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Tuesday, 11 November 2014 00:00

Su Gadda, Amleto, Gifuni

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Codeste, sì, son cose che sembrano; perché si possono
recitare. Ma io ho dentro qualcosa ch’è al di là d’ogni mostra:
il resto non è che l’ornamento e il vestito del dolore.
(William Shakespeare)


Nella mia vita di umiliato e offeso la narrazione mi è apparsa,
talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di stabilire la
mia verità; il mio modo di vedere, cioè: lo strumento, assoluto,
del riscatto e della vendetta.
(Carlo Emilio Gadda)


(Amleto Pirobutirro)
Gonzalo Pirobutirro, il protagonista de La cognizione del dolore, vive in un paese in guerra e abita una villa turrita, con tanto di bandiera, sorvegliata nei suoi confini dalle guardie di un istituto di vigilanza.
Gonzalo porta il nome del padre defunto, che è stato governatore e che – ancora – è nel ricordo delle genti per la sua sete di giustizia, la levatura altissima, la magrezza del volto, l’animo punitivo e l’inesorabile capacità d’azione politica e militare.
Gonzalo s’aggira in questa casa, leggendo. Animo inquieto, passa per misantropo, malinconico, folle. Di lui dicono che abbia in odio chiunque respiri, che abbia perso il senno, che dentro gli roda un chissà cosa che gli procura la bile, la rabbia, l’umore furente. Povera madre, costretta a convivere con il pazzo. Gonzalo, infatti, ha in odio anche la madre: “Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali,” – le dice – “scanno te e loro”. Da questa donna, ormai anziana, che ha i capelli “sbiancati come quelli di Re Lear”, lo divide un “qualcosa d’irreparabile”: Gonzalo l’osserva, la sfiora, passandole accanto mentre mormora qualcosa sul peccato, la vergogna, la pietà, la vigliaccheria.
Gonzalo vive un tormento che non ha termine, sosta, intervallo. È visitato da uno spettro o meglio: uno spettro pare che gli visiti la coscienza, tornando ogni notte e ogni giorno. Dalla biografia di Gadda sappiamo si tratta dello spettro del fratello perduto, precipitato con l’aereo di guerra, tanti anni prima. Gonzalo è roso dallo spettro di Gadda ma questo – che, pur senza dire, chiede in qualche modo vendetta – somiglia a uno spettro più celebre: lo spettro di Amleto.
La cognizione del dolore è l’Amleto della letteratura italiana; Gonzalo è Gadda ma Gonzalo è anche Amleto e allora possiamo concludere che Gadda è Amleto e che, lo stesso Gadda, fu l’uomo che più sentì la maschera del principe danese come la maschera adatta al proprio volto, al proprio ruolo, ai propri mali.
Gadda, ad un punto della vita, scoprì di essere Amleto e – giacché Amleto nell’Amleto mette in scena la propria tragedia – decise di scrivere il proprio dramma: nacque così La cognizione del dolore.
Quando Fabrizio Gifuni decide di portare in scena L’ingegner Gadda va alla guerra sente il bisogno di far continuare il titolo e vi aggiunge: o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro. Gifuni sa benissimo che Gadda, Gonzalo ed Amleto sono la stessa persona, sa che coincidono, che l’uno chiama l’altro perché il terzo si senta chiamato in causa. Gifuni lo sa talmente bene da fare un regalo al pubblico, anche se il pubblico ne rimane inconsapevole. Gli parla – in un inciso dello spettacolo – di quando Gadda fu spettatore dell’Amleto a teatro.
Accade in una fredda notte di dicembre del 1952: a interpretare il principe è Gassman, la regia è di Luchino Visconti.


