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Thursday, 06 November 2014 00:00

Ridendo, disperatamente

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(sul senso dello spettacolo)
“Lui ha mentito a te, come tu hai mentito a lui, come mia moglie ha mentito a me: qui mentono tutti”. Morsi a vuoto è uno spettacolo sulla menzogna. Non – sia chiaro – sulla bugia che pensiamo, elaboriamo e utilizziamo per ingannare chi abbiamo di fronte, ma sull’ipocrita manomissione della verità con cui proviamo a ingannare noi stessi.

Incapacità di prendere coscienza della propria condizione, delle proprie mancanze, dei propri fallimenti; tentativo risibile di nascondere ai nostri stessi pensieri ciò che stiamo diventando; possibilità tacita che ci diamo tentando di sopire le insoddisfazioni, i progetti falliti, le mancanze concrete sostituendole coi voli pindarici, con il rimando delle responsabilità, facendo del domani un traguardo irraggiungibile. Il lavoro che non esercitiamo, la casa che non abitiamo, l’autonomia economica che non abbiamo; il lusso che osserviamo ma che non possiamo comprare, la fedeltà che ci promettiamo ma che cede in un attimo, questo bisogno di felicità che appassisce col tempo, assumendo la forma delle soddisfazioni compensative, momentanee, apparenti.
È uno spettacolo sulla menzogna, Morsi a vuoto, ed è quindi uno spettacolo sull’illusione, sulla capacità rigenerativa che abbiamo di contemplare panorami inesistenti fatti di scuse, motivazioni puerili, giustificazioni amare o insincere: sono le illusioni che ci permettono di credere alle opportunità inesistenti, sono le illusioni che ci permettono di pensare che ci sarà ancora tempo, uno sviluppo possibile, un cambiamento che inevitabilmente – prima o poi – dovrà avvenire.
Con la sua trama metaforica, detta più che recitata (una ragazza, Simona, che si accoppia a un presunto tenutario di smeraldi; un presunto tenutario di smeraldi, Manfredi, che è un poveraccio; un ladro che smaschera ragazza e tenutario smascherando la propria stessa infelicità) Morsi a vuoto continua il discorso che i Maniaci d’Amore hanno intrapreso con Il nostro amore schifo: se in quel caso si trattava di raccontare la speranza del tentativo, azzardato nonostante la funesta valutazione d’ogni aspetto reale, qui si tratta di prendere coscienza che quello stesso tentativo di (sopra)vivere è più arduo di quanto ogni incubo possa mai averci fatto credere e che, nella migliore delle ipotesi, non ci resta che scegliere tra la modestia di una realtà con cui scendere a patti e la finzione con cui provare ad addobbare questa stessa modestia.
“Mi ha detto una frase bellissima” dice lei, commentando lo squallore di un’espressione senza alcun senso ed è la misura di quanto siamo disposti a modificare la percezione dell’oggettivo fino ad annullarlo del tutto, abituandoci invece ad un (ir)reale interamente soggettivo: “Il mio problema è che io non riesco a vedere le cose dall’esterno”.
Storia leggerissima, quindi, che allude a un fardello gravoso: la nostra generazione quanto può ancora andare avanti prima di dirsi che il futuro che ci attende non esiste, che siamo già al limite, che stazioniamo al confine di un baratro del quale facciamo finta di ignorare lo sprofondo?

(sulla comicità)
Ma i Maniaci d’Amore sono abituati a lavorare con la comicità e sulla comicità. Non hanno l’intenzione di mostrare, quindi, direttamente l’oggetto ma una sua trasfigurazione ironica, digrossata, farsesca. Viene in mente, nel ragionare sul loro spettacolo, la pagina che Kundera dedica al comico ne Il libro del riso e dell’oblio: il riso è del diavolo e dell’angelo, il riso smaschera la finta perfezione del mondo e al tempo stesso cerca di ristabilire un senso possibile al mondo smascherato; il riso è presa di coscienza dell’inferno e speranza innovativa del paradiso; il riso è dichiarazione di condanna e inizio di ravvedimento, è affermazione di fallimento e ricerca di un senso differente, curativo; è disordine e ri-ordine, contraddizione e sincerità, incoerenza e verità: “Esistono due tipi di riso” – scrive Kundera – “e noi non abbiamo parole per distinguerli l’uno dall’altro”. Il riso rammarica e, mentre rammarica, rimedia.
Funzione catartica della comicità, somiglia parecchio alla funzione catartica del teatro, specchio distorto che l’uomo pone agli uomini perché si osservino: per riconoscersi, per comprendersi, talora per redimersi. Ed è tutta teatrale la comicità dei Maniaci d’Amore. Fondata sull’impegno della scrittura, supportata da buona mimica e capacità attoriali in fase crescita, Morsi a vuoto appare quindi un evidente gioco di scena: dichiarato, manifesto, evidenziato di continuo.

