbe essere rappresentata dall’ennesimo paradigma dell’élite (questi signoroni in abito scuro e con grosse macchine) che schiaccia e opprime i comuni mortali sotto il suo giogo per ottenerne un ulteriore privilegio. Rilevante, certo, anche l’interpretazione tutta metafisica con l’uomo distinto in due sostanze, corpo e anima. Una metafisica però naturalistica (e quindi in contraddizione con se stessa) dove lo strumento di indagine non è la fede intesa in senso religioso, ma la conoscenza scientifica, ne è esempio, come già detto, l’esperimento da laboratorio attuato dalla setta, e la speculazione contemplativa che ne consegue. Abbiamo letto, prima di iniziare questo scritto, un po’ i pareri dei vari critici cinematografici (improvvisati e non) che popolano il web. Anche in questo caso, come a Cannes, i pareri e le letture sono diversi e contrastanti. C’è chi ha visto solo della spazzatura per morbosi spettatori voyeuristi, c’è chi ha gridato al capolavoro, alla meraviglia. Quasi impossibile trovare una recensione che stia nel mezzo dei due giudizi. Martyrs è un film difficile. Da vedere e da valutare. A mente fredda (abbiamo visto il film per la prima volta un po’ di anni fa e lo abbiamo metabolizzato ampiamente con successive visioni) possiamo dire che è un film che sicuramente fa pensare e non lascia assolutamente indifferente. Attenzione, siamo del parere che il Cinema che faccia pensare non debba essere necessariamente un capolavoro. Deve semplicemente avere i requisiti giusti, ossia qualcosa da dire. In questo senso Martyrs è senza alcun dubbio Cinema d’Autore. Ai fini delle nostra riflessione poco importa se la confezione sia ben impacchettata o meno (abbiamo già commentato in precedenza film che avevano, a nostro avviso, qualcosa da dire, ma non erano riuscitissimi), del resto poi ci sembra di poter dire che l’opera in questione sia anche molto ben girata, tra l’altro in modo originale nella seconda parte, e molto lucida nell’esporre il suo contenuto. Ma qual è il contenuto precisamente di quest’opera? Ebbene, forse l’insostenibilità del film sta proprio nel suo messaggio di superficie: la giustificazione del Male. La tanto decantata accettazione infatti è vana se non si trova una giustificazione a questo Male. È ovvio quindi che un film del genere appare tanto insostenibile quanto pericoloso, o forse insostenibile proprio in quanto pericoloso. Giustificare il Male è un atto inaccettabile (in questo senso giustificazione ed accettazione sono inscindibili). Possiamo comprendere l’esistenza del Male e considerare che sia un qualcosa di naturale, intrinseco all’uomo stesso, ma non possiamo certo darne una motivazione razionale, farne cioè un atto lecito (se per lecito intendiamo tutto ciò che ha una logica). Ultimamente si sta scrivendo, in ambito filosofico, dell’umiltà del Male (termine e concetto che prendiamo in prestito dal libro omonimo di Franco Cassano, un tentativo di giustificazione non tanto del perché il male esista quanto del perché il male persuada l’uomo contemporaneo). Il Male, cioè, appare in modo modesto, a volte sottomesso, in maniera tale da  attrarre l’uomo moderno più del Bene che invece, all’opposto, sembra avere i connotati risolutivi di un illuminismo che confida ciecamente e presuntuosamente nel progresso e perfezionismo dell’umanità. Ad onor del vero, non ci pare che il film voglia intendere il Male in questo senso. Non sembra, cioè, nelle intenzioni degli autori operare questa dicotomia tra Bene e Male qualificandoli con gli aggettivi di “presuntuoso” e “umile”. Quel che appare più evidente quindi è la totale lucidità del Male, la sistematica operosità utilitaristica. La setta infatti compie su queste povere malcapitate le torture più atroci per uno scopo ben preciso. Possiamo quindi parlare di “razionalità del Male”. A questo punto, in quanto razionale, assolutamente giustificato e