(in platea, quella sera)
Osservando l’Amleto, seduto in una delle prime file del Teatro Valle, Gadda sente nel centro del petto una stretta, come se qualcuno gli stesse torcendo l’anima imponendogli un dolore improvviso. Consapevolezza di sé, presa di coscienza che – qualcuno, appartenente a un altro tempo e a un altro mondo – ha provato le tue stesse paure, i tuoi stessi disagi, i tuoi stessi dolori strazianti.
Gadda guarda Amleto nella stessa maniera in cui, a un uomo, capita di guardarsi allo specchio.
In platea, quella sera, l’ingegnere lombardo muta giudizio sul teatro: non più soltanto rito borghese, occasione mondana, svago o divertimento: il teatro invece “può essere e deve essere l’indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità” giacché il teatro “ci rende consapevoli del bene e del male”, detergendo del trucco “il volto della menzogna”, “smascherando la vita”. Per questo Gifuni inserisce – ne L’ingegner Gadda va alla guerra – il frammento di un articolo che lo scrittore, dopo la visione dello spettacolo di Visconti, firma per un giornale romano: “In lui non si contorce il dubbio, chi ha mai inventato questa scemenza? Si palesa invece un dibattito” dice Gadda di Amleto e adesso lo ripete Gifuni non più alludendo ad Amleto ma indicando il centro del palco, lì dove – il Gadda messo in scena da lui poco prima – ha parlato di sé, della prima guerra mondiale e dei tormenti privati emettendo contestazioni e accuse ai generali, ai comandanti e a tutti coloro che si riempiono la bocca di retorica patriottica mentre i soldati hanno ai piedi scarpe di cuoio scadente e impugnano armi degne di un ferrivecchi.
In Gadda, vuol dirci Gifuni con le parole che Gadda stesso usò per Amleto, si palesa un dibattito: tra “le promissioni della vita consueta, del mondo com’è”, con i suoi “usi diplomatici”, fatti di “menzogna acquisciente” e – di contro – “il senso dell’incarico e del conseguente adempimento” cui siamo costretti dalle “ragioni del cuore” e dall’impegno “etico” della ragione: quell’impegno etico che di noi rimarrà come traccia, memoria, testimonianza.
Gadda si riconosce in Amleto, diventa Amleto, sente che Amleto è il suo pensare segreto, la sua identità più sincera: durante una fredda sera di dicembre, al Teatro Valle di Roma. Di questo Gifuni è consapevole. Perciò il suo spettacolo inizia con la reinvenzione dell’Amleto.


(l’inizio)
“Che cosa leggiamo, mio signore?”
“verba… verba…”
“Vermi?”
“Ma no! Non ver-mi: Ver-ba! In latino vuol dire parole. Parole, parole, parole…”
L’Amleto di Gifuni le parole di chi sta leggendo?
Gifuni, appena entrato in scena, traccia al pavimento un asse delle ascisse e uno delle ordinate. Lo fa con le mani: lì si fa luce. Atto teatrale, per cui il gesto dell’attore determina apparizione e forma di ciò che vedremo. Perché compie tale scelta? Perché vi sia uno spazio-altro-dallo-spazio gaddiano. A Gifuni occorre infatti un luogo/momento nel quale e dal quale poter osservare, commentare, completare il monologo gaddiano. Questo luogo/momento sono i due assi, sono questa mezza cornice luminosa imposta alla tela oscura costituita delle parole di Gadda.
Non sfugga, inoltre: se Gadda fa di Amleto uno strumento di comprensione di sé, ecco che Gifuni fa di Amleto lo strumento per la comprensione di Gadda. Gifuni, quindi, usa Amleto per parlare di Gadda e infatti –  ad un Polonio che chiede “Qual è la materia?” ovvero “che argomento” trattano le “parole” che il principe sta leggendo – ecco che il danese risponde così: “Infamie! Questo umorista randagio pretende che i vecchi abbiano barba grigia, occhi incispati di resina, non senza penuria di cervello e grande fiacchezza di lombi…”. “Per pazzo che sia non manca di metodo”: Gifuni cita l’Amleto, poi prosegue fondendo il testo di Shakespeare con Gadda quando Gadda parla della propria persona, così: “Interventista, stronzo, volontario di guerra, pera marcia, scrittore di sciocchezze, borghese”. È in questo modo che l’interventista stronzo, volontario di guerra e borghese, coincide con l’umorista randagio di cui parla il principe.
Amleto legge Gadda riconoscendosi, dunque, così come Gadda ha visto Amleto sul palco: riconoscendosi.
La conferma ulteriore di questa rapporto viene più tardi, nel pieno del monologo costituito dalle pagine del Giornale di guerra e di prigionia, quando Gifuni cita questi versi: “Cos’è più nobile? Cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo lezzo di meretrice. O invece attuffarla nella rancura e nello spregio come in una pozza di scrementi, e negare?”
Si tratta di un brano de La cognizione del dolore ma – ciò che davvero occorre sapere – è che questo brano altro non è che la riscrittura che Gadda fece del celebre monologo di Amleto (atto terzo, scena prima) perché divenisse parte del romanzo.


