“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 15 November 2014 00:00

Considera l'aragostina: Eugenio Montale a Lisbona

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Nel giugno del 1954 Eugenio Montale è a Lisbona per una conferenza sulla letteratura italiana contemporanea. Questo viaggio gli offrirà lo spunto per due testi in prosa e una poesia. Le brevi prose (Portogallo e L’incantevole ora dell’aperitivo all’ombra dell’Avenida a Lisbona) hanno avuto un diverso iter editoriale e sono oggi raccolte nel Meridiano a cura di Marco Forti, Prose e racconti; la poesia, senza titolo (nota con il primo verso: Dopo lunghe ricerche...), si può leggere in Satura (1962-1970). Rimando a questo bell’articolo di Giulia Falistocco per inquadrare queste (e altre) prose di viaggio montaliane all’interno dell’evoluzione poetica dell’autore.
“Evoluzione”, certo, è una parola equivoca; la meno adatta a un poeta che, proprio in Satura, aveva scritto:


La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
[...]
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.

Ecco, da quanto Montale scrive sul Portogallo, si può dedurre che gli parve di trovarci, appunto, una sorta di binario morto della Storia, un treno fuori orario, l’anello di una falsa catena che – come nelle superstizioni attorno alle catene di sant’Antonio (di Lisbona) – minaccia disgrazie inenarrabili per chi le interrompe, per chi smette di seguirle, allenta il passo o si ferma. Sessant’anni dopo, mutatis mutandis, le impressioni di chi visita il Paese forse non sono poi così diverse. Il fascino degli ormai ultrasecolari tram gialli, delle case cadenti lungo i vicoli di un centro storico cresciuto come una enorme kasba solo in parte toccata dal razionalismo urbanistico moderno (preparato dalla tragica “haussmanizzazione” del terremoto del 1755), di una gastronomia essenziale e abbondante che resiste alle dosi razionate del fast food e della nouvelle cuisine internazionali, tutto porta verso una reazione montaliana agli stimoli di una città assurta a simbolo di una certa cultura meridiana che arranca dietro una modernità diretta altrove, verso il nord di nessun sud. A cambiare magari è la coscienza, anche politica, che rielabora certe sensazioni. Ma torniamo a Montale e a ciò che vide nel 1954.