legittimo (almeno per chi lo compie). Il Male rappresentato da Laugier, quindi, è un vero e proprio sillogismo. Un processo logico perfettamente condivisibile. Se però analizziamo le proposizioni che compongono tale sillogismo (e qui entriamo nel messaggio più intimo del film) ci accorgiamo in realtà di trovarci di fronte a quello che Aristotele (e chi meglio di lui in quanto a sillogismi) definiva entimema. Nel momento in cui una delle premesse che compongono il sillogismo non è certa, ne consegue che il risultato sarà altrettanto incerto. La setta infatti muove tutto il suo operato basandosi sull’assioma che il martire possa fare da testimone tra l’altro mondo e questo, un dato quindi tutt’altro che certo (così come non ha nessuna certezza asserire che esista un altro mondo oltre questo fisico, c’è addirittura la possibilità che non esista nemmeno questo stesso mondo fisico, ma questo è un altro discorso). In senso generale, dunque, e ad un’analisi più profonda del film, il Male appare indubbiamente un fenomeno logico e naturale, ma viziato alla base (o quanto meno discutibile e relativo, pensiamo ad esempio a casi in cui un male può essere un bene per un altro e viceversa). Il film sembra quindi tenere ben presente quale sia la causa di questo Male, anche se probabilmente, se è corretta questa interpretazione, non propone una soluzione palese a tale problema (in questo senso l’opera è incompiuta). La proposta di accettazione rappresentata da Anna non può infatti risultare una soluzione, perché in contraddizione con quanto detto (come accettare il risultato di un assioma sbagliato?) Su una cosa però sentiamo di essere in accordo con gli autori del film, il Male va capito. Studiato, sperimentato senza certo incentivarlo, ma mai rinnegato. In questo senso accettarlo significherebbe invece imparare a controllarlo. È sicuramente un modo di controllarlo anche quello della setta in questione, il Male rappresentato dalla paura della morte è un Male autentico ed eterno. Ma controllarlo alimentandolo (cioè provocando altro Male utilizzando delle cavie) non è la soluzione, è il suo perpetuarsi. La vecchia che si spara in bocca lasciando tutti i suoi facoltosi adepti nel mistero sembra voler simboleggiare proprio la futilità della sua causa e del suo operato, anche se bisogna ammettere che lasciare il mistero su quanto detto da Anna in fin di vita all’orecchio dell’anziana donna fomenta una certa ambiguità. A volte è importante, fondamentale, visionare altri lavori dell’autore per comprendere appieno ogni sfaccettatura di un’opera. Laugier aveva girato in precedenza solo un altro film, Saint Ange. Una ghost story del tutto anonima, che crediamo non aggiunga assolutamente nulla al contenuto del successivo film (giusto delle similitudini con le visoni di Lucie molto somiglianti ai fantasmi che popolano il suo film di debutto succitato, tra l’altro, a dover di cronaca, gli effetti speciali di entrambi i film sono opera del bravissimo Benoit Lestang, purtroppo morto suicida dopo la realizzazione di Martyrs). Aspettiamo quindi nuovi lavori di questo interessantissimo autore.

In conclusione, anche se le lacune lasciate dal finale sembrano rilevanti, il film complessivamente appare come uno dei prodotti recenti più interessanti del panorama cinematografico di genere. Un cinema che sembra purtroppo aver smesso sempre più di pensare, concentrandosi semplicemente sul monetizzare il gusto dello spettatore.

 

Retrovisioni

Martyrs

regia Pascal Laugier

con Morjana  Alaoui, Mylène Jampanoi, Catherine Bègin, Xavier Dolan-Tadros, Isabelle Chasse

produzione Canal Horizons, Canal+, CinéCinéma, Eskwad, TCB Film, Wild Bunch

prodotto Richard Grandpierre, Simon Trottier

sceneggiatura Pascal Laugier

paese Francia

lingua originale francese

colore a colori

anno 2008

durata 97 min.

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