(lo spettacolo)
A lato, dunque, vive la coscienza gaddiana, che è coscienza amletica, mentre nel centro del palco avviene L’ingegner Gadda va alla guerra. Si tratta di un monologo costituito da brani, frammenti, ampi paragrafi tratti prima dal Giornale di guerra e di prigionia (diario militare del Gadda, con la cronaca umorale di quei giorni: dagli entusiasmi iniziali all’orgoglio ferito dalla sconfitta) e poi da Eros e Priapo, libello in fiorentino simil-machiavelliano che tratta del rapporto tra le masse e il potere, tra il capo e la folla, trattando in particolare della tendenza erotico-narcissica del “Kuce”, che trova riscontro nella festante e accaldata platea femminile dell’Italia fascista.
Lo spettacolo vive di due testi, ai due testi corrispondono due parti, alle due parti due modalità di recitazione.


(primo tempo)
Il Giornale di guerra e di prigionia è una confessione privata che Gadda compie, giorno dopo giorno, a se stesso perché rimanga trama di ciò che egli vede, delle azioni militari che compie. Per comprenderne davvero il valore occorre sapere che Gadda fu interventista, fu un’entusiasta della prima guerra mondiale probabilmente perché vide – nel conflitto – la possibilità di manifestare il proprio ardore, di costruirsi la propria identità, di dare un senso al proprio destino. Mettere a confronto le prime con le ultime pagine di questo diario significa comprendere quanto la guerra sia distruttiva, quanto sia povera cosa che rende poveri gli uomini. Gadda ne uscì disfatto, con i nervi tesissimi e, nel petto, il dolore mai più superato della scomparsa del fratello: per il resto dei suoi giorni si crucciò di non essere morto al suo posto, di essere lui lo sventurato cui toccò vivere ancora.
Il testo in questione è fondamentale per comprendere le idiosincrasie, le perturbazioni, gli scatti violenti e (auto)punitivi che avrebbero poi contraddistinto il carattere dell’uomo ma – il testo in questione – è anche un formidabile atto di denuncia del pressappochismo italiano, della propensione nazionale a non fare ciò che si deve, a non adempiere ai propri obblighi, ai propri doveri, alle proprie responsabilità. Così vi troviamo note personali (“Ieri tosatura a zero dei capelli”; “Notte agitata da sogni tristi”; “Da casa ho buone notizie”) intervallate a squarci descrittivi che raccontano, con voluto espressionismo linguistico, ciò che accade davvero sui monti, in trincea, a un passo soltanto dal nemico.
Prendiamo contatto con la guerra ed è un contatto arrabbiato, intristito, che non vive di mezze misure. Gadda progressivamente s'infuria, poi esplode, alza il tono della propria dissertazione, urla per iscritto, si lamenta, sputa sulle immagini ideali dei comandanti, li manderebbe al muro, li darebbe in pasto ai nemici, ne farebbe egli stesso poltiglia, fino a che gli eventi non lo costringono al tono mesto che tocca a chi vede i propri sforzi ormai inutili, il proprio coraggio ormai vano: Caporetto, l’infamia, l’oscura pagina di storia, l’eroismo personale che confluisce nella vigliaccheria pubblica, l’offerta della propria vita ridotta al disonore, al disprezzo, alla resa.
Gadda torna dalla prima guerra mondiale ed è lo spettro traumatizzato del giovane vigoroso che era. Orfano della Patria, scopre che la Patria gli ha anche ucciso chi amava.
Gifuni rende queste pagine facendo sforzo di condensazione interpretativa: tutti gli spasimi dell’anima sono perciò resi attraverso brevi scatti del corpo: la parola suona alta, furiosa, tonante ma a dirci davvero dello stato di Gadda sono soprattutto le dita tese, la schiena che trema quand’è disteso sulla sedia, il fiato che gonfia e sgonfia le guance in un impeto di rabbia tenuta. Il corpo – che traduce l’entusiasmo iniziale in un iperattivismo di recita – man mano si piega, si accartoccia, si fa un cumulo di muscoli tesi: soffre, si contrae, s’adombra in se stesso fino a raggomitolarsi vivendo – come ubbie intestine – le bizze, la solitudine, la disfatta. Osservando Gifuni si coglie la malattia da cui Gadda è roso e che lo rende un umiliato, uno sconfitto, e – se si vuole riprendere il paragone col principe danese – un delirante Amleto, grandissimo e solo, sempre più costretto a monologare al cospetto di una schiera di mediocri, di informi, di parassiti e forte di una consapevolezza morale che lo conduce al limite e oltre il limite del sopportabile.
Tornerà a casa, questo Gifuni/Gadda, come a casa torna un bambino: il campanello in alto (braccio sinistro levato), a significare una piccolezza emotiva che diventa piccolezza fisica, e il sillabare della parola “Mam-ma, Mam-ma”.
Le ultime frasi di questa tragedia: “La mia vita è inutile, è quella d’un automa sopravvissuto a se stesso […]. Non noterò più nulla, poiché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo. Finisco così questo libro di note”.
Eppure – come il Riccardo III di Shakespeare, che annuncia il ruolo che andrà a interpretare mentre siamo ancora nell’Enrico VI – Gadda anticipa ciò che avverrà da lì a poco: “Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza e bruto per abulia”. Come prevedesse il fascismo ed Eros e Priapo, che sono il secondo tempo de L’ingegner Gadda va alla guerra.