(sul teatro in teatro) 
È un teatro in teatro questo velario rettangolare dietro al quale due attori che – sostanzialmente – restano sempre due attori interpretano la parte del medico e della paziente. Lo è perché ha rari oggetti di scena con le indicazioni d’utilizzo visibili (“Sedia di Lui”; “Sedia di Lei”); perché espone la scritta “Questo è un copione”; perché vive dell’uso simbolico e alternato di luci fredde e luci calde; perché prevede la forzatura gestuale, la posa grottesca, il tono falsato; perché (nel momento dei monologhi) Lui potrà guardare Lei e Lei potrà guardare Lui così come uno spettatore guarda un attore o un’attrice: assumendo quindi consapevolezza di sé, della propria condizione, del proprio status.
È un teatro in teatro, questo velario, perché l'entrata consiste in un risucchio pantomimico mentre l'uscita è (pirandelliamente) uno strappo; perché presuppone la recita di una recita (“Allora dottore, cominciamo”; “Adesso tocca a lei”; “Dottore, è stato bravissimo”) ma anche il fallimento di questa stessa recita: “Tu, così, rovini tutto il lavoro che abbiamo fatto”; perché ostenta la propria prassi estetica (“È simbolico: il simbolo piace”); perché contempla la possibilità dell’errore (“Chi parla adesso? Mi confondo…”), perché ad un punto fa addirittura riemergere Luciana Maniaci e Francesco d’Amore: “Tu devi smetterla di insinuare che io sono una femminuccia”; “Che c’entri tu?”.
È un teatro in teatro, questo velario, dietro il quale a Lei tocca richiamare al rispetto del ruolo Lui, indicandogli il faro che lo sta illuminando; dietro il qule a Lui tocca puntualizzare la battuta fatta precedentemente a Lei (“Veramente ho detto: molto delizioso”); dietro il quale una frase può appartenere ad entrambi, essere volutamente interrotta, sovrapposta o fraintesa o può essere usata più volte.
È un teatro in teatro e, infatti, prevede anche un prologo.

(sul prologo)
Sono un prologo, infatti, i primi dieci minuti di Morsi a vuoto, coi due interpreti quasi in ribalta, alternativamente illuminati mentre rendono il loro assolo. Ebbene, cosa davvero significano questi assolo iniziali? Lei, parlando di smeraldi, discute del bisogno umano di “placare ogni tormento, portandoci a credere che la vita, in fondo, sia solo un brutto scherzo e che valga perfino la pena di essere vissuta”; Lui, invece, intrattenendoci sugli scimpanzè, afferma la necessità di “trasformare in parola” le forme di disagio che appartengono all’animo.
Entrambi, insomma, parlano di teatro: della sua funzione lenitiva (Lei); della sua consistenza verbale e metaforica (Lui).
E non è associabile al teatro – Arte che vive al presente finché non viene il buio, l’applauso, il silenzio ovvero la morte – ciò che Lui ancora dice usando queste parole? Leggiamo: “Io penso che in questo momento difficile in cui l’uomo si sente goffo, frustrato, disperato, a volte solo, quello che bisogna fare è parlare perché parlando, parlando, parlando, parlando, la vita passa, finché non muori e tutto è finito”.