In Portogallo (corsivo, ossia luogo testuale, chissà quanto reale, pubblicato sul Corriere della Sera e poi raccolto nel volume Fuori di casa, del 1969) il poeta vede e descrive “una delle ultime classiche riserve di Strapaese” che “il Cielo ha meglio preservato dalla volgarità”. Dove per volgarità s’intende, per contrasto, ciò che caratterizzerebbe “le nazioni poste alla frusta del progresso” (oggi diremmo alla frusta del Pil o del fiscal compact). E subito, con una mossa del più puro agnosticismo (o polignosticismo, se si vuole), l’autore elenca diverse cause, che ciascun lettore potrà/vorrà riconoscere come prioritarie, per questa “maglia rotta” portoghese nella rete del progresso mondiale: mancanza di capitali d’investimento, eccessiva influenza cattolica sull’indole del popolo, atteggiamento antimodernista da nazione ammuffita ecc... Sta di fatto che a Montale il ramo ferroviario secco del Portogallo, goduto nello spazio breve di un viaggetto di lavoro, piace.
Se nel Regno Unito il poeta aveva visto come “la civiltà dell’uomo meccanico mostra il suo volto pauroso”; se in Svizzera – sia pure evocando la necessità di “un ritorno abbastanza lungo e durevole al mito e alla realtà della prosperity” (l’articolo su Saint-Moritz è del ’49, pochi anni dalla fine della guerra) – vede la “maledizione del denaro”; negli scritti portoghesi, invece, Montale è divertito, curioso, a volte distratto (come quando incontra la celebre fadista “Anita” Rodrigues), capace di sospendere il giudizio etico sulla dittatura al potere, ma non di trattenere l’affilato rasoio estetico sullo stile di vita della monarchia passata (vedi il palazzo dei Braganza, a Sintra, giustamente additato come tempio gozzaniano delle buone cose di pessimo gusto). Se l’avessero portato al British Bar, presso il molo dei traghetti sul Tago, si sarebbe innamorato dell’orologio che da decenni incanta artisti, turisti e altri tipi di perditempo sensibili, quello con le lancette che girano al contrario. O forse, più che innamorarsene, vi avrebbe scorto la tragica impossibilità di uscire dal tempo con una semplice inversione nello spazio, una rivoluzione (nel senso, anche, di rotazione) fasulla, dato che perfino l’orologio di quel vecchio bar di Lisbona, pur fingendo di andare controcorrente, resta preciso e addirittura affidabile come un orologio qualsiasi, per chi debba prendere il traghetto.
La “favola bella” del ritardo del Portogallo e gli scherzi dell’orologio british mi ricordano un bel titolo di un brillante economista dell’ICS (l’Istituto di Scienze Sociali di Lisbona), Pedro Lains: Os Progressos do Atraso (“I progressi del ritardo” 2003). È un volume che raccoglie saggi di storia economica del Portogallo degli ultimi duecento anni; racconta come, sia pure scontando un endemico ritardo rispetto al resto d’Europa (in particolare rispetto alla solita locomotiva anglo-franco-tedesca), il Portogallo abbia faticosamente provato (a costo di lacrime, sudore e sangue) a stare al passo con i tempi sin dai tempi in cui il gap ferroviario era tanto grave quanto oggi il digital divide.
Lo stesso poeta, nella sua seconda prosa portoghese (L’incantevole ora dell’aperitivo all’ombra dell’Avenida a Lisbona), cerca di essere ancora più prosaico e butta giù due righe di aggiornamento economico: “L’escudo è una moneta forte, lo Stato non ha debiti, la deflazione ha dato i suoi frutti, buoni e meno buoni. Fra i meno buoni metterei quello inerente ai bassi salari”. Insomma il Portogallo low-cost di sempre, quello che oggi delizia frotte di residenti stranieri e allarma gli economisti impauriti più dalla deflazione che dalla buona vecchia inflazione di una volta. Un Paese trasandato ma simpatico, relativamente povero e assolutamente ospitale, con in più tutte le caratteristiche che oggi l’Europa esige per l’ennesimo doloroso strappo verso una “modernità” sempre inafferrabile: drastica riduzione del debito e moneta forte. Ma stavolta, come fanno notare gli euroscettici, senza sovranità monetaria. Che poi, in dittatura, a chi apparteneva la sovranità monetaria? Montale non si chiede come siano stati ottenuti certi risultati, anzi commette l’errore – all’epoca piuttosto frequente, dato lo sdoganamento di Salazar, specie nel dopoguerra, tra le democrazie occidentali – di considerare il salazarismo un regime mite che – scrive il futuro Nobel a chiare lettere – governa bene, tollera addirittura l’ateismo e amministra le colonie africane senza preconcetti di razza. Giudizi affrettati, da bar, che probabilmente spiegano l’esclusione di quest’ultimo articolo dal volume del ‘69. Eppure sbaglierebbe chi pensasse che una certa piacevole sorpresa nei confronti di questo “involgare” (parola che in portoghese significa “insolito”) ritardo lusitano sia prerogativa di un intellettuale conservatore quale Montale certamente fu.
In uno scritto per il recentissimo numero di Estudos Italianos em Portugal (pubblicazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, quest’anno dedicata al quarantennale della Rivoluzione dei garofani), perfino un’intellettuale militante come Luciana Castellina, ricordando la sua partecipazione diretta alla lotta democratica dei portoghesi nel ‘74/‘75, parla di “‘vantaggio collaterale’ del salazarismo che, combattendo il progresso, aveva risparmiato Lisbona dalla moderna speculazione edilizia”. Insomma, sembra far eco ancora Montale:

La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’e chi sopravvive.

Resta il fatto che alla “ruspa”, qua e là magnanima, bisogna sopravvivere, magari andandosi a ficcare in una buca. Guai ad assecondarla, peggio ancora rincorrerla. In Portogallo la grande questione oggi è capire se sia possibile rallentare la corsa senza essere buttati fuori pista. Perché negli ultimi decenni i portoghesi avevano sperato (forse addirittura creduto) di non doversi più trovare dinanzi a questo bivio: tra progresso civile e progresso industriale, crescita schizofrenica e decrescita infelice, moneta forte e democrazia debole, salute finanziaria dello Stato e salute garantita per tutti i cittadini. E c’è da scommettere che in questo bivio, nel paradosso portoghese (la libertà costa e il prezzo si paga perdendola) si incontreranno tante altre nazioni contemporanee, europee e non solo.

A proposito di libertà, una spia linguistica ci porta all’ultima considerazione su questo Montale in trasferta lusitana. È un dettaglio che risulterebbe da un banale qui pro quo, ma si presta a una lettura a chiave, a enigma premeditato, come in tanta poesia montaliana in cui i riferimenti concreti, topografici, reali, rimandano a una realtà altra che va decodificata con precisione; magari confrontando proprio il testo poetico con la prosa di viaggio che descrive lo stesso contesto geografico (come fa Lorenzo Renzi, nel suo Come leggere la poesia, a proposito di Vento sulla mezzaluna, poesia “scozzese” della Bufera).
L’aperitivo de L’incantevole ora dell’aperitivo... pare sia stato a base di “aragostine”, le quali ritornano nella poesia di Satura, terzo testo della nostra serie:

Dopo lunghe ricerche
ti trovai in un bar dell’Avenida
da Liberdade; non sapevi un’acca
di portoghese o meglio una parola
sola: Madeira. E venne il bicchierino
con un contorno di aragostine.