(secondo tempo)
Eros e Priapo è una pagliacciata, una farsa, una pantomima giacché il fascismo è (anche) una pagliacciata, una farsa, una pantomima. Al cospetto del capo del governo, del condottiero, di questo “deficiente paranoico” che risponde al nome di Benito Mussolini, Gadda interpreta il ruolo del fool, del giullare, del matto che dà di matto volutamente: divenendo anch’egli, al pari del principe danese quindi, un ideale discendente di Yorick. E infatti, dalle note di regia dello spettacolo di Gifuni: “Il dado è tratto: sparire dietro una lingua fuori dall’ordinario, scatenando il suo lessico fantasmagorico, sarà il suo nuovo modo di comunicare col mondo. Fingere, come il Principe di Danimarca, di essere affetto da una particolare forma di follia sarà l’unico modo per sopportare la sua morte in vita”.
Basta, in merito, ricordare Giancarlo Leucaudi quando scrive che “la maccheronea satirica è lo strumento di chi vuol separarsi dalla massa. È contestazione incessante della società. È disillusione” ed è “una forma di rivolta sociale”.
Perciò Gadda sceglie una lingua che non è lingua consueta – il fiorentino antico – e con essa fa saggio critico, analisi psicopolitica, romanzo, racconto storico fondendo i toni della disquisizione a quelli dell’invettiva, gli accenti buffoneschi a quelli drammatici.
Sia chiaro: si tratta di un espediente. Gadda/Amleto/Yorick sa benissimo che un buffone che sa di interpretare il buffone non è un buffone davvero: fa solo finta di esserlo perché è fingendo che smaschera la buffoneria reale di chi detiene lo scettro. Per dirla con Jan Kott: “La funzione del buffone è di scoprire che l’Imperatore è nudo. Il buffone dice la verità, ma il suo linguaggio è buffonesco”.
Gadda dice la verità, in modo buffonesco.
Teatro che reagisce al teatro è quindi Eros e Priapo: Gadda recita il proprio ruolo inventandosi un linguaggio e si contrappone così a Mussolini e al linguaggio che egli adopera dal balcone, al cospetto della piazza/platea che lo applaude.
“Commediante nel nero pantomimo delle smargiassate”, il Mussolini di Gadda diffonde il verbo con tutta una serie di “berci, grugniti, sussulti priapeschi”, mettendo “le mani in poggiolo”, strabuzzando gli occhi, esibendo “il dittatorio mento e la panza” e facendo – di continuo – un “avanti-indietro, da punte a tacchi, irrigiditi i ginocchi” fino a saltare come “se lo iscagliasse ad alto una molla”. Mimica da attore, Mussolini indossa costumi da attore: il tight e i pantaloni a righe, il tubino e i guanti bianchi da commendatore, gli stivaloni da cavallerizzo, il cinturone, gli speroni del galoppatore e il pennacchio dell’emiro, la tuta dell’aviatore, il completo ginnico, il cappello del contadino, “il coltello del principe Maramaldo: argentato, dorato, perché sul trippone figurasse”. Così mette in piedi il triste spettacolo e – “come il nulla genera il nulla” – riesce nell’impresa di far credere sensati i suoi proclami rumorosi, verità le sue orride menzogne da regime.