(sul resto dello spettacolo)
Se è un prologo la prima parte di Morsi a vuoto, allora la seconda parte – tutta giocata dietro al velario – è il primo tempo di uno spettacolo che ne prevede due e che cerca di mettersi in scena, dunque, in una forma differente negli ultimi trenta minuti. Strappata la tenda, viene modificata la scena per cui una sedia diventa una ghigliottina, un tavolo viene portato al centro del palco e una finta cassaforte, dallo spessore di un pannello di compensato, staziona nel mezzo: ecco la scenografia ipotizzata e realizzata da due attori che riformano la proposta del loro tema aggiungendo invenzione a invenzione.
Lei continua a fare Lei mentre Lui – da dottore – diventa ladro, zingaro, Angelo della Morte penetrato in casa per ottenere i gioielli.
Che vi sia continuità drammaturgica, nonostante le apparenze, lo dimostrano: il reimpiego di stralci di dialetto barese; l’uso dell’errore di sintassi che contrasta con un’improvvisa diagnosi psicologica che richiama al medico (“È importante la condizione ludica nella sessualità”); la reiterazione di una battuta (“Questo l’avevi già detto”; “Quando?”; “Prima”). Ed ancora: la messa in pratica del “periodo ipotetico” e della “correlazione oggettiva”, costrutti anticipati in precedenza proprio perché poi fossero concretizzati; la battuta “Stavo di là, ché dovevo entrare”; l’indicazione interna di recita: “Ladro, ora che ti ho dato il numero del mio dottore, dovresti dirmi come sei entrato”.
Si aggiungano: il colloquio diretto col pubblico, le indicazioni del tempo di recita (“Mancano ancora cinquanta minuti”), l'utilizzo a rotazione di prima e terza persona singolare, l’uso di musiche come sottolineatura emotiva e certi trucchi beffardi da pratica scenica (l’elencazione, il fraintendimento, la reciproca incomprensibilità e l'alternanza sorriso/pianto, il sovvertimento logico, il paradosso linguistico: “Loro sono esattamente come te: diversi”) e si comprenderà come Morsi a vuoto sia la conferma che, i Maniaci d'Amore, sono una coppia teatrale destinata ad affermazione ulteriore e duratura.
Certo, va anche detto che non sempre Morsi a vuoto funziona, che ha momenti di stasi, che ha passaggi in cui sembra che la vicenda (che vive di una metateatralità al cubo: attore/attrice; dottore/paziente; Manfredi/Simona) si ingarbugli, complicandosi per la sua stessa struttura − fatta di richiami interni e riprese continue − divenendo complessa, quasi autoreferenziale: “un circolo vizioso”.
D’altronde lo spettacolo è alle sue prime repliche, inizia adesso il suo tour effettivo e basta pensare al cambio di finale rispetto alla versione proposta al Festival delle Colline Torinesi (col taglio dell'immagine dei morsi dati alle cipolle, al cospetto di un crocifisso) per comprendere che si tratta di una proposta ancora in fase di evoluzione.
Si termina questa volta al buio, con voci fuori scena che raccontano brevi momenti nei quali, uomini e donne della compagnia, hanno scoperto che il dolore è l'ombra immancabile del piacere e che il piacere ha come compagno segreto il dolore: un bambino che, in solitudine, continua ad andare in bici anche se ha una ferita al ginocchio; uno schiaffo preso come per scherzo; il commento crudele che una madre sussurra a una nonna e che riguarda sua figlia.
Ambivalenza, per cui ciò che fa bene può fare male e viceversa.

(infine, l'ambivalenza)
“Quando l’angelo udì per la prima volta il riso del maligno restò sbalordito. Accadde durante un banchetto,” – scrive Kundera – “la sala era gremita e i presenti furono conquistati uno dopo l’altro dal riso del diavolo, che era contagioso. L’angelo capiva benissimo che quel riso era diretto contro Dio e contro la dignità della sua opera. Sapeva di dover reagire subito, in un modo o nell’altro, ma si sentiva debole e inerme. Non riuscendo a inventare niente di nuovo, scimmiottò il suo rivale. Aperta la bocca, emise un suono intermittente, spezzato, alle frequenze più alte del suo registro vocale, ma dandogli significato opposto”.
“Quando guarderai la Morte nella faccia, smetterai di ridere” e, poco dopo: “Devi smettere di ridere, davanti alla Morte”. Lo dice il ladro ma è inutile giacché la donna ride, ride, riderebbe anche se le sparassero in testa e le tagliassero un dito (anticipazione del finale); ride perché non riesce a non ridere “anche di cose disperate, di cui non bisognerebbe ridere, se si fosse persone serie, ed è una cosa terribile. Anche mia madre ha sempre riso, anche mia nonna: è perché siamo gente disperata e ridiamo di continuo”.
Reagire alla disperazione con il sorriso, fare del sorriso la propria dichiarazione disperata. È l'atteggiamento dell'angelo al cospetto del diavolo, di Simona al cospetto della Morte, del comico al cospetto di ciò che diventa drammatico. È l'atteggiamento superficiale, futile, deleterio di una generazione che si sta accontentando di un immobilismo illosorio; ma può essere invece pratica salvifica se contribuisce alla piena consapevolezza di sé. Male e cura assieme, quindi.
Sprofonderemo ridendo o, ridendo, ci riconosceremo finalmente per quello che siamo.

 

 

 


NB. Autori o fonti delle immagini a corredo dell'articolo:

Andrea Macchia
https://www.facebook.com/pages/Maniaci-dAmore

 

Morsi a vuoto
drammaturgia Francesco d'Amore, Luciana Maniaci
regia Filippo Renda
con Francesco d'Amore, Luciana Maniaci
scene e costumi Eleonora Rossi
coproduzione Festival delle Colline Torinesi, Festival Castel dei Mondi di Andria
con il sostegno di Ludwig, Interno 5
e con la collaborazione di Fondazione TPE/Teatro a Corte
management Nidodiragno
lingua italiano, dialetto pugliese
durata 1h 10'
Napoli, Piccolo Bellini, 4 novembre 2014
in scena dal 4 al 9 novembre 2014

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