Le sera fui paragonato ai massimi
lusitani dai nomi impronunciabili
e al Carducci in aggiunta.
Per nulla impressionata io ti vedevo piangere
dal ridere nascosta in una folla
forse annoiata ma compunta.

Il “tu” della poesia, come in tutta la sezione Xenia I e Xenia II, è la compagna del poeta, Drusilla Tanzi, morta nel 1963. Le poesie a lei dedicate in questo libro – in un linguaggio dimesso e realistico, ma attraversato da un’alta tensione metafisica (sia pure “negativa”) – maneggiano volutamente un repertorio di simboli degradati e aspirano a stabilire un contatto quasi medianico con la donna scomparsa, a costo di scardinare l’apparente solidità fenomenologica in cui il poeta sente di vivere intrappolato. In un’altra celebre poesia (Avevamo studiato per l’aldilà... sempre in Satura) Montale immagina che, con un semplice fischio, possa accorgersi di non essere più di questo mondo, bensì nell’aldilà, nei paraggi della donna amata. In fondo già nella prima poesia (In limine) della sua primissima raccolta (Ossi di seppia), laddove esortava a cercare la famosa “maglia rotta nella rete / che ci stringe”, si evocava il potere salvifico di un fantasma (“Se procedi t’imbatti / tu forse nel fantasma che ti salva”); e sempre in Ossi di seppia troviamo Forse un mattino andando... testo in cui il poeta si volta di scatto per cogliere in flagrante un Creatore burlone che è solo uno scenografo lesto, capace di montare finti scenari teatrali davanti ai nostri occhi, occultandoci il nulla alle nostre spalle, il vuoto in cui viviamo immersi grazie all’inganno dei sensi. Poi, una volta scoperto il trucco: “... io me ne andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”.
Forse non a caso, a Lisbona, la ricerca della moglie porta il poeta in Avenida da Liberdade, il viale che alla fine dell’800 spinse la città fuori dal suo centro storico, lanciandola verso i futuri quartieri protonovecenteschi, emblemi di un’altra svolta urbanistica in nome del moderno. Mentre la seconda strofa riassume ironicamente una cerimonia ufficiale, dove si intuisce la comparsata del professorone di turno che lo paragona a grandi portoghesi “dai nomi impronunciabili” (e persino al Carducci!), il punto di fuga si individua nella donna fantasma. Lei è sul viale della Libertà, beve Madeira e mangia aragostine. L’epifania della libertà sta nei dettagli, piccoli regalini quotidiani come dolciumi e altre golosità. L’epifania, insomma, è una befana.
Ma cosa sono davvero quelle aragostine? In apertura del suo testo in prosa, Montale si cimenta con il portoghese: “Mi sono seduto a un caffè dell’Avenida da Libertade, (sic) ho ordinato vino bianco e lagostinhas (aragostine), come qui si usa [...]”. Si dà il caso che la parola lagostinha teoricamente potrebbe anche essere il diminutivo di lagosta (aragosta), ma mi è sempre parso poco credibile come contorno di un bicchiere di vino, servito magari in un piattino al tavolo di un bar; tanto più se si pensa che in Bretagna, come racconta in una prosa dello stesso libro, Montale aveva consumato una terrina di langoustines, definendole “crostacei molto affini alle nostre cicale di mare”. È più probabile dunque che sia lui sia la moglie stiano mangiando lagostins, in italiano: “scampi”. La magica coincidenza delle omofonie farà il resto: la donna amata e perduta (“fantasma che ti salva”), rivelando un dominio inatteso del portoghese e una strana familiarità con l’angelo in livrea da cameriere, ha intravisto per un attimo la maglia rotta e vi si è infilata proprio lì, in Avenida da Liberdade, dove ha trovato scampo. Anzi più di uno, un intero piattino. Ma se n’è andata zitta, tra gli uomini senza scampi, col suo segreto.

 

 



NB.
Autori dei ritratti di Eugenio Montale a corredo dell'articolo sono, nell'ordine: Serena Maffia; Renato Guttuso; Eugenio Montale (autoritratto); Galeazzo Vigano; Flavio Costantini
Immagine di copertina Dario Marchesi, Vista della citta di Lisbona (1997, olio, part.)

 

 

 

 

Eugenio Montale
Tutte le poesie
a cura e con introduzione di di Giorgio Zampa
Milano, Mondadori, 1984
pp. 1245


Eugenio Montale

Prose e racconti
a cura e con introduzione di Marco Forti
note ai testi e varianti a cura di Luisa Previtera
Milano, Mondadori, 1995
pp. 1253


Pedro Lains
Os Progressos do Atraso. Uma Nova História Económica de Portugal 1842-1992
Lisboa, Instituto de Ciências Sociais, 2003
pp. 296


Lorenzo Renzi
Come leggere la poesia. Con esercitazioni su poeti del Novecento
Bologna, Il Mulino, 1997
pp. 165

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