È verso cotanta ipocrisia nazionale (che dal balcone giunge alle piazze, dalle piazze alle strade, dalle strade si riversa nelle case delle “care pollanche” e dei loro mariti) che Gadda  furoreggia, battaglia, va allo scontro: va alla guerra, per citare di nuovo il titolo dello spettacolo.
Gifuni, preso atto che si tratta di una sceneria dichiarata, muta registro interpretativo: maglietta nera (allusione cromatico-fascista), stampa sul volto un sorriso, innalza le sopracciglia, strabuzza gli occhi e fa del viso una maschera: è con questa maschera che recita, muovendosi per lo più in orizzontale, come in una fascia parziale del palco, come se alle spalle avesse una parete di cartone che gli limita la profondità dello spazio, come se fosse un attore di varietà, d’avanspettacolo di inizio Novecento, di cabaret del Ventennio. Grandi passi, grandi gesti, spiegano il modo in cui il tiranno “cerca, seduce, corrompe, assolda, inquadra” gli italiani mentre alle “psicofiche” italiane riserva la “sua esibita ed esibenda mascolinità”, rendendole desiderose del “nerbo”, sognatrici dell’amplesso.
La mano nella tasca e i passi di danza, l’inchino e il petto in avanti, i movimenti di bacino, l’ostentazione dell’avambraccio, il palmo aperto nell’aria, la stretta data all’esterno della coscia: diventa una partitura fisica quella di Gifuni, capace di accompagnare il testo, traducendolo, rafforzandolo, offrendogli carne, sostanza, muscolatura perché risulti chiaro, evidente, assimilabile il ragionamento che ci parla di “dedizione minorile al super-maschio, al padre, al padrone”. Gifuni ri-adatta in tal modo il suo corpo in uno spazio ri-definito per traiettorie accelerate, cambi di luce repentini e colmo d'ulteriore ricerca linguistica, ora tutta toscana (dopo aver associato, nella prima parte, al dialetto nordico teatralizzato di partenza gli accenni di altre lingue locali: romano, piemontese, genovese, napoletano).
“Questo è, non altro”.
“La patria lo esige”.
“Questa è verità santa e tutto il rimanente è bugia”.
La retorica mussoliniana, l’imposizione del Verbo, la ripetizione dello slogan s'affermano per essere smentiti dall'espressività di questo giullare indemoniato.
Se la nazione diventa una corte e il sovrano è un tiranno, se l’omicidio è velato dalla bugia e i presenti fanno finta di credere a ciò che non è, se la donna è un’ingenua e lasciva concubina e della verità, del senso di giustizia e della storia, non resta che uno spettro, all’uomo morale – che si chiami Amleto, che si chiami Gadda o Gonzalo – non resta che recitare da pazzo, indossando l’ornamento del dolore, mostrando tutta la propria rancura, dicendo ciò che va detto in un modo in cui non l’ha ancora detto nessuno.
Amleto recita, recita Gadda, recita Gonzalo ne La cognizione del dolore.
Dei tre fa recita Fabrizio Gifuni.
Fino alla fine. Quasi.


(gli ultimi otto minuti)
Pausa.
Il silenzio attraversato passeggiando.
Un respiro.
Ancora silenzio, ancora passi.
Lo sguardo diritto alla platea.
L’invito al tecnico ad accendere le luci.
L’interprete, privo di ruolo, al cospetto degli spettatori: privi del buio. 
L’intersezione in aggiunta: “Ma secondo voi…”.
“Ma secondo voi non è un po’ mostruoso che un attore, solo in una finzione, come dire?..., in un sogno di passione, possa forzare la sua anima”? E “lacrime ne’ suoi occhi, smarrimento nel suo aspetto, una voce rotta, e tutte le sue funzioni rispondenti nelle forme al suo concetto?”.
“E tutto questo per cosa? Per niente? Per Ecuba!”.
Gifuni è Gifuni e parla a me e alla mia compagna, che siede accanto; parla allo spettatore estasiato, rapito, immerso nello spettacolo e parla a quelli che andranno via, frettolosamente, qualche istante prima della fine; parla ai distratti, parla a chi rumoreggia, a chi chiude gli occhi alla luce, parla a chi ancora lo ascolta e parla a chi non lo sta più ascoltando perché ascolti di nuovo. Parla, Gifuni, narrando il proprio lavoro coi versi dell’Amleto, per poi parlare della ragione di questo spettacolo, con le parole di Eros e Priapo. Rotto il gioco del teatro inteatrato, aggiunge al testo di partenza soltanto qualche inciso (“Ora”, “Oppure”, “Dunque”, “Io dico che”) perché sia più scorrevole il dettato, il colloquio, la confessione; veicola lo sguardo agli astanti; ne segue il comportamento, reagisce, si relazione in maniera diretta: al limite della recita, metaforicamente con un piede ancora nello spettacolo e, un altro, oltre il palcoscenico. 
Parla Gifuni con la storia fascista detta da Gadda ma dicendo implicitamente anche del suo sforzo di fare antibiografia dell'Italia, mettendone in evidenza le deficienze, le paranoie, la propensioni vigliacche o accomodanti, il piacere di svendersi, lo scarso rispetto di sé. Gadda consente a Gifuni di parlare del primo Novecento, delle due guerre, del militarismo d’inizio del secolo e del regime che ne è sviluppo seguente; il Pasolini di ‘Na specie de cadavere lunghissimo (che con L’ingegner Gadda va alla guerra compone un dittico) consente invece a Gifuni di arrivare agli anni del boom, alla modernizzazione senza sviluppo, alla società massmediatica.
Parla Gifuni ancora di Mussolini con le parole di Gadda, parla delle donne, parla di “pragma narcissico”, di magnificazione dell’Io, di “persona scenica”, di “dissipazione nella vita privata” e di negazione di fatti reali, di reticenza, calunnia, di omicidio civile e morale in nome della follia dell'uno solo al comando.
Quell’uno che si crede Cesare.
Sogna.
E “le genti sensate gli ridono in faccia”.
“Allora il malato li fa prendere e li fa carcerare”.
E si smette di ridere.
Chiudiamo così: Gadda, Gonzalo, Amleto; Fabrizio Gifuni. Uomini che hanno tentato di parlare agli uomini. Col teatro.
“Detergendo il volto della menzogna”, “smascherando la vita”.

 

 

 

 

NB. Autori delle immagini a corredo degli articoli: Marco Caselli Nirmal; Loredana Daverio; Daniela Deidda; Angelo Maggio. Ove presenti, sono stati mantenuti i crediti della singola fotografia. 

 

 

 

 

Premio Napoli 2014
L'ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro
drammaturgia originale di Fabrizio Gifuni
da Carlo Emilio Gadda, William Shakespeare
regia Giuseppe Bertolucci
con Fabrizio Gifuni
disegno luci Cesare Accetta
direttore tecnico Hossein Taheri
produzione Fabrizio Gifuni, Solares-Fondazione delle Arti
lingua italiano, inglese, romano, torinese, napoletano, genovese, fiorentino
durata 1h 20'
Napoli, Auditorium RAI, 7 novembre 2014
in scena 7 novembre (data unica)


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